“Non è il ventennale, ma il ventennio di Wallace Records che si festeggia”, specifica subito Mirko Spino, prima ancora di sederci a uno dei tavoli del bar del Bronson di Ravenna. Precisazione tutt’altro che casuale, perché quello che si sta celebrando in questo inizio di 2019 non è un compleanno, ma è una storia lunga vent’anni che ha acquisito importanza disco dopo disco, concerto dopo concerto. “L’unico ventennio che conta”, come recita il manifesto della festa, dove si gioca tranquillamente con i font tipici del ventennio, l’altro ventennio. Una scelta irriverente come tutta la storia di quest’etichetta, che è entrata ormai in quella vecchiaia che poche label raggiungono in Italia, ma è pur sempre nata un 26 di aprile. E in vent’anni ha fatto (soprattutto) cose buone.
La nascita di Wallace Mirko l’ha già raccontata in diverse occasioni, anche a Noisey, e incredibilmente le versioni collimano: qualcosa di vero deve esserci, “anche se non ho aneddoti da aggiungere”. La provincia a cavallo tra Milano e la Brianza vissuta con i sogni e la forza dei vent’anni o poco più, la musica underground, quella fatta di pavimenti da pulire e suoni da inventare. E la voglia di buttarcisi in mezzo, di fare qualcosa per quella che forse non era una scena, o forse sì, tanto è infinito il dibattito su cosa sia una scena. Di certo, se qualcosa c’è stato e si è mosso, una buona parte di merito va anche a Wallace Records. Per Mirko, titolare unico di questa one-man label, l’etichetta era il modo di far parte di quella cosa, passare dalla fascinazione allo sporcarsi le mani, o di mettere le mani in pasta, dipende dal punto di vista.
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La missione è sicuramente compiuta, se si considera l’elenco di nomi clamorosi che hanno avuto almeno un disco con la faccia di Marsellus Wallace sopra. Basta scorrere il catalogo per avere un compendio dell’underground italiano, quanto meno dal versante “rock” (da intendersi inevitabilmente tra virgolette e a 360°), degli ultimi due decenni. E non solo italiano, a dire il vero, se si considera che già solo alla quarta uscita compariva in catalogo una band come gli Oxbow. “Già, ai tempi ero bravo. E comunque mettersi d’accordo con Eugene Robinson è proprio facile. Ci arrivai attraverso i White Tornado: ero in contatto con loro, avevano una registrazione con gli Oxbow, poi sono andato a New York a vederli dal vivo e via. Peraltro il programma era: ore 19 Oxbow, ore 20 Arab On Radar. Dopo non mi ricordo più niente, e non mi importa neanche. Il ricordo successivo è essermi seduto qua oggi, vent’anni dopo”.
Stranamente, ma non troppo, le uscite straniere arrivano subito e si diradano dopo: l’undicesima sono i croati Uzrujan, la 13esima gli Old Time Relijun, la 23esima i Rollerball. La direzione più locale arriva col tempo, ma non è una vera e propria scelta. Forse solo un caso. “Non sono partito con un’idea chiara. I gruppi che mi piacevano e con cui ero in contatto, li pubblicavo. A tutt’oggi, se ci fosse un gruppo straniero che mi piace e potessi fargli un disco, lo farei. Non è cambiato nulla, è solo che ai tempi ascoltavo più musica, ero più curioso e soprattutto più entusiasta della nuove scoperte. Anche oggi ascolto una marea di gruppi nuovi ma non mi esalto a tal punto, e non sono nemmeno più così teenager da scrivergli: ‘ciao, il vostro disco è bellizzimo, mi piacerebbe tanto lavorare con voi’. Forse non faccio più questa cosa qua, e sbaglio”.
