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vita vera

L'incredibile storia di Matteo Swaitz tra rave illegali, TruceKlan e cinema porno

La biografia di Matteo Swaitz incarna passaggi epocali della cultura non ufficiale italiana: pioniere della scena rave illegale di Ostia, autore dei primi video del Truceklan e regista porno, l'abbiamo intervistato.

Foto per gentile concessione di Matteo Swaitz.

Gli appassionati di rap italiano Matteo Swaitz lo conosceranno in qualità di membro esterno di quella famiglia allargata che è (fu?) il TruceKlan; quelli di cinema hardcore, per essere uno dei registi della scuderia di Silvio Bandinelli, il produttore a cui si devono bizzarre pellicole porno-antifasciste tipo Mamma; i fanatici di tatuaggi, lo ricorderanno per cose come Centocelle Ink, la serie di Flop TV nata come parodia borgatara del docu-reality Miami Ink; infine, i più attenti lettori di VICE, ricorderanno di aver incrociato il suo nome in un mio recente articolo su Torazine.

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Più in generale, Matteo Swaitz ha condotto una vita, se non avventurosa, quantomeno movimentata: cresciuto nella Ostia post- Amore Tossico, è stato uno dei pionieri della scena techno-illegale italiana, ha fondato fanzine oggi semidimenticate come Peti Nudi, ha regalato alla filmografia hard pellicole come Lotta di classe e Mucchio selvaggio, e per qualche tempo è stato pure in galera. La sua biografia ha il respiro epico della vicenda personale che riflette e anzi incarna passaggi epocali della cultura non ufficiale italiana. Era tanto che pensavo di intervistarlo, un po' per rievocare alcuni snodi che tanto hanno influito sull'immaginario underground (ma non solo) di casa nostra, un po' perché lo considero veramente una specie di unsung hero al quale, fossi un romanziere, avrei già dedicato un Limonov con Lory D al posto dei poeti russi e il litorale romano al posto della Bosnia periodo guerra civile. Alla fine l'ho incontrato nel suo studio al Quadraro, periferia sud di Roma: come da previsioni, è stata una chiacchierata molto lunga.

Con la storia qui raccontata i Coil

non c'entrano quasi nulla, ma visto il titolo del pezzo mi sembrava doveroso cominciare così.

Non ricordo esattamente come e quando ho conosciuto Matteo. Ma sono quasi sicuro sul dove: Ostia. Per la maggior parte dei romani, è il quartiere che significa domeniche in spiaggia e pranzi di pesce con vista sul mare non proprio scintillante del Lido. Ma c'è anche tutta una mitologia parallela che scorre a fianco delle cartoline raffiguranti gli impianti balneari, le palazzine di Adalberto Libera e le rinomate trattorie à la Dar Zagaia. Episodi come l'omicidio di Pasolini, per dire. O film come il già citato Amore Tossico di Claudio Caligari, che per Matteo significa "il vero anno zero, l'evento all'inizio di tutto." E infine la Ostia dei rave, degli interminabili weekend sotto MDMA e del centro sociale Spaziokamino poi ribattezzato "il tempio della pezza". Di questa Ostia (che è poi l'unica Ostia che mi sia mai interessata), Matteo è per me immagine e assieme memoria storica, per quanto i ricordi siano offuscati dalle troppe pasticche ingollate.

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Oltre che di droga, techno, rap, galere e atti sessuali espliciti, la storia che segue è infarcita di pischelli e coatti, due termini che in italiano tradurremmo con "ragazzi" e… bah, più o meno "tamarri", ma di cui in realtà è difficile rendere le sfumature, perlomeno ai non romani. Diciamo che qualcosa potete intuirlo dal clima evocato da Matteo quando parla della Ostia di fine Ottanta/inizi Novanta, a cui tutto inevitabilmente riconduce. "Era assieme bellissima e terribile. Un po', era ancora la Ostia del film di Caligari: eroina ovunque, tossici, personaggi tipo Il Capellone che all'epoca era il mio mito. Poi c'erano le comitive dei coatti, i pischelli come me, borgatari che passavano le giornate ai vari muretti di zona e che si alimentavano a spaccio e violenza spicciola. E infine i naziskin, che erano tantissimi, organizzavano le ronde e picchiavano chiunque portasse i capelli lunghi o sembrasse anche solo vagamente strano. Insomma, era un inferno".

