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Il dibattito sulle 'fake news' in Italia è una grande 'fake news'

Come un termine che ormai non ha più senso è diventato un'arma politica da usare contro i propri avversari.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Grab via Twitter.

La discussione globale degli ultimi tempi, più o meno da quando ha vinto Donald Trump, è stata pressoché dominata da due parole: fake news, ossia notizie false.

Il solo nominarle evoca sordidi tentativi di influenzare elezioni, orde di troll russi che manovrano nell’ombra e siti bufalari pronti a svuotare la democrazia dall’interno—nonostante il loro impatto non sia mai stato chiarito del tutto. Se ne parla davvero tanto, quasi ogni giorno, a ogni latitudine. Lo stesso Trump lo usa spesso, principalmente come clava da dare in testa a giornalisti e politici a lui ostili.

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In Italia quelle due parole erano già arrivate di riflesso dal mondo anglosassone; ma è negli ultimi giorni che sono letteralmente esplose e hanno conquistato il centro della scena politica.

In breve, la successione è questa: il 21 novembre BuzzFeed, con un articolo firmato da Alberto Nardelli e Craig Silverman, scopre una rete di siti che fanno disinformazione nazionalista e anti-migranti riconducibile alla società di un imprenditore romano; tre giorni dopo il New York Times rende conto di un’altra rete di siti pro-Lega Nord e pro-MoVimento 5 Stelle che condividono i codici AdSense e Analytics; e in mezzo Maria Elena Boschi denuncia un’immagine diffamatoria postata da un certo Mario De Luise, l'account (probabilmente fake) di un presunto simpatizzante del M5S, e ripresa da una pagina della galassia grillina su Facebook.

Ora, al di là dell’effettiva ricostruzione di queste reti—apparentemente non organiche ai partiti, e che sembrano più che altro motivate dal business—quello su cui voglio concentrarmi è proprio il discorso retorico e politico che si è costruito attorno. La fonte degli articoli è Andrea Stroppa, autore di due report su questi siti, nonché giovane consulente informatico definito da Jason Horowitz sul NYT "un ricercatore della società Ghost Data che consiglia Renzi sui temi della cybersicurezza." E proprio Matteo Renzi è colui che ha preso la palla al balzo, dicendo all'ottava edizione della Leopolda di "aver sgamato Cinque Stelle e Lega" e promettendo di presentare ogni due settimane "un rapporto ufficiale sulle schifezze in rete."

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Quasi contemporaneamente, due senatori del Partito Democratico (il capogruppo Luigi Zanda e Rosanna Filippin) hanno preparato un disegno di legge contro le fake news. Il testo, non ancora depositato, vuole "limitare fortemente la pubblicazione e la circolazione di contenuti che configurino delitti contro la persona" e prevede di imporre "alcuni obblighi a carico del fornitore di servizi delle reti sociali, stabilendo specifiche sanzioni in caso di mancata osservanza."

Secondo alcuni esperti, questo ddl comporta più problemi che altro: nel dare alle piattaforme private il potere quasi assoluto di fare ordine nell’informazione digitale, si propone "una cura anti-democratica a una minaccia—ma solo una minaccia—alla democrazia." Tuttavia, essendo stato proposto sul finire della legislatura, questo testo non vedrà mai la luce. Lo stesso Renzi ha detto che non sarà presentata nessuna legge. A latere, infine, un altro rimedio alle fake news potrebbe essere un fantomatico "algoritmo verità"—una suggestione proveniente da Marco Carrai, imprenditore nel ramo della cybersecurity vicinissimo all’ex premier.

Ieri, a confondere ulteriormente le acque, è arrivato un post sul Blog delle Stelle che ha rispedito al mittente le accuse di usare fake news. Nell’articolo, intitolato "Le fake news del Nyt e BuzzFeed sulle fake news," il M5S smentisce di avere a che fare con siti e pagine come “Info a 5 stelle” o “Video a 5 stelle,” e parla di “un giochino apparecchiato su misura al segretario del Pd, oramai in caduta libera.” Matteo Salvini, dal canto suo, ha scritto (su Facebook) che "Renzi vuole censurare Facebook. Roba da matti, la vera BUFALA è lui!"

