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'Ognuno di noi è un serial killer mancato'

Secondo Peter Vronsky, società e cultura hanno smorzato un istinto primordiale. Ma i recenti avvenimenti socio-culturali potrebbero risvegliare la violenza.
Ted Bundy, John Wayne Gacy e Jeffrey Dahmer. Foto via Wikimedia commons.

Circa 39 anni fa, in uno squallido motel di New York, Peter Vronsky ha incrociato nella lobby il serial killer anche noto come lo squartatore di Times Square, che torturava le sue vittime lasciandone solo il busto. Quell'incontro casuale e fugace segnò per sempre la vita di Vronsky, che da allora non ha mai smesso di studiare assassini e serial killer.

Vronsky, storico e professore alla Ryerson University di Toronto, ha pubblicato diversi scritti sul tema, tra cui Serial Killers: The Method and Madness of Monsters. Nell'ultimo libro, Sons of Cain, cerca di analizzare il processo di formazione di un serial killer: come nascono, cosa hanno in comune con le persone normali e da quanto tempo esistono?

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Vronsky sostiene che tra circa 20 anni assisteremo a una nuova ondata di serial killer. Ma la cosa più inquietante di tutte è che, secondo l'autore, ognuno di noi è in realtà un serial killer mancato, e ha un istinto omicida in quella zona oscura della mente dove gettiamo tutti i ricordi negativi e i traumi. VICE ha contattato il Dott. Peter Vronsky per parlarne.

VICE: Perché hai deciso di dedicare la tua vita ai serial killer?
Vronsky: Nel 1979 lavoravo come assistente di produzione ed ero in viaggio a New York per un film. Mi serviva un posto senza troppe pretese in cui passare la notte, così ho preso una stanza in un hotel a caso. Mentre facevo il check in all'ingresso, un uomo al piano di sopra aveva ucciso due donne nella sua stanza, tagliato loro la testa, dato fuoco ai busti ed era scappato.

A questo punto, io ero ancora nella lobby ad aspettare l'ascensore—probabilmente lui lo stava tenendo bloccato in attesa che il fuoco si diffondesse. Quando alla fine le porte dell'ascensore si sono aperto, d'istinto gli ho dato una bella occhiataccia. Quell'uomo era Richard Cottingham, il serial killer di Times Square. Aveva una borsa, che probabilmente conteneva le teste delle vittime. Mi è passato accanto senza nemmeno degnarmi di uno sguardo: è stato un breve incontro, circa dieci secondi. Mi era sembrato un tizio normale, uno di noi, e scoprii solo dopo che si trattava del noto serial killer. Da quel momento non ho più smesso di studiare e fare ricerca per capire da dove provengono questi mostri.

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Nel libro parli spesso "dell'epoca d'oro" dei serial killer. Di cosa si tratta esattamente?
È un periodo che va dal 1970 al 1999, quando fu coniato il termine serial killer. Penso a Ted Bundy, John Wayne Gacy, Jeffrey Dahmer e a quel periodo in cui sembravano essere così in voga. Quello fu l'apice, statisticamente in quel lasso di tempo si sono concentrati l'82 percento dei serial killer americani di tutto il Ventesimo secolo. Per questo io, e altri studiosi, definiamo quel periodo l'epoca d'oro, non senza un pizzico di ironia.

Accadde tutto in quello stesso periodo, secondo te perché?
È proprio questo il mistero a cui ho cercato di dare una risposta. Spesso la spiegazione ha a che fare con la società in cui questi individui sono cresciuti. Così ho sviluppato quest'idea. Secondo le statistiche, i serial killer uccidono la loro prima vittima attorno ai 28 anni, ma sembrerebbe che i loro primi pensieri omicidi si sviluppino tra i cinque e i 14 anni. Così ho iniziato a ricostruire il passato dei serial killer più famosi, Ted Bundy, John Wayne Gacy e gli altri.