Da bravo coatto di periferia, all'inizio Matteo conduceva "la solita vita: la comitiva, il muretto, il bar, gli amici fascistoidi. Roma era lontanissima, arrivarci era un'impresa. Però c'erano le droghe, che servivano ad attutire il senso d'ansia dato dal passare le giornate a non fare un cazzo. Poi a 19 anni presi un trip di troppo e ci rimasi sotto. Per capirci, ebbi la più classica delle crisi esistenziali, e decisi che con la vita da coatto avevo chiuso. Basta comitive, basta non fare un cazzo. Per fortuna c'era la techno".

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A Roma c'è un prima e dopo Cristo, un prima e dopo Totti, e anche un prima e dopo Lory D. Sapevatelo.

È una storia che è stata raccontata centinaia di volte, anche se forse in pochi ne comprendono tuttora la portata: a partire dal 1990, a Roma si sviluppò un fenomeno sia musicale che genericamente "umano", i cui protagonisti si chiamavano Lory D, Leo Anibaldi, Marco Micheli, Andrea Benedetti, Max Durante, i fratelli D'Arcangelo, e la chiudo qui per non farla troppo lunga. Furono i pionieri del primo movimento techno italiano e gli alfieri di quello che poi andrà sotto la sigla "il suono di Roma", diffuso ai quattro angoli della capitale dall'emittente Radio Centro Suono il cui programma Centro Suono Rave vantava più ascoltatori di qualsiasi RDS o Radio Deejay. Vennero organizzati i primi rave nei club, nascevano negozi specializzati come Remix, spuntavano etichette come Sounds Never Seen e ACV, e tizi come Aphex Twin venivano e prendevano nota. Più tardi arrivò il Virus di Freddy K, il cui slogan "Viruz – e lo saiz!" fu l'autentico grido battaglia delle periferie romane perlomeno fino alla metà del decennio.

Ai coatti la techno piaceva, si capisce. Qualcuno ha anche incolpato l'elevato tasso di coattume ai primi rave per la fine della stagione eroica del movimento, databile più o meno attorno al 1993. In ogni caso, per quel coatto sulla via della redenzione che di nome faceva Matteo Swaitz, "la techno era tutto. Mi fulminò proprio. Era una cosa inaudita, potentissima, e la facevano a Roma, quindi era una cosa nostra. Non era manco la solita storia degli italiani che arrivano per ultimi: al contrario, era tutto in diretta, ti sentivi al centro del mondo. Io passavo i pomeriggi ad ascoltare le cassette di Centro Suono Rave, andavo alle feste, mi facevo il viaggio fino a Remix per comprare i dischi, cominciavo a suonicchiare un po'… Era proprio un bisogno, più che una passione."

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Intanto, abbandonata la comitiva al suo tristo muretto, il pischello Matteo comincia a frequentare Spaziokamino, il centro sociale occupato che nella Ostia delle ronde fasciste e delle bande di naziskin doveva sembrare, più che un baluardo di resistenza, una specie di covo di disperati. L'idea a quel punto è semplice: "con un paio di amici incontrati lì dentro—Ivan e il Secchetto—decidemmo che, visto che dei rave cosiddetti commerciali ci eravamo stancati, era arrivato il momento di farci le feste da soli. Insomma, di portare la techno al centro sociale. Era anche un modo per aprire Spaziokamino ai pischelli del quartiere, insomma ai coatti con cui dopotutto eravamo cresciuti, e che dei concerti reggae e delle campagne terzomondiste se ne fregavano. Non che nei concerti reggae ci sia niente di male, eh? Cioè, almeno credo".

