Dentro il mondo degli hacker di Pristina
Arianit Dobroshi, membro di hackerspace e "free and open source software geek, promoter e blogger". Tutte le foto: Emanuele Amighetti

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Tecnologia

Dentro il mondo degli hacker di Pristina

Siamo andati a conoscere i giovani hacker che vogliono risollevare la difficile situazione sociale del Kosovo.

Stando a quanto riportato dal New York Times, negli ultimi due anni la polizia kosovara ha identificato 314 persone che sono andate all’estero per unirsi all’ISIS — registrando così il più alto numero pro capite di foreign fighters in Europa. Tra questi, sono da contare due attentatori (suicidi), 44 donne e 28 bambini. Ed è proprio in virtù di questa realtà sociale che il binomio hacker/Kosovo sta catturando sempre di più l’attenzione dei media.

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Il primo caso risale al 2015, quando un "adolescente prodigio dei computer", Ardit Ferizi, attratto dalla propaganda ISIS, riesce ad hackerare i computer di un rivenditore americano per recuperare un elenco di nomi legati a Governo e apparato militare. Ardit agiva dalla Malesia, e da lì ha inviato i dati direttamente in Siria, allo Stato Islamico. Estradato negli USA poco dopo l’attacco, è stato condannato a 20 anni di reclusione.

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Definito da Elisabeth Mullin, il suo stesso avvocato, come "tossicodipendente inquieto e disordinato", Ardit Ferizi incarna pienamente i conflitti irrisolti del suo paese. Nato a Gjakova, in Kosovo, negli anni Novanta si è visto giustiziare di fronte agli occhi lo zio albanese per mano della polizia serba. Diventato una sorta di Snowden balcanico, con lo pseudonimo di “Th3Dir3ctorY” è diventato il leader di un gruppo di hacker responsabili di aver violato database governativi di paesi come Israele, Serbia e Ucraina.

Ardit, che tra le altre cose aveva provato anche ad hackerare i database del Governo kosovaro, è stato intercettato in una fitta rete di comunicazione via Twitter con Tariq Hamayun e Junaid Hussain, due inglesi reclutatori di potenziali terroristi. La situazione, vista in questi termini, lascia quindi presagire il concretizzarsi di due fatti: 1) i dati del The New York Times sono plausibili; 2) il retroterra storico, culturale e politico del Kosovo rappresenta l’ humus perfetto per la proliferazione di “mine vaganti”.

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Ma se per un verso il dato relativo ai foreign fighters è allarmante , è vero anche che da qualche anno a questa parte le tensioni che hanno animato il Kosovo dalla fine della guerra fino all’indipendenza — e che si sono poi protratte, in misura più lieve, anche negli anni successivi — hanno generato degli anticorpi sociali. A livello demografico, la realtà kosovara è costituita fondamentalmente da giovani — l’età media si aggira intorno ai 25 anni — con voglia di cambiamento e di apertura verso l’Europa. Tutto ciò si traduce, nella pratica, in luoghi di ritrovo in cui l’innovazione tecnologica diventa vessillo di diversità e innovazione.

Per sopperire al già di per sé degradante livello di istruzione, giudicato come uno dei più bassi al mondo, e per ovviare alle derive radicali dei casi citati, luoghi come Open Data Kosovo (ODK), "un'organizzazione no profit che crede nell'uso di civic-tech e dell'umanitarismo digitale" come mezzi "per divulgazione libera di governance data", o Hackerspace, diventano oltremodo significativi. Ho passato diverso tempo in Kosovo e ho incontrato ragazzi di tutte le età. Il mantra, oltre a essere “il Kosovo sta cambiando anche grazie anche ad attività come Hackerspace o ODK”, era una litania sofferta rivolta a uno sperato futuro lavorativo nell’ambito della tecnologia.

Avdyl, un ragazzo che vive fuori da Pristina, mi racconta che “la tecnologia e l’informatica sono il futuro”. Se infatti molti riconoscono l’incapacità strutturale di fornire adeguate competenze o nozioni nell’ambito dell’informatica, ragazzi come Avdyl sono grati di “poter sopperire a tali lacune attraverso realtà che offrono spazi di ritrovo in cui è possibile imparare”, così da scacciare anche, di riflesso, la spada di Damocle che pende sul paese — ovvero la minaccia terroristica e l’inefficienza strutturale del sistema socio-culturale.

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Membri di hackerspace in una delle stanze della sede.

Tale inefficienza, o comunque l’incapacità di proporre coerentemente informazione e mezzi tecnologici, è rappresentata anche dal caso del primo bancomat per il prelievo di Bitcoin, installato a Pristina l’estate scorsa. Nonostante il comunicato della Banca Centrale del paese, nel quale si legge che “l'uso di moneta virtuale, come il Bitcoin, non è regolamentato e costituisce quindi un eventuale cortocircuito legale che può comportare una perdita finanziaria”, l’ATM è stato comunque installato.