Lavorare con gruppi perlopiù italiani non significa però che le pubblicazioni di Wallace siano rimaste confinate allo stivale. Capita anzi di trovarle dall’altra parte del mondo, di vedere acquirenti americani che si spennano per acquistare uscite a prezzi irragionevoli, di incontrare ascoltatori nei luoghi più inaspettati. “A Santiago del Cile andai a ritirare in aeroporto a ritirare l’auto che avevo prenotato online. L’agente andino dell’autonoleggio compila le scartoffie, guarda il mio indirizzo e-mail e mi chiede se lavoro per Wallace Records. Io ero in jet-lag, erano le sei del mattino, e lo liquido velocemente dicendo che è l’azienda per cui lavoro. Al che mi chiede: ‘Pornography?’. Mi preoccupo, siamo pur sempre in frontiera, e specifico subito che si tratta solo di un’etichetta musicale. Lui sorride e dice: ‘Yes, the band. Pornography’, richiamando addirittura la seconda uscita del catalogo Wallace, anno ’99: un disco che mi piaceva tantissimo, ma che credo abbia venduto sei copie in totale. Come una di queste potesse essere arrivata a Santiago non sono mai riuscito a spiegarmelo. Ci siamo salutati con cordialità e mi sono allontanato. Sono rimasto zitto per un’ora”.
Il fatto è che con il trascorrere del ventennio Wallace ha saputo costituirsi un’identità chiara, che riesce però a prescindere completamente dai generi. A dare il volto allo stile Wallace sono soprattutto le persone, c’è una specie di comunità che attraversa questi due decenni, ne costituisce un’ossatura. “Sono le prime band, o meglio le prime persone, perché faccio nomi di gruppi intendendo tutti i loro derivati. Se si guardano i primi venti numeri di catalogo, ci sono già dentro i RUNI, i Madrigali Magri, i Bron y Aur, A Short Apnea e tutto il filone Tasaday, in qualche modo anche i Rosolina Mar… e i Sedia/Gerda, gli Anatrofobia. Ce ne sono altri di cui sono orgogliosissimo, penso a Satantango/X-Mary, Agatha, Ultravixen, ma in questi casi non si potrebbe parlare di un filone Wallace. Se pensi ai Bron y Aur, a Xabier Iriondo o a Paolo Cantù, sono nomi che hanno attraversato e generato un’infinità di progetti”.
È come se Mirko Spino avesse scovato una miniera d’oro. Il suo “filone” affonda le radici in un luogo e in un’epoca ben precisi. Milano e la sua provincia, gli anni Novanta. Anni che a guardare la Milano di oggi non si potrebbero nemmeno immaginare, quando fermento e collaborazione erano all’ordine del giorno: ci si conosceva, ci si ascoltava, ci si parlava. Wallace è nata da lì, inevitabilmente. Band come i Six Minute War Madness (che stranamente sono entrati in catalogo solo anni più tardi con una ristampa), luoghi come il Bloom di Mezzago, quando la provincia anziché annoiata era creativa. “All’inizio davo una mano ai Six Minute War Madness a cercare le date, in un periodo in cui passavo a casa di Paolo Cantù tutte le sere per rubargli i dischi e a dargli una mano con le date. Con uno di loro avevo pure un lontano grado di parentela, ma in realtà ci siamo conosciuti perché ascoltavo la musica underground”.
Il concetto di underground, insomma, più ancora che quello di scena, è ciò che demarca la differenza nell’attività di etichette come Wallace. È uno scopo, uno stile, un’idea… e un dibattito lungo decenni, che affonda le sue radici nel momento stesso in cui la musica è diventata una voce di mercato. “Nella mia storia la musica underground è la metà dimenticata dei Nirvana. Prendo i Nirvana come gruppo simbolico, non per una particolare importanza, ma perché arrivano da quella storia lì e però negli anni Novanta sbarcano su MTV in maniera preponderante, e aprono la strada ai vari Henry Rollins, Mudhoney, persino i Sonic Youth: MTV è disposta a metterli perché la gente sta ascoltando quella roba lì, un mondo vagamente ‘nirvanesco’. O così credo io, poi bisognerebbe chiedere a chi faceva la programmazione di MTV, anzi di Videomusic”. Un 30 percento dei Nirvana che, nel caso di Mirko Spino, ma si potrebbe ampliare ad un’intera generazione, diventa la porta per arrivare ad ascoltare altro. “Scoprire altri mondi. Che ne so, arrivare alla Epitaph, che per assurdo faceva musica peggiore rispetto ad altri, però era un’etichetta indipendente e da lì era un attimo arrivare all’indipendenza come concetto politico rispetto all’industria. Anche perché in tutto ciò avevo vent’anni e stavo scoprendo la politica”.
