Música

Com’è davvero vivere a Sanremo quando c’è Sanremo?

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Il tempio della sempiterna «melodia all’italiana» è ovviamente il festival che da oltre mezzo secolo si tiene nella città di Sanremo, la cittadina ligure pigramente adagiata a una ventina di chilometri dal confine con la Francia a cui la Guida Verde Michelin assegna le due stellette di rito in virtù delle «numerose possibilità di alloggio in alberghi e ville» che ancora profumano di belle époque. Sanremo, ci ricorda ancora la Michelin, è inoltre il «principale centro italiano del commercio floricolo»: Città dei Fiori, la chiamano. E poi c’è il Casinò. «Naturalmente», puntualizzano gli estensori della guida.

—da Superonda, di Valerio Mattioli , Baldini & Castoldi, 2016

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Nella sua storia segreta della musica italiana, Valerio Mattioli comincia a parlare molto presto del Festival di Sanremo. Ci arriva trattando la canzonetta, cioè quella composizione tipicamente italiana—melodrammatica e nostalgica, esotica e sentimentale—da cui si sarebbe pian piano evoluto l’informe grumo di artisti altri che mette al centro della sua storicizzazione. Parla del Festival, Valerio, usando termini legati alla religione: “vero e proprio tempio”, “autentico santuario”, “rito liturgico”. Così, ne sottolinea la qualità tradizionale: l’italiano va a messa per abitudine, anche solo per paura (“E se poi è vero?”); l’italiano guarda Sanremo per abitudine, anche solo per paura (“E se poi è interessante?”). Ma il collegamento Festival-liturgia ha senso anche perché in entrambi i casi lo spettatore-fedele viene a contatto con uno dei luoghi di produzione della sua identità nazionale. Non proprio quello che aveva in mente il gestore del Casinò di Sanremo quando, nel 1951, pensò di far cantare nel suo locale una ventina di canzoni a tali Nilla Pizzi, Achille Togliani e al Duo Fasano. Probabilmente non voleva fare altro che attirare un po’ di attenzioni sulla sua attività in un periodo di bassa stagione.

Il risultato, 68 anni dopo, è che la sua città è diventata una fucina di significato che, ogni febbraio, si riempie del ferro che sostiene l’impalcatura musicale italiana, la scioglie e la prepara perché possa essere versata in uno stampo praticamente identico a quello dell’anno precedente. Ma quando il fuoco è spento, come ha raccontato su The Towner Francesco Guglieri, Sanremo altro non è che un luogo normale e anonimo in cui vive gente normale e anonima, ripiegata su sé stessa come a suggerire una comunione d’intenti con la geografia che chiama “casa”:

I giri sono sempre abbastanza gli stessi: Sanremo è una città tutto sommato piccola, che non invoglia alle divagazioni eccessive. Per la sua conformazione, circondata com’è dalle montagne che la proteggono e ne mitigano il clima (a 20 minuti d’auto dal mare si è già a 1.200 metri d’altezza), adagiata alla confluenza di una serie di valli, è fatta tutta di salite, terrazze, scalinate sempre più ripide. Non ti regala niente, come sempre qui, tanto meno si lascia scoprire da visitatori distratti o supponenti. È chiusa, come una pigna.

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Quello che Guglieri descrive è un assembramento di vie faticose da percorrere, aggomitolate attorno a quello specchietto per le allodole che è l’Ariston: “un normale cinema di provincia”, lo chiama, con gli occhi disillusi di chi è sempre stato dietro alla cinepresa. Parla del suo “marmo verdastro” e “alluminio dorato” come simboli di “una città che stava vivendo il boom edilizio delle seconde case, il turismo di massa e l’immigrazione interna, e allo stesso tempo provava a tenere in vita l’eleganza blasée di quando era meta dell’aristocrazia inglese, russa e tedesca, e Sanremo era la logica prosecuzione della Costa Azzurra”. Insomma, l’Ariston come promessa di un’Italia fiorita e spensierata ormai inesistente, oggetto dell’ironia di generazioni impoverite e dell’adorazione di chi, invece, sospende più o meno consciamente la propria incredulità provando a immaginarsi nelle narici il profumo della città dei fiori.