Al momento sono disponibili solo Bitcoin, ma nel futuro è previsto un investimento per portare altre 10 criptovalute. Questa storia, a dispetto delle aspettative della Banca Centrale, ha galvanizzato i kosovari i quali, nonostante credano sia "tipo una cosa attraverso cui fai soldi”, non hanno tenuto a freno l’entusiasmo. Si conta non a caso un ammontare di 800.000 euro spesi, nel corso del 2017, per l’acquisto di attrezzature e macchinari necessari per l’assemblaggio di miniere.

“In Kosovo la sicurezza in ambito tecnologico è particolarmente bassa, si può avere accesso senza problemi a tutti i dati relativi a ogni cittadino del paese: numeri delle carte d’identità, nome, cognome, data di nascita, luogo di nascita, indirizzo di casa.”

Il tutto si scontra tuttavia con due problematiche di carattere strutturale. La prima riguarda la difficoltà di importare materiali, come ad esempio le schede grafiche. Queste, a differenza di altre componenti, sono “molto avanzate e per questo motivo ne monitoriamo costantemente l'importazione”, ha dichiarato Adriatik Stavileci di Kosovo Customs. La seconda è stata sollevata da Dite Gashi, CTO e co-fondatore della società di consulenza per Bitcoin e blockchain Bitsapphire, il quale sottolinea l’incertezza degli investitori kosovari che, davanti a un valore finanziario mutevole, tendono a tirarsi indietro.

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Vi è quindi un senso di frammentazione che, dalla capitale alla periferia, divide il grande pubblico — spesso male informato o completamente disinteressato — dalle piccole ma innovative realtà che sono sorte come risposta. Hackerspace è la realtà più interessante. Avviata tramite crowdfunding su Kickstarter da Miguel McKelvey, miliardario americano cofondatore di WeWork, è “uno spazio di sperimentazione aperta di co-working basato sulla comunità, creato esclusivamente per scopi tecnologici, educativi, culturali e scientifici”. In sintesi: un luogo dove invasati di hacking, programmazione e simili si ritrovano per promuovere e utilizzare tecnologie che, nel resto del paese, sono pura utopia.

“flack0”, membro di Hackerspace, mi conferma che “in Kosovo la sicurezza in ambito tecnologico è particolarmente bassa”. E se l’opinione di flack0 potrebbe essere scambiata per l’esagerazione di un nerd incazzato perché può programmare solo in Java, i fatti dissipano ogni dubbio. "Si può avere accesso senza problemi a tutti i dati relativi a ogni cittadino del paese: numeri delle carte d’identità, nome, cognome, data di nascita, luogo di nascita, indirizzo di casa”. flack0 aggiunge inoltre “che [quei dati] non erano nemmeno lontanamente crittografati!”. Dunque "la privacy di quei 2 milioni di concittadini può essere facilmente violata”.

Il divario tecnologico, dunque, che separa i “cani sciolti” o i “lupi solitari” digitali dal resto del paese è profondo. Arianit Dobroshi, hacker kosovaro che ho incontrato in un bar del centro, conferma la visione di flack0. "Il livello delle conoscenze tecnologiche insegnate nelle scuole non è quello promosso dalle politiche del governo. I libri sono vecchi, i software hanno anche dieci anni”, senza contare che "molti insegnanti non sono qualificati". A tal proposito ha scritto anche un report particolarmente dettagliato.

Nonostante il divario, in ogni caso, Arianit e altri rimangono speranzosi per una trasformazione della realtà tecnologica del paese. Prese le distanze infatti dai foreign fighters, la nuova generazione kosovara ha dato vita a una torsione ontologica in ambito tecnologico. Altri spazi, infatti, stanno lentamente prendendo forma e vita nel resto del paese. Alcuni colleghi di Arianit “hanno avviato un makerspace a Gjakova e nelle ultime settimane sono stati aperti altri due spazi a Prizren e Peja". Ci sono anche “diverse scuole digitali che lavorano principalmente con i bambini e il Ministero dell'Innovazione ha in programma di aprir[ne] molti altri. Pristina è il centro amministrativo e universitario del Kosovo, quindi è molto più facile fare cose qui che altrove”.

Se quindi per un verso l’intero apparato scolastico collassa su se stesso, non riuscendo così a tener testa alle "sfide tecnologiche di oggi", dall’altra parte vi è l’evidente tentativo di cambiare le cose. La rivoluzione, dice Arianit, “sta arrivando”.