Un approccio politico alla produzione musicale che oggi forse si troverebbe più facilmente, quando di band dai grandi proclami (spesso destinati a spegnersi nel giro di pochi click) sono pieni i social network. Venti anni fa la situazione era probabilmente la stessa per quanto riguarda i proclami, mancavano però i mezzi per farli. Il ventennio Wallace è anche il passaggio a ritroso dalla sovra-esposizione in rete indietro sino alle scelte dei caporedattori delle riviste. “C’è una copertina di Rumore che mi è rimasta in testa, con i Sonic Youth e i Fugazi. I Sonic Youth avevano appena firmato per Geffen, mentre i Fugazi… lo sappiamo bene. Il tema non era parlare di queste band ma dire: è meglio continuare la propria carriera come i Fugazi oppure han fatto bene i Sonic Youth? Al di là della risposta, che nemmeno ricordo, mi stupiva che si parlasse di questo ai tempi. Ci si chiedeva se sputtanarsi (cosa peraltro che i Sonic Youth non hanno mai fatto, a differenza di quasi tutti gli altri) oppure continuare tagliandosi i coglioni, perché anche per il prossimo disco non avrai tutti gli pseudo-vantaggi che ti garantirebbe la grande industria. Posso capire che oggi questo discorso possa sembrare fuori dal tempo, ma mica troppo. Oggi hai la possibilità di far ascoltare il tuo disco a tutto il mondo, ma il problema è lo stesso: il mondo lo ascolta?”. Cambiano i mezzi di produzione e pure quelli di comunicazione, ma la diversità ideale rimane ancora viva, persino per chi produce musica da oltre vent’anni, e magari ha le idee confuse anche più di allora. “Francamente non ho idea di cosa sia la musica underground nel 2019. Di per certo so che non è quello che fa la Wallace. Nel senso che a tutti gli effetti è musica underground, un’etichetta indipendente, ecc… ma di fatto non è musica non commerciale, è semplicemente musica che non si caca nessuno. Che poi è sicuramente un modo per essere non commerciali, in effetti”.
Venti anni però sono un’enormità. Le etichette puramente underground in grado di andare avanti a questi ritmi per due decenni non sono certo la normalità. “Un po’ si va avanti per inerzia, queste etichette continuano a fare quello che sanno fare. Io continuo a lavorare coi miei collaboratori storici, ma è estremamente difficile che io prenda qualcosa di nuovo. Resto in una comfort zone“. A quel manipolo di figure che hanno messo le fondamenta di Wallace in effetti si sono succeduti un gran numero di nomi, eppure da qualche tempo la strada di Mirko Spino sembra essere tornata alle origini. Le proposte continuano ad arrivare, e Mirko sostiene di ascoltarle ancora tutte. I live, quelli sì, sono sempre meno, e il trasferimento nell’entroterra romagnolo forse li ha allontanati ulteriormente, ma non sono mai stati i concerti a far scoprire le band.
I soldi non ci sono (quasi) mai stati, la loro scarsità può forse spiegare qualche rallentamento nel numero di uscite, ma resta il fatto che anche vent’anni dopo Mirko ha ancora voglia di pubblicare dischi. “Se mi dovessi rompere il cazzo smetterei subito. Quello che continua a piacermi è l’eterogeneità. Se dovessero presentarsi dei nuovi Camillas li farei eccome. Così come coprodurrò il prossimo disco di Daniele Brusaschetto, che è un disco metal vecchio stampo, anche perché un catalogo non si può chiamare tale se non contiene almeno un vero gruppo metal. Amo l’eterogeneità, però non riesco ad entusiasmarmi granché per le nuove proposte che mi arrivano, ma questo è un limite mio. Oltretutto non credo di avere la struttura giusta per poter dar loro visibilità. Wallace è un’etichetta che non ha attrattiva per un gruppo che fa una roba veramente nuova, perché non ho il pubblico. Anche se poi se ascolti la nuova compilation vedi che si parte coi Gerda e subito dopo ci sono gli Anatrofobia, l’eterogeneità rimane bella forte. Cosa hanno in comune queste band oltre all’etichetta? Il pubblico di certo non ce l’hanno, solo in quei pochissimi spazi all’avanguardia potrebbero trovarsi a suonare sullo stesso palco, e avrebbero venti persone davanti”.