Di Sanremo parlo con Virginia, la ragazza di un mio caro amico. Lei ci è nata e, guarda caso, porta un cognome botanico. Se n’è andata dopo il liceo, verso Milano, per il bisogno di vivere in una metropoli in cui potesse scoprirsi senza addosso gli occhi di nessuno. A lei la Pigna del centro piace, la definisce “il classico borghetto ligure scassato”. Vorrebbe che la valorizzassero e mi parla di “piazzette perfette per concertini, aperitivi meno tamarri”, invece dell’abbandono in cui versa. Sua mamma, che un tempo faceva la ballerina a Roma, ci è tornata e ora ci deve rimanere per crescere sua sorella. Anche suo zio è lì, ma non sembra avere la minima voglia di andarsene. Si chiama Carlo ed è il titolare di un ristorante sulla spiaggia. Scorrendo le fotografie caricate sulla pagina di Google del suo locale è facile spuntare tutte le caselle che vanno a definire la ristorazione marittima italiana meno rustica: spaghetti poggiati su carapaci, tartare vermiglie, sedie bianche, mise en place minimale, tumbler ricolmi di spritz, olive verdi e patatine. Ogni febbraio, la Sony lo riempie dei suoi musicisti selezionati per salire sul palco dell’Ariston.

“Pur non essendo in centro, il mio locale è in una buona posizione, sotto i grandi alberghi”, racconta. I musicisti hanno cominciato a venire spontaneamente, “vuoi perché c’era il sole, vuoi perché si trovavano bene”. La Sony ha poi formalizzato il tutto, creando quella che Carlo definisce “una buona collaborazione”. “Me ne trovo una decina ogni mattina”, dice, “ogni cantante che viene è almeno un tavolo da 12 o 13, con la mamma, il papà, il fidanzato, il marito che li segue, i manager. Magari anche qualche giornalista da incontrare”.

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Carlo ha quindi tutti i motivi per essere felice dell’esistenza del Festival, anche se è conscio dell’esistenza di un bias nel suo giudizio—”Oltre che da cittadino, forse io la vedo più da ristoratore che lavora sul festival”. La definisce “una fortuna”, dato che sono in pochi ad avere delle collaborazioni ufficiali con media ed etichette. Quando mi dice queste parole, gli ho appena chiesto se il carrozzone mediatico entra veramente in contatto con chi a Sanremo ci vive, o se sembra più una bolla dalla superficie solida che arriva, mangia, canta, commenta e se ne va. “La gente di qua vede un po’ di confusione e non riesce poi a integrarsi, a capire bene quello che succede tra loro”, dice. Ma non riesce davvero a non essere entusiasta.

Anche perché, mi dice, questa buona mano del destino gli ha permesso di conoscere bene tanti artisti. Non gli va di enumerarli, ma solo di citare il più importante: Lucio Dalla. “Quando era al festival, Dalla veniva qui a pranzo e a cena”, racconta. “Faceva un tavolo da una decina di persone, la sera venivano a trovarlo gli artisti. Lui è una persona innamorata del mare e di questo locale, a me e i miei genitori ci trattava proprio da persone… era una persona umanissima”, conclude, senza saper trovare un aggettivo a “persone”. Penso che ce ne starebbe bene uno come “normali”, così da confermare che a dividerci da chi fa spettacolo sia solo il caso.