La reazione prevedibilmente non fu delle migliori: "la techno era considerata la musica dei coatti, dei fascisti e dei drogati. Noi fascisti non lo eravamo, però musica e droga le rivendicavamo eccome. Quindi ci furono assemblee finite quasi in rissa, gente che se ne andò disgustata, riunioni, scazzi… però alla fine ce la facemmo." Di lì a qualche tempo, mezza Roma avrebbe imparato a conoscere Spaziokamino col più technoide nome di SPZK, o meglio ancora col già citato appellativo "tempio della pezza", di suo eloquente assai. I ragazzi di Ostia poi, erano tipi che—come dire—si facevano notare: "Una volta, durante la festa del raccolto al Forte Prenestino [ la festa antiproibizionista che si tiene al noto centro sociale di Centocelle], con migliaia di persone presenti, arrivammo reduci da un rave e in pieno fanatismo chimico esponemmo uno striscione recitante ERBA ROBA DA CONIGLI, con una pasticca disegnata sopra. Gli amici del Forte si sono messi le mani nei capelli. Qualcuno ha riso, ma altri penso ci giudichino ancora dei totali idioti." Il nome ufficiale era Ostia Rioters.

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Spaziokamino.

Per inciso, Ostia non era l'unico luogo in cui, nella Roma dei primi Novanta, si tentava l'allora indicibile binomio techno-posti occupati: a Primavalle, periferia nord-ovest, stava succedendo qualcosa di simile col collettivo Hard Raptus, e le due realtà fecero presto fronte comune, nonostante i 30 chilometri e passa di distanza: "Roma Nord per noi era quasi un altro pianeta," racconta Matteo. "È anche un posto pieno di gente di merda, per quanto mi riguarda. A parte Primavalle, ovvio." Se non lo sapete, da Hard Raptus sarebbe poi nata quell'etichetta splendida che ancora adesso è Minimal Rome.

Credo di non sbagliare se dico che Ostia Rioters, Hard Raptus e soci furono i principali responsabili di quel fenomeno realmente impressionante che va sotto il nome di "rave illegali alla romana". Anche qui, si tratta di una storia al tempo stesso celebrata a più riprese, eppure essenzialmente misconosciuta. Forse non aiuta il fatto che di fenomeno quasi unicamente romano si trattò: perché in effetti "fuori da Roma era il nulla. Tempo dopo cominciarono a muoversi anche le altre città, a Milano ci invitarono quelli del Conchetta, e quando potevamo giravamo. Però agli inizi eravamo un caso abbastanza isolato, almeno in Italia".

I BPM sparati da Ostia e Primavalle si sarebbero presto diffusi per (quasi) tutta la periferia romana, fuori e dentro il GRA. Anche perché la regola di ogni sano raver "illegalista" era quella di battere la città alla ricerca di spazi in disuso—principalmente fabbriche e capannoni abbandonati—adatti a ospitare feste che, di serata in serata, si facevano sempre più partecipate. Meglio ancora: gli illegali divennero una faccenda letteralmente di massa.

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Fu davvero un'esplorazione urbana su larga scala senza precedenti. "Scoprimmo posti per noi ignoti fuori dal Raccordo Anulare, quartieri di cui manco sospettavamo il nome, luoghi assurdi dimenticati da tutti," ricorda Matteo, e il risultato fu il più tellurico sommovimento psicogeografico che la città di Roma (e credo l'Italia) abbia mai conosciuto. Pischelli che avevano passato l'intera loro esistenza nella borgata di provenienza, e il cui unico contatto con la città ufficiale restava la passeggiata del sabato pomeriggio a via del Corso, si radunavano nelle macchine dei pochi patentati a disposizione per macinare chilometri in direzione di posti dai nomi esoterici come Tor Cervara, Bufalotta, Castel Romano, e dio solo che altro posto inculato. La Roma dei monumenti, degli acquedotti e delle faide tra quartieri, diventava l'immaginaria megalopoli delle periferie infinite e delle aree industriali nascoste tra i piloni degli svincoli autostradali. E così ogni sabato, tutto a suon di techno. A Lory D e gli altri eroi del Suono di Roma va senz'altro riconosciuto il merito di essere stati i primi a diffondere una cultura musicale la cui eredità rimbomba ancora oggi. Ma l'impatto degli illegali fu nientemeno che trasformare la percezione di una città da parte dei suoi stessi abitanti. Cambiarono non solo la musica, ma la geografia. E oltretutto costavano poco. Di sicuro meno delle controparti "commerciali".