Il segreto della longevità di Wallace Records sta nella solidità delle sue radici. È quello che permette a Mirko di continuare ad andare avanti, c’è un solidissimo legame di fiducia che lo unisce agli artisti con cui è cresciuto l’intero pubblico dell’etichetta. Tanto che capita spesso che le band si presentino con i mix già pronti: Mirko oggi si limita a dare un parere, discutere insieme la grafica e ragionare sulla distribuzione. È un cambiamento importante avvenuto con gli anni, che si percepisce anche osservando la progressiva scomparsa delle collane particolari di Wallace, come i Phonometak e i mini-cd delle Mail Series. “Il punto è che per progetti del genere era l’etichetta a decidere, non gli artisti. Se arrivava uno a dirmi: ‘guarda che il mio disco è troppo lungo per la mail series’, io rispondevo ‘no, col cazzo’. Quello oggi manca perché non ci sono più quel tipo di label. Io queste cose le ho imparate dalle etichette prima di me, ad esempio da Pandemonium, di Marsiglia, che aveva fatto la serie di 7” fichissimi chiamata Erase-yer-Head. E lì mi sono detto: anche io faccio le serie. Oggi non so chi le farebbe”.
A complicare le cose c’è anche una crisi della produzione materiale vera e propria. Le fabbriche di dischi spesso non hanno nemmeno più i mezzi per fare i 7″ o i 10″. E pure per le cose di cui dispongono dei mezzi, non è detto che il risultato riesca. Capita sempre più spesso che le produzioni underground corrispondano a dischi in vinile inascoltabili. “Ma questo è un problema per noi, molto meno per il grosso del pubblico, che tanto non li ascolta. Era uscita una statistica qualche tempo fa, non ricordo dove, che sosteneva che il 60% degli acquirenti di dischi in vinile non ha un piatto. E l’altro 40% non è detto che ascolti il disco. Quindi è possibile che ad ascoltarlo siano il 10% degli acquirenti di un disco, che è oltretutto un formato molto costoso e poco redditizio. Ma il problema non è solo del vinile. Mi è capitato di parlare con una band che ha pubblicato una nuova uscita in cassetta: ne hanno fatte quasi mille e le hanno fatte fuori in un tour. Solo che erano uscite difettate ed erano vuote: sette persone gli hanno scritto. Metticene se vuoi anche altre venti che si sono limitate a mandarli affanculo, solo sette persone hanno chiesto il rimborso o la sostituzione. A essere ottimisti, l’hanno ascoltata in cinquanta”.
Lo spazio per sperimentare però resta, magari cambia solo direzione. Si pensi ad esempio al progetto BM10 con cui Boring Machines ha celebrato il suo decennale (o decennio?) lo scorso anno: quattro uscite in edizione limitata, una per stagione, senza alcuna informazione scritta. Le label sono inevitabilmente lo strumento unico per mettere in pratica queste sperimentazioni. “Un’etichetta deve avere già una sorta di credibilità per metterla in pratica. Per dire, io avevo fatto questa roba dell’abbonamento. E aveva persino funzionato bene, in termini di mio autolesionismo almeno. Siccome vedevo che appena pubblicavo i dischi c’era quella ventina di persone che se li compravano tutti, gli ho proposto di prenderli in abbonamento. Mi pagavano un centinaio di euro per una sorta di carnet di 10 uscite. Ogni disco che facevo glielo mandavo, senza nemmeno che me lo chiedessero. Economicamente è stata una minchiata, ho venduto a un prezzo inferiore dei dischi a quelli che me li avrebbero comprati comunque a prezzo pieno, però ai tempi avevo un lavoro, rientrarci dei soldi mi preoccupava meno. Conta che stiamo parlando di 20/25 persone: metà li conoscevo già e l’altra metà l’ho conosciuta, e mi fa piacere che alcuni abbiano partecipato al crowdfunding di Tracce XX nonostante non ci sentissimo da più di 10 anni. L’onda lunga funziona”.
