Il progetto di Wu Ming che mostra gli orrori del fascismo nelle vie di Palermo intitolate a gerarchi

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In questi giorni a Palermo, sotto il cartello di via Gen.le Magliocco è comparsa un’insegna che mostra dei piedi pieni di bolle e la scritta “Organizzò e diresse i bombardamenti con armi chimiche durante l’invasione fascista dell’Etiopia.” Non è l’unico caso di via cittadina dedicata a protagonisti, luoghi o tappe del colonialismo italiano diventata oggetto di modifiche.

L’operazione fa parte di “Viva Menilicchi!”, un’iniziativa organizzata dalla biennale d’arte mobile Manifesta, dal collettivo Fare Ala e dal collettivo di scrittori Wu Ming. Come mi ha spiegato Wu Ming 2, si tratta di una “ricerca sugli spettri del colonialismo italiano che infestano la città” nascosti nei nomi delle vie e nell’architettura dei palazzi.

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Quello del colonialismo italiano, dei suoi crimini in Libia e in Etiopia e della sua rimozione è un tema strettamente collegato a un altro drammaticamente attuale: per dirla con Wu Ming 2, “la cosiddetta ‘crisi migratoria’ è l’incapacità dell’Europa di fare i conti con 500 anni di sopraffazioni, saccheggi e genocidi in giro per il mondo.”

Questo fine settimana Wu Ming 2 era a Palermo per l’ultima parte dell’iniziativa, il Grande Rituale Ambulante contro il Colonialismo, ossia una camminata di 18 km per la città attraverso una trentina di tappe “evocando gli spettri e costringendoli a mostrarsi, sotto forma di manifesti, targhe, parole, incontri.” Ci siamo sentiti via mail per parlare dell’iniziativa, del colonialismo e delle radici del razzismo che stiamo vedendo oggi in Italia.

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Tutte le foto di Roberto Romano per gentile concessione di Fare Ala.

VICE: Com’è nata e in cosa consiste l’iniziativa di Palermo? Qual era il senso?
Wu Ming 2: “Viva Menilicchi!” nasce da un invito che ci ha rivolto Manifesta, la biennale d’arte nomade che quest’anno si tiene a Palermo. Abbiamo risposto proponendo una ricerca sugli spettri del colonialismo italiano che infestano la città, spesso indisturbati, nascosti nel nome di una via, nell’architettura di un palazzo, nei luoghi di aggressioni razziste oppure nelle sedi delle tante associazioni che accolgono stranieri e profughi, cercando di esorcizzare quei fantasmi.

Con la nostra ricerca abbiamo individuato oltre 40 luoghi legati a quell’eredità, nello stupore degli stessi palermitani. Abbiamo modificato il nome di alcune strade (come quello di via Rodi, che grazie a un semplice adesivo è diventata “via Comunità ebraica di Rodi,” per ricordare gli oltre 1800 ebrei dell’isola sterminati dai nazisti grazie agli elenchi forniti alle autorità tedesche dall’Italia fascista); abbiamo acquistato gli spazi pubblicitari sotto la targa con il nome del generale Vincenzo Magliocco occupandoli con fotografie di etiopi sfigurati dall’iprite e accusando il generale di aver organizzato e diretto i bombardamenti con armi chimiche durante l’invasione dell’Etiopia; abbiamo ascoltato i racconti di tante voci migranti, comprese le storie di quei siciliani che dall’Unità d’Italia in poi hanno cercato lavoro e fortuna in Africa…

È un’iniziativa che si inserisce nel dibattito sui monumenti fascisti e le strade intitolate ai fascisti—di cui ad esempio aveva parlato un anno fa il New Yorker sollevando un gran polverone. Come bisognerebbe affrontare quest’eredità?
Prima dell’estate a Berlino, dopo un percorso di riflessione durato tre anni, i residenti di alcune strade intitolate a colonialisti hanno proposto di sostituire i loro nomi con quelli di protagonisti della resistenza anti-prussiana in Africa. Questo è senz’altro un modo interessante di affrontare quell’eredità. Ma le possibilità sono moltissime.

L’importante è non lasciare che questi nomi e questi luoghi riposino in pace. Fare in modo che la loro storia si manifesti e crei nuovi conflitti, l’occasione per parlare di miti e narrazioni che in maniera sottile, anche dai muri delle nostre città, influenzano ancora il nostro modo di agire, di parlare, di rapportarci con gli altri.

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Sotto si legge: “Battaglia combattuta il 12/3/1912. 887 morti. Invasione italiana della Cirenaica.”

Pensi che in questo momento storico rinfrescare la memoria su quello che è stato il colonialismo italiano abbia un’importanza particolare? Mi viene in mente la sparata Di Stefano sul “prendersi un pezzo di Libia.” E più in generale il modo in cui nel dibattito politico attuale si insiste sulla “sovranità,” che ricorda la mentalità con cui il colonialismo italiano è cominciato.
Al di là delle sparate, credo che parlare di colonialismo sia importante perché quella stagione ha segnato l’identità del nostro paese in maniera indelebile.

Inevitabilmente viene da fare un collegamento con l’attualità e con le aggressioni razziste dell’ultimo periodo. Il razzismo c’è sempre stato in Italia e ha trovato adesso una direzione che lo fa sfogare?
Lo ha spiegato molto bene Paola Tabet in un libro del 1997, La pelle giusta. Il razzismo è come un motore. Può essere spento, in folle, oppure andare a 5000 giri. Ma anche quando non è acceso, è comunque pronto. Basta una piccola manutenzione e può ripartire.

Il motore del razzismo italiano è stato in gran parte costruito e progettato durante il periodo coloniale—che inizia pochissimi anni dopo l’Unità. Bisognava “fare gli italiani” e gli italiani sono stati fatti così, impastandoli con l’idea di meritare un posto al sole, un impero, perché superiori ad altri popoli e destinati a civilizzarli. Sarebbe quindi molto sbagliato pensare che il nostro razzismo nasca, tutto d’un colpo, con le ondate migratorie dei primi anni Novanta. A parte che gravi episodi di razzismo si registrano fin dalla fine degli anni Settanta, non è che prima di allora il motore non esistesse. Girava più piano, e bisognava avere l’orecchio più fino per sentirlo. Oggi gira molto, molto veloce.

Il razzismo non è un idea che nasce dal nulla. Serve a giustificare divisioni che sono utili a un certo assetto della società e dell’economia. In colonia, il razzismo serviva a separare oppressi e oppressori, costruendo con gesti e parole il prestigio razziale di questi ultimi. Oggi serve al consenso politico, a dividere gli sfruttati tra bianchi e neri, a tenere ai margini una massa di individui sotto ricatto.

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Non è chiaramente un fenomeno solo italiano—dove sta allora la particolarità italiana?
ll razzismo italiano ha sicuramente alcuni aspetti peculiari, legati alla nostra storia e al nostro sentirci costantemente “vittime” del mondo intero, o di circostanze sfavorevoli, o di complotti, o della nostra stessa inettitudine. Penso a un caso come quello dei due marò, che da accusati di omicidio sono stati trasformati in vittime, cancellando con una mossa razzista le vere vittime di tutta quella vicenda, cioè i due pescatori indiani.

Detto questo, proprio perché il razzismo è funzionale, è una relazione sociale, è chiaro che in un momento di crisi economica, anche il razzismo—che in qualche modo le risponde—sia diffuso a livello globale. Il motore si mette in moto quando ce n’è bisogno.

L’intervista è stata accorciata per ragioni di chiarezza.