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Fanatismo chimico: Ostia Rioters in azione

C'è da dire che, a differenza di quelli organizzati nel triennio 1990-1993, i rave targati Ostia&Co erano feste fai-da-te in cui spesso gli improvvisati dj—tipo lo stesso Swaitz—compensavano con l'entusiasmo la carenza di tecnica e mezzi. In un recente intervento, Max Durante ha senza tanti giri di parole accusato la stagione degli illegali di aver snaturato l'originario concetto di rave. "Un po' lo capisco," mi dice Matteo, "nel senso: loro erano dj professionisti, musicisti di spessore. Noi arrivavamo e dicevamo: vaffanculo il dj di grido, la consolle deve stare nascosta, i dischi li può mettere chiunque! Tutta roba giusta, da comunisti punk… però forse abbiamo abbassato un po' la qualità" [ ride]. Però da Ostia venivano anche tizi come Nerone e il 3palle, che al di là dei nomi vi assicuro che, quando mettevano i dischi, spaccavano. Swaitz da parte sua era una delle anime di Peti Nudi, "che era sia una fanzine sia un gruppo che organizzava rave, formato assieme ad Anna Bolena di Idroscalo Dischi, Dj Bighead, Stefania e Il Treccia. Musicalmente eravamo schierati sul lato industriale della techno, con collaborazioni esplosive come quella con la Praxis di Christoph Fringeli."

"Fu un periodo stupendo," prosegue Matteo (anche se la memoria è quella che è: "tutta quella droga, alla fine ti confondi"). "A posteriori, forse l'inizio del declino arrivò già con l'avvento delle tribe inglesi nel 1995. Portarono questa techno barattolosa che ancora mi sta sui coglioni, oltre che la ketamina. Poi nel 1997 ci fu l'occupazione della Fintek, un enorme spazio sulla Pontina dove si facevano feste tutti i sabati. All'inizio era anche bello, poi arrivarono i morti, il supermarket delle droghe… Insomma, la cosa stava scemando, non c'era più niente di rivoluzionario, di antagonista, di creativo. Io per primo mi ero stancato, quindi mi concentrai più su altre cose: tipo il lavoro, ecco."

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Matteo Swaitz sul set.

Il lavoro di Matteo Swaitz è, almeno ufficialmente, quello di regista. Porno, si diceva. In realtà, "ho cominciato a 23 anni, tra un rave e l'altro, come montatore per una società che lavorava per la Rai. Poi il titolare di questa società entrò in contatto con dei produttori emiliani che giravano film pornografici, e presi a lavorare in quell'ambiente. Ho fatto tutta la gavetta: assistente, operatore, direttore della fotografia. Quindi ho girato un film mio, cioè mio a metà perché in realtà era una coregia con Franco Trentalance, si chiamava Cattive inclinazioni. Ma siamo già a metà anni Duemila…"

Quando Matteo ha cominciato a lavorare nell'industria del cinema hard, "era il suo periodo d'oro. C'era il festival a Cannes, attori come Roberto Malone e Nikki Andersson, le francesi che erano fichissime, si giravano i film col dolly, le luci, il direttore della fotografia… Insomma, era una cosa molto seria, fatta bene." Il porno italiano però, aveva anche i suoi codici: "Era molto patinato. Il film tipico era: tipa col cappellone, le calze a rete, villa, belle macchine (tipo Ferrari). Era tutto un po' così, edulcorato." Poi arriva Swaitz. Che fa, stando alle sue parole, "il neorealista della situazione." Tempo prima, aveva già portato un po' di sano spirito coatto nel centro sociale in cui fino al giorno prima suonavano aspiranti emuli di Manu Chao. Adesso era arrivato il momento di "infilare nei film quella che era la mia vita: la borgata, i coatti, i pischelli, le droghe." Ancora una volta, "le reazioni furono di sospetto. Però col tempo mi sono imposto."