Quello che non si è ancora compreso, forse perché una risposta inequivocabile non c’è, è se il trasferimento di massa sul web sia poi un vantaggio o meno, per sperimentare o anche solo per pubblicare e diffondere. Wallace Records in rete è praticamente un fantasma. C’è un sito curatissimo e basta, persino il Bandcamp ha chiuso. L’obiettivo di Mirko sarebbe ancora più drastico: scomparire dalla rete. “È una cosa a cui penso, credo che potrebbe dare un senso, fosse anche finale o morente, all’etichetta. Il punto è che se io non faccio un disco non servo a niente. E non parlo della musica, che si muove liberamente, ma proprio della materia fisica. Wallace ha vent’anni, morirà con me e probabilmente in tempi anche brevi, e io non sono capace, non amo seguire le vie del digitale. Continuo coi dischi, anche in antagonismo col digitale. Il problema è che scomparendo dalla rete tocca essere super-presenti nella realtà. Io la mia storica valigia del banchetto ce l’ho ancora, ma tanto l’ho sempre abbandonata lì per bere Cynarotto durante i concerti. Quindi magari non sarò io, che non è che posso girare come un ambulante, ma possono girare le band. A un certo punto io avevo preparato il Wallace Box: ad ogni gruppo che girava avevo spedito una scatola con due copie per titolo, ‘portate in giro il verbo’. Se funzionava, loro arrotondavano il banchetto e facevamo 50/50. Per un po’ l’ho fatto, solo che io ho il mio file excel che gira da solo, la band assolutamente no. E stare dietro a cinquanta Wallace Box era un delirio, però era un buon modo per distribuire”.
Si torna inevitabilmente alla dimensione live. Non solo come senso di vita per una band, ma pure come principale canale di distribuzione per una label. Per oltre un decennio Mirko si è visto in prima fila, o più spesso al bar, in quasi tutti i concerti underground milanesi, spesso e volentieri dando il proprio contributo. La sua casa di Trezzano Rosa era il pied-à-terre per tante band di passaggio, anche con esiti particolari, come quella volta che gli anziani vicini di ringhiera rimasero interdetti dalle maschere dei Lightning Bolt appese sul balcone dopo il bagno di sudore del concerto. “Rimasero straniti, da quel momento è scattata la mia fama di satanista o comunque di persona con scarsi valori cristiani”. Una fama destinata a peggiorare drasticamente poco tempo dopo, in occasione di un passaggio milanese di Dälek, addormentatosi ubriaco sul sedile posteriore dell’auto di Mirko nel ritorno a casa. “Quando ho tentato di farlo scendere non c’è stato verso di smuoverlo, ha insistito per rimanere a dormire lì. Non aveva calcolato che le notti di dicembre nella pianura padana possono diventare sgradevoli. La mattina prima di andare recuperarlo sono andato a far colazione nel bar dei vecchi di fronte a casa. È lì che ho scoperto che nel bel mezzo della notte Dälek che si è svegliato semi-congelato ed è iniziato a cercarmi per le vie corti dei dintorni. Non sapendo dove abitavo si è piazzato in mezzo alla via a urlare. Potete immaginare il mio vicinato come può aver reagito, tuttora forse credono che ci sia stato un tentato attacco terroristico nel paesello”.
