‘Uscire dalla violenza è il momento più pericoloso’ – Com’è lavorare in un centro antiviolenza

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Secondo l’Istat, in Italia il 31,5 percento delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della sua vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Quelle più gravi sono per la maggior parte opera di partner o ex. Nonostante questo, negli anni non è stato fatto molto per aiutare chi si occupa di arginare il fenomeno.

Sebbene l’Italia abbia ratificato la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, è ben lontana dalla sua piena piena applicazione. Il documento prescrive ad esempio che ogni Stato disponga di un posto letto in casa rifugio ogni 10.000 abitanti: nel nostro paese manca l’87 percento del numero previsto. Dall’altro lato, troppo spesso i centri antiviolenza (CAV) sono dimenticati dalle istituzioni, e il problema riguardante i fondi per finanziarne le attività è grosso.

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Raramente come in questi mesi di lockdown per il Covid-19 il tema ha ricevuto una tale attenzione a livello politico e mediatico, soprattutto per l’incremento delle richieste d’aiuto in tutto il mondo. Ma la violenza domestica nel nostro paese è un problema strutturale, non certo legato alla pandemia. Per capire cosa succede ogni giorno ho dunque contattato Mariangela Zanni del Centro Veneto progetti donna di Padova.

VICE: Si tende a parlare di violenza solo per statistiche o davanti a casi di femminicidi. Quali sono le storie che hai visto in questi anni al CAV?
Mariangela Zanni: Ne ho viste tante e diverse, ma con alcuni elementi in comune. Sono storie lunghe, di relazioni di coppia improntate sul controllo e sulla progressiva riduzione della libertà di muoversi, di decidere. Spesso la violenza non è costante nel tempo, magari è successa una o due volte e poi si è aggravata.

Molte donne dicono ad esempio che gli abusi fisici sono iniziati con la prima gravidanza. Prima però magari sono state sottoposte a violenze psicologiche, che sono anche le più difficili da riconoscere. Le donne raccontano che mano a mano hanno ricevuto divieti di poter incontrare le amiche, o che i rapporti con i genitori, magari invisi al partner, sono stati recisi o allentati.

Ci sono storie di violenza economica—casi di donne indebitatesi perché vengono loro intestati finanziamenti o fideiussioni che il partner non riesce a pagare, e quindi sono ancora più impossibilitate a interrompere la relazione. Donne a cui non vengono dati i soldi per fare la spesa o mangiare, o a cui vengono chiesti gli scontrini per dimostrare di non aver comprato cose non permesse. Insomma, un controllo costante su tutta la loro vita. E poi ci sono tantissimi casi di donne straniere, che dopo tanti anni in Italia vivono segregate e non possono uscire da casa.

Come entrano in contatto con voi?
Un centro antiviolenza gestito da operatrici donne e femministe prima di tutto è un luogo sicuro dove una donna può chiamare e chiedere informazioni. Abbiamo un numero di telefono a cui rispondono persone formate, che valutano la situazione e capiscono se è urgente o se si può fissare un colloquio di persona—questo ovviamente prima del lockdown, poi abbiamo mantenuto solo linea telefonica e Skype. A volte veniamo contattate direttamente dalle forze dell’ordine o dal pronto soccorso per casi di emergenza, e provvediamo a trovare una sistemazione per la donna.

Ci sono donne che chiamano per chiedere aiuto e poi non si fanno più sentire?
A volte chiamano, vengono al centro oppure telefonano alle forze dell’ordine, viene fissato l’appuntamento e poi lo disdicono o non si presentano. Ma non vuol dire che hanno mentito nel momento in cui hanno chiesto aiuto. Soprattutto quando fa richiesta in un momento di grande paura, capita che la donna riveda la sua decisione e torni a casa dal maltrattante, il quale molto spesso promette che non lo farà più. Questo tornare indietro è tipico del fenomeno: pensa che la violenza prima o poi finirà, e quindi aspetta.

Il che non significa che la situazione non sia grave. Mi ricordo il caso di una donna, che chiameremo Anna, che nel 2012 si era rivolta a noi. Aveva una bambina molto piccola, e aveva raccontato che il marito la picchiava quasi quotidianamente, le faceva violenza economica e psicologica molto forte. Le abbiamo offerto ospitalità in casa rifugio, ma dopo un primo colloquio non si è fatta più sentire. Due anni dopo è tornata, stavolta in emergenza perché il marito l’aveva minacciata di morte. L’abbiamo accolta, ma poi l’abbiamo dovuta spostare in una casa rifugio segreta perché il marito aveva scoperto dove si trovava e l’aveva inseguita.

Vi capita di ricevere chiamate di familiari o amici preoccupati per qualcuno di loro conoscenza?
Spesso ci chiamano genitori preoccupati per le figlie o amici o conoscenti che vedono delle amiche allontanarsi o soffrire e non sanno come aiutarle. Li supportiamo e consigliamo di non lasciare da sola la donna che ha subito violenza, di non forzare le sue decisioni, di essere presenti se chiede aiuto ma non obbligarla a fare il primo passo, perché deve essere lei a decidere di uscire da quella situazione. Quando una donna esce da una relazione violenta sa benissimo che si sgretola un mondo che prima era sicuro, e che dovrà affrontare un percorso molto difficile—non ne parliamo se ha figli.