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Un original Ostia Rioter nonché bandiera dei rave illegali nonché occupante di un centro sociale che si dà ai film hard non è proprio la norma. Anzi, a dirla tutta "all'inizio la cosa non venne presa bene. Nei centri sociali il porno doveva ancora essere sdoganato, e specie con le femministe c'erano lunghe discussioni. Però processi non ne ho mai subiti." Per Matteo poi, "il porno è un genere antagonista per definizione. Sia perché si oppone al cinema ufficiale, sia per l'ambiente che lo popola. Io venivo da questi servizi per la Rai in cui per due lire ti dovevi beccare il regista incompetente che ti rompeva i coglioni dieci ore al giorno. Da lì, eccomi su un set in cui il regista sta con la birra in mano e fa battute sceme con l'operatore circondato da donne nude. Insomma, non c'è confronto."

I titoli con cui Swaitz diventa un caso nel porno italiano, sono il già citato Lotta di classe, Borgata Connection, o il più recente Il senso della fica ("una citazione dei Monty Python," mi fa notare). Mi sono scordato di chiedergli come sono proseguiti i suoi esperimenti col porno 3D, visto che una volta lo trovai intervistato a riguardo su Wired. In ogni caso, il capolavoro resta senza ombra di dubbio Mucchio selvaggio del 2007, una specie di Warriors per borgatari arrapati in cui una banda di raver se la deve vedere con degli altrettanto implacabili rapper. È un titolo rimasto celebre: sia perché è stato un piccolo successo anche fuori dai giri hard, sia perché contiene la prima scena di sesso anale di Elena Grimaldi. Ah, e poi perché tra gli attori figurano i Club Dogo e una nutrita rappresentanza del TruceKlan.

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Alcuni estratti—senza scene di sesso—da

Mucchio Selvaggio

. Al di là di attori e comparse, notevole è il name-dropping che chiama in causa i tre quarti dei sottoboschi underground romani. Gli storici delle sottoculture prendano nota.

Per Matteo, "il TruceKlan fu la cosa più estrema, fresca e ribelle in cui mi trovai coinvolto una volta finita la stagione rave. Un primo anello di congiunzione tra scena techno e rap furono i vandali di TRV [ The Riot Vandals, una delle più storiche crew di writers romani], cioè Joe, Pane, Nico e Stand. Poi conobbi quelli che all'epoca erano ancora i TruceBoys—Noyz Narcos, Metal Carter, Gel e Cole—grazie a Sandrino della Smuggler's Bazaar, che poi produsse La calda notte di Noyz Narcos e Chicoria. A me il rap non piaceva e a dire il vero non piace nemmeno adesso, però le cose che facevano loro erano tutte storte, rozze, malate… E poi erano trash, drogati e orgogliosi di esserlo, dei disagiati veri. Fu amore a prima vista."

A Swaitz si devono diversi video del Klan, da quello di "Roma Violenta" alle collaborazioni con Gel e Metal Carter. Credo si possa definire Swaitz il Truce-regista ufficiale, o se non altro un membro onorario della banda. Ad attrarlo agli autori di Ministero dell'Inferno c'era anche il fatto che "a differenza del giro raver, girava pure tanto sesso. Perché sai, prima con tutta quella techno astratta e rincoglionito dalle pasticche, su quel versante ti ritrovavi un po', come dire, atrofizzato. Invece cazzo, col rap si scopava."