Ma al di là degli incontri, spesso fulminanti, il futuro di Wallace non è certamente nell’organizzazione dei concerti. Esperimenti come il Tago Fest, il festival fatto direttamente dalle etichette di cui Mirko fu tra i primi promotori, appartengono ad un’epoca ormai passata. “Ci si incontra meno, si parla meno, si collabora meno. È un normalissimo cambiamento, non una crisi. O forse sono solo cambiato io. Persino le coproduzioni, oggi le lascio del tutto in mano alle band. Una volta quando facevo una coproduzione conoscevo tutti, si formava spontaneamente una cordata: Wallace, Bar la Muerte, Burp, ecc. Farlo insieme dava un’identità al disco. La musica, come il porno, continuerà a esistere e a venire prodotta. Continuerà ad esistere chi fa musica, l’interesse per la musica, è una sorta di bisogno primario. Abbiamo vissuto l’epoca della diatriba tra major e possibili vie DIY eticamente indipendenti, come l’epoca della smaterializzazione. L’etichetta come concetto è destinata a sparire, o a diventare altro. Però immagino che ci sia un motivo se siamo qua a parlare di Wallace e non di qualche altra etichetta giovanissima. E non è solo perché abbiamo 40 anni e passa: dove la leggo un’intervista non a una band ma a un’etichetta di 25enni che pubblicano band di 25enni? Se esiste mandatemi un link perché la voglio leggere assolutamente. Se non esiste, forse è perché questo concetto di etichetta ha chiuso con la nostra generazione, basta”.
Il dubbio a questo punto riguarda il futuro più prossimo. Stiamo festeggiando il ventennio di un’etichetta in un’epoca in cui ci si interroga su quale possa essere il futuro delle etichette. E se la produzione e la distribuzione hanno trovato nuovi canali, in diversi casi più “facili”, continua ad essere necessario un marchio di riconoscibilità. Il fatto che le abbiamo chiamate da sempre “etichette” non è casuale, ed è in fondo ciò che ancora definisce la diversità dell’underground. “Ogni ascoltatore ha i suoi riferimenti che siano etichette, giornalisti, blogger, account social… e forse al giorno d’oggi più etichette che giornalisti. È il ruolo che un tempo svolgeva l’amico che ascoltava tante cose e aveva tanti dischi. Non è l’ufficio stampa, perché quello è un lavoro, e il guadagno romperebbe il rapporto di fiducia. Io mi posso affidare a te se so che quello in cui tu credi vale, se invece lo fai per lavoro il tuo scopo è monetario. Con la Wallace, così come con tante etichette underground, un rapporto di fiducia lo puoi avere. Idem con tanti blogger o giornalisti, ai quali devo tanto. Sono le persone che ti dicono che cosa potrebbe piacerti, non che cosa ti piace. Quello lo fanno le major”.
Questa sera Wallace Records celebra il proprio ventennio con una festa. Al Cox18 suoneranno tanti di quei volti che costituiscono le fondamenta dell’etichetta: Tasaday, RUNI, X-Mary, Anatrofobia, Makhno e Xabier Iriondo. Nomi che si sono affacciati più volte nel corso di Wallace Records Radio, il podcast in 10 puntate ideato e curato da Chiara Mattioli e musicato da Paolo Cantù che si è concluso il 26 aprile, giorno del ventesimo compleanno. Al podcast vengono aggiunte oggi due puntate extra, sono quelle destinate a raccogliere tutti i pezzi di Tracce XX, la compilation che segue, venti anni dopo, quella Tracce che fu la prima uscita assoluta in catalogo. “Non è una celebrazione, è una fotografia di questo momento. Fatta questa guardo già alle prossime uscite e via. È un modo per dire che ci siamo ancora, questi gruppi ci sono, spaccano. Magari è una compilation démodé, ma è ancora fica. Ho scelto io tutti i gruppi, cui ho chiesto pezzi inediti che poi ho associato io, proprio come nella prima Tracce. Per farlo ho sperimentato il crowdfunding, che di fatto avevo già usato nel 2003 per il Kaspar Project, prima che venissero create le varie piattaforme online. Oggi mi ha permesso di testare, capire se vale ancora la pena, ma è ovvio che non è qualcosa che posso ripetere per le prossime uscite. Magari tra dieci anni sì, per Tracce XXX, che ovviamente non sarà audio… ma la serata di lancio sarà molto più interessante!”.
Grazie a Cauz, Andrea Marutti e Giallo per le foto.
Filip J. Cauz scrive di musica e ciclismo per questo e per quello, soprattutto per Zero e per Bidon, il magazine di “ciclismo liquido” che ha contribuito a fondare. Seguilo su Twitter o per strada mentre pedala.
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