Sua nipote, come altri ragazzi e ragazze, era tra quelli che andavano fuori dall’Ariston a chiedere autografi e foto a chi passava di lì. L’ultima volta, mi dice, è stata più o meno a quindici anni—nel 2006, quando tra gli obbligatori ospiti internazionali ci fu Jesse McCartney. Sul suo cranio i classici capelli da teen star, un caschetto con frangione asimmetrico mezzo biondo, e nella sua mano un microfono con cui cantare “Because You Live”, singolone d’amore adolescenziale sulla cui composizione mise le mani quel magnate del rock da classifica che fu Desmond Child (nel suo curriculum: “Livin’ On a Prayer”, “I Was Made for Lovin’ You” e “(Dude) Looks Like a Lady”, ma anche il token latino “Livin’ La Vida Loca”).

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“Ho fatto cose così, imbarazzanti”, racconta Virginia. “Ma è una cosa che fanno molti, fino a quindici, massimo sedici anni. Si va con le amiche fuori dall’Ariston, in mezzo alla gente tutta ammassata che fa la coda per vedere i VIP”. I cantanti? “No, no, i VIP”, mi dice. “Sanremo è una città molto piccola, un ambiente molto provinciale e attento all’immagine. La gente vuole apparire, si veste sempre bene e fa attenzione al mondo della moda e dello spettacolo”. La canzonetta affascina i grandi, i piccoli sono interessati solo a qualcosa di diverso—o illuminato dal fascino dell’estero, o non così piegato alle regole del melodramma mediterraneo da risultare irriconoscibile.

“Anche se c’è chi si lamenta, con una mentalità del genere al sanremese puro il festival non può che far piacere. È un evento che permette di avere i riflettori puntati, e checché se ne dica, un po’ ci gasiamo”. Mi parla di una città in cui non c’è molto da fare; “Bisogna trovare un modo di viverla, esplorando quello che ha attorno e non pretendendo da lei quello che non ti può dare”. Ogni parvenza di vita notturna al suo interno si sviluppa attorno a quella che chiama la piazzetta, piccolo nucleo di bar e locali da usare come termine di vasche per il centro. “Al sanremese più che il festival in sé, la manifestazione in sé, interessa tutto quello che c’è intorno”, dice. “I giovani lo guardano un po’ con ironia, però alla fine secondo me a molti fighetti fa piacere. È una gabbia d’oro in cui la musica passa in secondo piano”.

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Carlo, invece, ha tutto l’entusiasmo di chi ha passato decenni nell’accoglienza, e non riesce a concepire l’evento che definisce la sua vita lavorativa se non con entusiasmo. “C’è sempre stato”, mi dice, parlandomi di “leggende” familiari sul Casinò in cui il Festival si teneva prima dell’Ariston. Gli chiedo che cosa ha visto cambiare negli anni nel rapporto tra manifestazione e città, e lui mi parla addirittura di un aumento di attenzioni attorno a Sanremo nel corso degli ultimi quindici anni: “è diventato un grosso affare televisivo”, dice, per poi tornare alla qualità di comunanza cittadina insita nella spontanea creazione di folle che scrutano e spera di essere scrutate: “Poi, se vai in centro a passeggiare c’è strapieno”.

Questo fascino per un’abbondanza provvisoria che sembra trapelare dalle parole di Carlo e Virginia, figli di una città che, come tutte quelle i cui destini si basano sul mare che le lambisce, segue il ritmo delle stagioni. Evocano inverni e autunni arroccati nell’abitudine, con le “invasioni” dei milanesi e dei torinesi nei fine settimana—quelli che a Sanremo hanno comprato casa negli anni in cui le finiture dell’Ariston erano nuove di pacca. “Qua, in fondo, non viviamo solo noi” dice Carlo. Ed è vero, perché ogni anno Sanremo affitta pezzetti di sé, si ripulisce e riordina per accogliere nuovi inquilini. Alcuni poi tornano e ci passano del tempo, altri la osservano e basta. Ma nessuno ci si ferma, se non chi ci è nato e non ha trovato alcun motivo per smettere di credere nella canzonetta.

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