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Certo, anche il TruceKlan non ha mai avuto fama di morigeratezza sul versante droghereccio. E infatti "la base quotidiana era benzodiazepine e alcol. Assieme a questo, diciamo che tutto il bagaglio tossico che mi ero portato appresso dai tempi dei rave è stato implementato sul versante diciamo così scorretto: psicofarmaci, cocaina, eroina… Ci vedevamo in uno squallido pub del centro, dietro piazza Venezia, oppure al Teddy, dalle parti di ponte Casilino, e riuscivamo ad assumere sette sostanze diverse nel corso della stessa giornata." C'era anche la famigerata Villa Maledetta, chiamata così non a caso: "Era a Castel Madama, ci abitava Sandrino ma funzionava da rifugio per tutto il Klan. Nel senso che magari ci andavi per starci un giorno e ci restavi una settimana." I panorami descritti da Swaitz sono nel solco della più pura, beata e sfatta perdizione. "Droga ovunque, deliri alcolici, tizi che si facevano di crack, gente che scopava di sopra e di sotto, donne nude strafatte, uno schifo totale. Però anche qualche barbecue, musica, chiacchierate tra amici… Lì sono nate pure un sacco di canzoni." Ancora una volta, complice lo stato confusionale indotto dalla chimica, "ho ricordi confusi. Cioè, parliamo di quattro o cinque anni che nella mia memoria si riducono a pochi mesi appena… Erano ritmi serrati, ci siamo quasi uccisi. Oddio, Gel è quasi morto sul serio, in effetti."

La Ostia di

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Amore tossico

in Corpus Christi di Gel & Metal Carter.

Già che ci sono, gli ricordo di quando andai a trovarlo sul set di Mucchio Selvaggio per un'intervista ai Club Dogo. Di Jake La Furia e Gué Pequeno, Matteo conserva un buon ricordo, anche se "venivano da un altro universo: sono due tipi di buona famiglia, ricchi, e adesso se li chiami al telefono ti risponde la segretaria. Però ai tempi furono carini; mi spedirono anche il disco mentre ero in carcere."

Il carcere, quindi. Visto il tono borderline delle vicende fin qui raccontate, era un'ipotesi plausibile. Ecco comunque come andarono le cose: "Nel 2008 mi beccarono sul confine franco-spagnolo mentre assieme a un amico tentavo di portare un po' di hashish." In che senso un po' di hashish? Di che quantità stiamo parlando? "Quaranta chili. Ci processarono per direttissima e la pena non fu nemmeno esagerata: 30 mesi, di cui poi ne avremmo scontati 18. All'inizio, ci spedirono nel carcere di Bayonne, vicino Biarritz. Poi in quello di Villeneuve-sur-Lot, dalle parti di Tolosa. Devo essere sincero: non fu una bella esperienza, ma non è stato nemmeno un dramma. Diciamo che fu meno peggio di quello che mi aspettavo."

Secondo Matteo, "nei confronti del carcere c'è una paura innanzitutto culturale, che viene da quel tipo di storie di violenza e deprivazione che vedi nei film. Però quando entri, la prima cosa che avverti è il grande spirito di solidarietà. Io ero straniero in un carcere francese, e anche per questo mi aiutarono molto, suppongo suscitassi simpatia. Ma al di là di questo ho fatto amicizia con un sacco di gente, mi regalavano il fumo, si cucinava assieme, insomma… nonostante il contesto, devo dire che mi sono trovato bene. Specie con gli algerini, i marocchini e in generale i nordafricani, che lì erano tantissimi. Anche perché l'80 percento dei francesi 'bianchi' stavano dentro per stupro, violenza domestica e pedofilia. I nordafricani invece, perlopiù per spaccio, fumo, robe così. Quindi puoi capire da solo con quale delle due parti sentissi più affinità."

In attesa che Matteo torni dal carcere, Jessica Moore (

una delle attrici da lui dirette in Mucchio Selvaggio) inganna il tempo sfogliando una nota rivista di settore.

Non conosco tantissima gente che è stata in carcere, ma tra questi Matteo è quello che l'esperienza sembra averla vissuta con più… non so, naturalezza. Forse, mi viene da pensare, le carceri francesi sono un pizzico meglio di quei gironi infernali che sono quelle italiane. "Magari hai ragione, non so. Intendiamoci: il carcere è una merda, c'è sovraffollamento, gente che si suicida, ogni tanto qualche rissa… Se vedi Il profeta, il film di Audiard, ti spaventi. Però c'è questa idea che sia un mondo a parte, alieno, popolato da gente con cui tu non avrai mai a che fare. E invece guarda un po', si tratta di gente normale."