Ci sono anche giovani che si rivolgono a voi?
Partiamo da un presupposto: la violenza è trasversale, attraversa tutte le fasce d’età. Guardando i dati dell’anno scorso, sono aumentate molto le donne sotto i 30 anni che ci chiedono aiuto (per venire da sole da noi devono comunque essere maggiorenni). A volte ci chiedono “Ma quello che sto subendo secondo voi è violenza?,” perché molte volte ad esempio la violenza psicologica non si riconosce subito.

Ma succede anche con quella fisica: c’è una percentuale uomini e donne in Italia che crede che lo schiaffo possa essere in qualche modo giustificato da un comportamento sbagliato della donna. Con l’operatrice si fa un percorso di rielaborazione di cosa vuol dire vivere una relazione violenta.

Comunque, il fatto che più donne giovani si rivolgono al CAV è positivo: non vuol dire che stiano subendo di più, ma che chiedono aiuto prima, nel momento in cui vedono le prime avvisaglie.

Com’è cambiata la situazione durante il Covid-19? Nei due mesi di lockdown c’è stato un aumento delle richieste rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Nelle prime due settimane per noi c’è stato un calo drastico delle telefonate. Abbiamo fatto di tutto per fare sapere alle donne che i nostri servizi erano comunque aperti, e a livello nazionale c’è stata una campagna di comunicazione massiccia sul 1522 [il numero nazionale per le segnalazioni di violenza e stalking] che non era mai stata fatta prima da parte del dipartimento Pari opportunità. Ed effettivamente poi hanno ricominciato a chiamarci. Le richieste arrivate in questo periodo sono state perlopiù di emergenza: donne che subivano una violenza molto grave e un pericolo imminente. Tra l’altro, trovare una sistemazione immediata è stato abbastanza complicato, perché le strutture che usavamo di solito erano chiuse; ci siamo dovute arrangiare anche tramite case vacanze di privati (la circolare del Ministero dell’Interno alle prefetture per individuare strutture per l’emergenza non ha avuto molto effetto).

Però intendiamoci: non è che questi casi ci sono stati perché un uomo chiuso in casa è diventato matto e ha iniziato a menare la compagna. Sono casi di donne che erano già in una situazione di maltrattamento, che la convivenza forzata ha in qualche modo esasperato. In una relazione dove c’è una parte violenta, l’abuso inizia da subito con il controllo, la gelosia, il possesso e la violenza psicologica.

Ad ogni modo, la nostra preoccupazione era che le donne non avessero possibilità di cercare supporto, perché magari prima chiamavano quando portavano i bambini a scuola o il marito usciva, senza questi momenti di libertà è più difficile. Molte ci hanno contattato tramite Facebook o Instagram, ma anche quello è un rischio.

Non è più sicuro chattare piuttosto che parlare al telefono?
Sì e no. In generale tendiamo a usare i social con donne che stiamo già seguendo e sappiamo essere al sicuro, con le nuove richieste è una questione delicata. Quando ci scrivono su Facebook, ad esempio, diciamo sempre di cancellare la conversazione. Considera che spesso la donna maltrattata deve dare al compagno la password del profilo Facebook o Instagram (se l’uso dei social non le viene direttamente negato).

Anche con il cellulare bisogna stare attente: noi consigliamo sempre di togliere il Wifi o la connessione dati alle donne che vengono da noi. Non sono cose da film: ci è successo di trovare uomini fuori dal centro che avevano seguito la donna con il Gps. Per questo servono operatrici formate, che sanno quello che stanno facendo e i rischi che corrono. Non ci si può improvvisare.

Qual è il momento più delicato per una donna che vuole liberarsi da una relazione abusante?
Sia noi operatrici sia chi è rimasto vicino alla donna fino a quel momento dobbiamo essere consapevoli che quello dell’uscita dalla violenza è il momento più pericoloso.

La giudice Paola Di Nicola ha equiparato le vittime di violenza ai testimoni di giustizia, e un po’ ci andiamo vicino: le donne muoiono nella maggior parte delle volte, quando provano ad abbandonare la relazione. Subiscono persecuzioni e a volte sono costrette a decisioni drastiche. Prendi il caso di quella donna, Anna, di cui ti parlavo: dopo anni in casa rifugio, viveva sempre con il terrore che l’ex compagno a piede libero potesse avvicinarsi a lei e alla bambina. Alla fine ha deciso di cambiare città, e adesso vive libera da un altra parte. È un caso estremo, per fortuna non tutte devono arrivare a tanto, ma a volte è l’unica soluzione.

In ogni caso, uscire dalla violenza si può. Ti racconto la storia di una ragazza arrivata in Italia tramite un matrimonio combinato quando era probabilmente minorenne, anche se dal documento risultava avere 18 anni. Una mattina ci hanno chiamate i carabinieri dicendo di essere al telefono con lei, che non parlava italiano e si era chiusa in bagno per chiedere aiuto perché il marito la picchiava. Abbiamo subito attivato l’accoglienza in emergenza in una casa rifugio, dove è rimasta due anni. Grazie al sostegno delle altre donne ha preso un titolo di studio e ha trovato un lavoro, e adesso è indipendente economicamente ed è sposata. Continua a essere in contatto con noi e ci invia amiche e conoscenti che hanno bisogno del nostro aiuto. È un caso che mi ha colpito, e che ricordo sempre quando penso a storie positive.

Il numero nazionale per le vittime di violenza o stalking è il 1522, disponibile per aiuti o consgli. Vai sul sito per maggiori informazioni.