Mi sono accorto che sono cresciuti tutti tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Durante la loro infanzia, si sono verificati due eventi drammatici principali: la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale che hanno traumatizzato e distrutto un'intera generazione. In più, era il periodo in cui si erano diffuse alcune riviste che celebravano quella che oggi le femministe chiamerebbero, giustamente, cultura della violenza sessuale.

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Ci sono parecchie similitudini tra gli elementi caratteristici di questo periodo e quelli di altre epoche in cui sono nati personaggi come Jack lo Squartatore, alla fine del 19esimo secolo. La situazione era simile, per molti aspetti.

Cosa pensi accadrà in futuro?
Recentemente sembra che ci sia stato un calo di omicidi e omicidi seriali. Ma pensiamo all'epoca in cui viviamo: nella Guerra al Terrorismo non sono coinvolti solo i nostri padri, ma anche le nostre madri. La crisi finanziaria del 2008 ha colpito duramente milioni di famiglie negli Stati Uniti. Tantissime persone hanno perso la casa e un'intera generazione di ragazzini è cresciuta nei motel. Questi giovani hanno perso tutto, anche l'orgoglio e la capacità di mantenere la propria famiglia. Non è automatico che tutti diventino serial killer, ovviamente, ma sappiamo che i problemi comportamentali negli adulti sono spesso dovuti a traumi infantili. Che siano serial killer, rapinatori o tossicodipendenti, le famiglie distrutte cresceranno bambini problematici, che diventeranno a loro volta adulti problematici.

Hai idee per contrastare questo problema?
Be', questa è una domanda utopistica, no? L'ideale sarebbe vivere in una società che educhi e cresca i bambini secondo sani principi. Per fermare l'ascesa dei serial killer, dobbiamo ridurre il numero di bambini traumatizzati ed emarginati.

Nel libro sostieni che gli esseri umani siano assassini innati, ma che grazie all'educazione dimentichino questo istinto. Come sei giunto a questa idea?
Penso provenga dalla mia esperienza da bambino. Per qualche motivo, ho ricordi abbastanza nitidi della mia prima infanzia. Ricordo gli altri bambini attorno a me come esseri estremamente violenti: mordevano, ti infilavano le dita negli occhi, graffiavano e si facevano del male a vicenda. I bambini hanno un istinto animale, e se ci pensi l'homo sapiens esiste da 300mila anni e per la maggior parte di questo tempo è vissuto a uno stadio animale in cui doveva cacciare per sopravvivere.

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Doveva essenzialmente fuggire, lottare, mangiare e riprodursi. Se non l'avesse fatto, si sarebbe estinto. Circa 15mila anni fa (su 300mila totali) abbiamo iniziato a sviluppare l'agricoltura, a vivere insieme in comunità, poi villaggi e città. Ora dobbiamo convivere con tante altre persone e quindi il nostro istinto violento è stato messo a tacere. Dal mio punto di vista, quello che accade ai serial killer è che non essendo inseriti nella società, hanno istinti omicidi ancora troppo sviluppati o non sufficientemente inibiti. Per questo dico che, in un certo senso, siamo tutti serial killer mancati.

Se le persone dovessero trarre un solo insegnamento dal tuo libro, quale vorresti che fosse?
I serial killer sono come noi. Il nemico è come noi. Vengono dalla nostra stessa società, dal nostro mondo. Sono i nostri vicini, insegnanti, mariti e mogli. Faccio spesso il confronto tra i serial killer e l'obesità. L'obesità è una conseguenza dell'istinto di sopravvivenza, perché l'uomo doveva creare riserve di grasso per affrontare i periodi di carestia. Oggi però, nel mondo occidentale, questa capacità di accumulare grassi è diventata distruttiva. Penso che la stessa cosa valga per i serial killer. In origine era un comportamento necessario e naturale, ma nella società moderna è diventato distruttivo e dannoso.

L'intervista è stata accorciata per chiarezza.

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