All'uscita dal carcere, Matteo è ancora sotto contratto con Silvio Bandinelli; il produttore anzi "fece una mossa da vero compagno: mi pagò una parte delle spese processuali, una cosa che non era assolutamente tenuto a fare." Però il mondo del porno è sulla via del declino, e più in generale la crisi ha depresso l'intero ambiente. "I budget si sono dimezzati, molti attori anni smesso, la Grimaldi si è tirata fuori, internet ha mandato a puttane tutto… Adesso se va bene si fanno due o tre titoli l'anno." Anche il Truceklan è cambiato: "Noyz Narcos ormai è famoso, e più in generale si è persa quella vena rozza, strana, che era il motivo per cui all'inizio mi piacevano. Sono ancora in splendidi rapporti con tutti loro, però inevitabilmente si è esaurito un ciclo. Ho fatto un ultimo video per Metal Carter, e poi nient'altro."

In compenso, diventa amico dell'altro grande underdog del rap italiano: Trucebaldazzi. "Gli ho girato un video per amicizia e lui ha partecipato a una scena di Mucchio Selvaggio 2, un film poi abortito per via della solita crisi del settore. Baldazzi è un grande, io il primo disco me lo sentivo dall'inizio alla fine nonostante non fosse altro che un loop di odio contro la scuola media Rastignano. Mi fomentava pure in palestra! Gli voglio un sacco di bene a quel ragazzo."

L'ultimo exploit "creativo" targato Swaitz, è stato Centocelle Ink: "Mia moglie Simona ha uno studio di tatuaggi a Centocelle, e una volta guardando Miami Ink abbiamo detto: ma che è questa merda? Perché hai presente, in Miami Ink le storie sono sempre 'mi è morto il cane, voglio tatuarmi il nome sul braccio,' e in mezzo questi tatuatori vanesi e teste di cazzo. Allora ho detto: facciamo la stessa cosa ma a Centocelle, e mettiamoci in mezzo qualche personaggio di quelli che piacciono a noi, i borgatari, gli scoppiati… Stessa cosa che avevo fatto col porno, o se vogliamo anche ai tempi dei coatti al centro sociale. Abbiamo fatto due stagioni ed era veramente una ficata." Per quanto mi riguarda, grazie a Centocelle Ink ho scoperto che fine ha fatto Zi' Rafaele, un personaggio realmente leggendario dei miei primi rave. La puntata con lui protagonista è un capolavoro. E il confronto con la pischella Martina, studentessa di grafica pubblicitaria che lavora la notte al pub, l'ho trovato quasi commovente. Sarà perché buona parte della puntata è girata sotto casa di mio padre:

Adesso Matteo prosegue ancora nel porno ("quando è possibile") e nel suo studio al Quadraro vende materiali per tatuatori. "Cerco pure qui di mantenere uno spirito underground, nel senso che non vendo cose industriali e soprattutto non tratto con clienti di cui non mi fido, tipo i tatuatori commerciali o quelli che tatuano a casa senza saperne un cazzo, che è una delle piaghe del settore. Provo a mantenere una mia morale, diciamo."

Dopo quasi due ore di conversazione, Matteo confessa che il suo stato d'animo è "tra il nostalgico e il rassegnato. Non vedo in giro niente capace di trascinarmi, nessun fenomeno di rottura, nessuna avanguardia… Tu che scrivi per VICE magari lo sai: che fanno i giovani adesso? C'è qualcosa di interessante in giro? Perché vorrei scoprire una cosa travolgente come fu la techno a inizi Novanta, o i rave illegali, o lo stesso TruceKlan. Se qualcosa del genere ci fosse, mi ci butterei, sul serio. Va bene, adesso ho 43 anni e lo farei con uno spirito diverso, però che ne so… potrei fare dei video, portare un contributo, no? In qualche modo, dare una mano. È una cosa che cerco tutti i giorni, davvero. Qui allo studio passano un sacco di pischelli, e provo sempre a informarmi. E invece boh. Niente. Non so. Ho pensato pure di spostarmi, di andare via da Roma, dall'Italia, dall'Europa. In carcere ho conosciuto gli africani e mi piacerebbe vedere com'è lì. Vedremo. Per ora, diciamo che sopravvivo."

Segui Valerio su Twitter: @thalideide