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Le cose di Virginia

Okkupare a trent'anni

Riflessioni dopo i miei dieci giorni di occupazione a Torre Galfa.

Alcune riflessioni dopo dieci giorni in cui ho partecipato all'occupazione di Torre Galfa. 

Scrivo con il terrore di essere fraintesa, di non saper dirimere bene alcuni concetti arrotolati, per cui chiedo a chi mi legge di essere doppiamente comprensivo.

Voglio parlare di alcune impressioni che mi sono sorte dalla partecipazione all’esperimento di riutilizzo di un palazzo in disuso da anni al fine di promuovere all’interno dello stesso un movimento di sviluppo culturale.

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Partiamo dal presupposto che se ne voglio parlare è perché condivido la spinta all’azione in una città e in un Paese completamente stagnanti, condivido a pieno la volontà di coltivare le arti, le parole ed i fatti che possono riempire le coscienze individuali e creare una coscienza collettiva, una rete, qualcosa.

Quello su cui ragiono da un po’ di giorni sono invece alcune modalità in cui questa spinta culturale è stata costruita.

Innanzitutto vorrei precisare che Milano non ha propriamente bisogno di luoghi in cui esercitare politica, cultura, arti e mestieri, quello che manca è un interesse e un’attenzione verso questi princìpi, che purtroppo ho visto smuoversi, a partire dalle cerchie di chi mi sta più vicino, solo in determinati momenti, ovvero nei momenti in cui un evento–non tanto nel senso di Ereignis heideggeriano, quanto inteso come Happening–diventa virale, ovvero diventa, passatemi l’orribile termine, trendy.

Il problema è che in casi come questi vedo il rischio che la coscienza sociale prenda inesorabilmente il posto della coscienza politica, e per come la vedo io la coscienza sociale è solo un fantoccio di quella politica, è una marionetta che si sventola (non a caso, soprattutto sui social network) per potersene stare tranquilli in poltrona a guardare mentre i veri fili della politica sono mossi da altri, che non siamo mai noi in prima persona.

Con questo non sto dicendo che nessuno all’interno di Macao ha gli stessi timori e le stesse preoccupazioni che muovono me a scrivere questo, non sto dicendo che tutti coloro che postano sulla propria pagina facebook fotografie della torre Galfa o sottoscrivono appelli siano in realtà dei menefreghisti, anzi, in molti stanno investendo ore e forze per dare forma a un’idea, la mia domanda è: abbiamo bisogno di un luogo fisico per fare arte o abbiamo bisogno forse di presupposti politici per dare a chi fa cultura una dignità ed un ruolo sociale che in Italia è inesistente al momento?

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Quello che ho percepito tutti questi giorni è una totale assenza di linea politica. Ovvero: mi sembra assurdo che dei "lavoratori dell'arte" non si battano per lo status sociale e soprattutto politico dell'artista, che in Italia non viene tutelato, anzi viene sommerso di merda tipo SIAE, tolti i sussidi di disoccupazione, tagliati fondi per la cultura. E in questi giorni, a Macao, non si è parlato abbastanza di queste cose, e si creano mille tavoli, tavolo comunicazione in primis, senza un contenuto omogeneo e una finalità comune, quando in un'azione del genere il contenuto e il fine è la prima cosa che bisogna mettere.

Non si tratta di trovare un luogo fisico dove recitare o disegnare, si tratta di supportare con un messaggio, con un'idea politica precisa, con un piano, il mondo della cultura che sta cadendo in fondo alle priorità politiche, mentre dovrebbe avere sovvenzioni, dovrebbe avere il suo ruolo nell'economia, nella società.

Le mie perplessità sono nate nel momento in cui un movimento di “lavoratori dell’arte” ha occupato non già un teatro come è successo a Roma, non un monumento della cultura che si ritiene intoccabile, ma un grattacielo. Allora il messaggio doveva essere diverso: se quello che rivendichiamo è che un ecomostro di proprietà di un imprenditore, inutilizzato, ci fa schifo, se vogliamo comunicare come cittadini che è assurdo costruire mille palazzi con i fondi comunali quando ne abbiamo uno vuoto da 15 anni, il messaggio non doveva essere “noi lavoratori dell’arte vogliamo fare la nostra cultura”, ma “noi cittadini vogliamo abitare la città in maniera razionale”, è un’altra cosa.

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Se siamo lavoratori dell’arte che vogliono invece rivendicare i propri diritti, occupiamo un posto che sia simbolo dell’arte, comunichiamo precisamente qual è il nostro fine, diamo un messaggio chiaro, un messaggio sensato, non “si potrebbe anche pensare di volare”, che cazzo di messaggio è?

Cosa vuol dire? Niente. Tutto e niente. Appunto, come un’azione del genere che rischia di essere un inutile dispendio di forze e non insegnare niente alla grande quantità di persone che ha messo le proprie energie e il proprio entusiasmo al servizio di qualcosa che non aveva né capo né coda.

Per questo sono contenta di questo sgombero. Questo è il momento in cui si vede realmente su quali presupposti si stava alzando il fermento dei dieci giorni passati.

Quello che è necessario fare, ora, è dare una direzione POLITICA ad un gesto che sappiamo avere una visibilità ed una partecipazione mai vista prima a Milano, lo dobbiamo a noi stessi, è la ricompensa ed il fine a cui i nostri sforzi devono puntare. E non si tratta di libertà. Quando vedo scrivere “ci tolgono la libertà” mi chiedo di che libertà si stia parlando, la libertà di mettersi nudi in strada? La libertà di azione? La libertà di voto? Quale libertà?

Mi sono rotta i coglioni di sentire pronunciare parole più grandi di noi svuotandole di un vero significato, mi sono rotta i coglioni della propaganda e della retorica, voglio vedere che questa retorica e questa risonanza mediatica sono a servizio di un’idea, non il contrario, altrimenti si rischia davvero di essere saliti su una torre altissima solo per buttarsi giù di testa, tanto valeva un suicidio di massa davanti a Palazzo Marino.

Questa esperienza, questo sgombero, questa consapevolezza, deve servire per farci credere che possiamo agire insieme non per creare un divertente flash mob o un concerto gratis delle Vibrazioni, ma per costruire una voce intellettuale, culturale, alla desolazione politica della nostra generazione.

Sapevamo già tutti che l’occupazione di un grattacielo di proprietà di un privato non sarebbe durata molto, ora è il momento di fare un’ottima figura con la giusta exit strategy: troviamo il modo per uscire con stile da quel grattacielo, uscire per strada, trovare un altro luogo, trovare uno spazio, ma prima trovare un fine.

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