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Cosa sta succedendo, insomma? Di cosa stiamo parlando? Per cercare di rispondere, parto da quello che mi pare un dato un fatto: tutto questo casino deriva principalmente dalla difficoltà stessa di definire con precisione cosa sia una fake news.

Più o meno un anno fa, il termine poteva avere un significato circoscritto—notizie completamente false, fatte con l’intento di colpire un avversario politico e/o generare traffico e introiti pubblicitari. Con il progredire del dibattito, dentro le fake news ci è finito un po’ di tutto; al punto che, come ha scritto il giornalista e ricercatore Philip Di Salvo, sarebbe più corretto parlare di un "un contenitore vuoto in cui buttare diversi ambiti e altrettanti problemi che, affiancati, finiscono per ammassarsi senza portare a un risultato di senso."

A questo proposito, studiosi di media come Claire Wardle di First Draft hanno proposto di fare un passo in avanti, individuando in maniera rigorosa le forme di disinformazione e misinformazione. Oltre alle notizie completamente false o manipolate, esistono infatti collegamenti e contesti ingannevoli, contenuti fuorvianti o ingannatori, la manipolazione della satira, o la semplice propaganda travisata da altro.

Se restiamo in Italia, gli esempi in tal senso si sprecano. Solo la settimana scorsa, la storia della “sposa bambina” musulmana era partita da un quotidiano locale per essere ripresa senza verifiche da testate nazionali, finendo sulla bacheca di Matteo Salvini. L’altra sera, invece, Silvio Berlusconi ha detto una lunga serie di falsità e generalizzazioni—un suo vecchio e rinomato marchio di fabbrica—in prima serata a Che tempo che fa.

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Dal lato dei Cinque Stelle, di lezioni non ne possono proprio arrivare: non solo i siti appartenenti alla galassia della Casaleggio Associati hanno fatto ricorso per anni al clickbaiting più spinto; ma sul blog di Beppe Grillo—tra le varie cose—si sono fatti collegamenti fuorvianti tra il “ritorno” della tubercolosi e l’arrivo dei migranti sulle nostre coste.

Le cose non cambiano più di tanto se si passa ad un’altra sponda politica. Più di un anno fa il sit de L'Unità aveva pubblicato il video di "Meno male che Silvio c’è," alludendo al fatto che in un frame potesse esserci Virginia Raggi. Naturalmente, non era vero; l’allora direttore Erasmo De Angelis si era giustificato sostenendo che si trattava di "giornalismo 2.0" e che ormai "il web ha modificato profondamente il giornalismo, sui siti e sui social gira di tutto."

Infine, come ricostruito in due lunghi articoli qui su VICE, lo stesso Partito Democratico ha fatto impiego (in forma ufficiosa e non) di fake, pagine “unofficial” come Matteo Renzi News e meme per spingere la propria propaganda con un linguaggio più aggressivo rispetto a quello ufficiale.

Due immagini propagandistiche di qualche mese fa, tratte dalla pagina del Partito Democratico e da Matteo Renzi News.

Di fronte a un quadro così composito si capisce all’istante una cosa: praticamente nessun partito è esente dall’usare—o dall’aver usato—fake news. E nessuno, dunque, può intestarsi non strumentalmente quella battaglia.

Con questo non intendo dire che si deve rinunciare a smontare le notizie false, che creano danni reali, o individuare chi c’è dietro determinati network che inquinano l’ecosistema mediatico. Tuttavia forse è arrivato il momento di abbandonare il termine fake news, e per due motivi: il primo, perché semplifica in maniera eccessiva un problema complesso e sfaccettato, quello del “disordine informativo”; e il secondo, perché ormai si tratta solo ed esclusivamente di un’arma politica da usare contro i propri avversari.

La prossima campagna elettorale sarà lunga e faticosa, e sarebbe molto più utile e produttivo concentrarsi su altri temi.

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