Cibo

Nel 2022 i cuochi non vogliono più rischiare il burnout in cucina

Lavorare nei ristoranti può diventare un'esperienza estremamente stressante e molto provante dal punto di vista fisico e mentale.
Lavinia Martini
Rome, IT
burnout e cuochi
Foto di Munchies 

“Lo stage è durato tre mesi. È un’esperienza che ti spinge al limite sia psicologicamente che fisicamente. Per loro eravamo solo numeri, se andavi via erano pronti a rimpiazzarti”

Recentemente ho scritto in un articolo della cultura dello sforzo nella ristorazione. Tra le numerose risposte all’articolo, su Facebook, ce n’era una che mi ha particolarmente colpito. “30 anni passati nella ristorazione, una vita disumana. 12 anni fa sono riuscito ad evadere da quell’inferno, ho ricominciato a vivere. Solo l’idea di tornare in cucina mi fa venire i brividi, ancora oggi quel lavoro me lo ritrovo sotto forma di incubi” scriveva Francesco M. 

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L’inquadramento del burnout, che pure viene studiato fin dagli anni ’70, avviene solo in tempi recenti, quando l’OMS lo delinea come una vera e propria sindrome “che risulta da uno stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”. In italiano non esiste una parola che possa tradurre burnout, ma il significato è chiaro: bruciarsi, esaurirsi. Sempre l’OMS individua tre indicatori principali del fenomeno: l’esaurimento delle energie; un sentimento di cinismo relativo al proprio lavoro; la ridotta efficienza professionale. Quando si parla di cucina, di chef e di ristoratori, il rischio di burnout è vertiginoso, anche se non si è parte delle categorie più a rischio, le cosiddette helping professions.

Stress e burnout nella ristorazione

“Tra i fattori maggiormente segnalati ci sono il turn over del personale (per l’80%), l’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata (56%), gli orari (55%) e i carichi di lavoro (54%)”

Cuoche e cuochi possono piombare in uno stato di stanchezza, insoddisfazione e “disgusto” che non sanno contrastare e che in alcuni casi può portarli ad abbandonare per sempre le cucine. “È sicuramente un settore molto esposto a fattori stressogeni,” conferma David Pelusi, Dottore in Tecniche psicologiche e Tesoriere dell’Ordine degli Psicologi. “Chi lavora in cucina si interfaccia con molte persone, in un ambiente ristretto con ritmi serrati e, soprattutto durante il servizio, una comunicazione ultra-sintetica e decisa. Il rischio più grande è quello di non avere momenti di compensazione, un giusto bilanciamento tra vita personale e professionale”. 

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Uno studio condotto da Ambasciatori del Gusto e Ordine degli Psicologi del Lazio, coordinato proprio da Pelusi, ha indagato le cause dello stress in ambito lavorativo nel settore della ristorazione su un campione di cuoche e cuochi. Tra i fattori di preoccupazione maggiormente segnalati c’è il turn over del personale (per l’80%), l’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata (56%), gli orari (55%) e i carichi di lavoro (54%). Tra i sintomi vengono riportati criticità del sonno (54%), ansia (41%), tristezza (39%) e isolamento sociale (35%). Ma un terzo degli intervistati riporta anche problemi alimentari stabili. 

Il web è pieno di testimonianze di chi ha sperimentato il burnout nella ristorazione. In un thread su Reddit un utente scrive: “Ho cucinato per 10 anni ma sento che è sempre più difficile tenere il passo con le 70 ore settimanali. La pandemia mi ha dato una certa prospettiva e mi sono reso conto di quanto fosse pessima la qualità della mia vita. Ora che sono tornato in cucina mi sento infelice e ogni giorno che passa mi sento come se fossi sottotono”. Lo chef Edgar Sanuy ha raccontato pubblicamente di come il burnout abbia cambiato la sua vita e il suo approccio al lavoro. Dopo aver girato diversi ristoranti stellati, Sanuy ha deciso di licenziarsi. “Un giorno mi sono detto: non ce la faccio più. È troppo stressante. Voglio fare un passo indietro,” ha dichiarato prima di trasferirsi nelle Filippine. 

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“Nei suoi racconti ci sono insulti, bullismo, ore trascorse a svolgere la stessa mansione, pulizie fino alle 2 di notte alimentate da casse di Red Bull”

Uno chef che mi ha chiesto di rimanere anonimo mi ha raccontato gli ultimi sei mesi in un’importante cucina italiana: “Dopo anni che ero lì avevo iniziato a frequentare una ragazza e a ragionare sul fatto di avere poco tempo e che l’impegno mentale, non tanto quello fisico, era ingestibile. Gli ultimi mesi avevo le mani che mi tremavano come fogli di giornale, ho perso quasi 10 chili, la mia attenzione calava sempre di più quindi mi capitava di tagliarmi, scottarmi. Mi facevo almeno un piantarello al giorno fino a che non ho capito che era arrivato il momento di smettere. Sono stato fermo a pensare per almeno sei mesi, ho anche cercato altro”. 

Leggere testimonianze brutali di chef in burnout deve avere una missione specifica: non rendere pornografico il dolore ma deromanticizzare, una volta, per tutte la fatica. Il burnout è una cosa seria e se non viene trattato per tempo, soprattutto a livello organizzativo e non individuale, può avere conseguenze permanenti sulla persona. Come nel caso di Giulio (nome di fantasia) che mi racconta il suo stage in un famoso ristorante fine dining danese. “L’esperienza più dura della mia vita. Sicuramente la più brutta. Da lì ho capito cosa non volevo essere,” mi ha confessato. 

“Lo stage è durato tre mesi, siamo partiti in 20, forse qualcosa di più. Ogni settimana mollavano 2-3 persone, ad arrivare alla fine siamo stati in 6. È un’esperienza che ti spinge al limite sia psicologicamente che fisicamente. Per loro eravamo solo numeri, se andavi via erano pronti a rimpiazzarti. Ho cominciato a lavorare a 14 anni e ne ho viste di cucine, ma mai come quelle. Tutti facevamo parte di una gerarchia militare e macchinosa. Una volta finito ho dovuto fare un anno di fisioterapia”. 

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Nei suoi racconti ci sono insulti, bullismo, ore trascorse a svolgere la stessa mansione, pulizie fino alle 2 di notte alimentate da casse di Red Bull, musica a palla alle 8 di mattina per sostenere quei ritmi. C’è però una risorsa che Giulio può giocarsi per non collassare, come tanti dei suoi colleghi che, mi racconta, abbandonano quel posto, ed è l’idea di avere un alleato in quella cucina. “Ci davamo conforto, da solo non ce l’avrei mai fatta” mi dice. Oggi le cose sono cambiate, a quanto sembra. “Ho sentito delle persone che sono lì e ora è tutto diverso. Forse si sono resi conto di quanto fosse disumano”. 

“Spesso si dice che è al lavoro è bello quando si è tutti amici. In realtà miei colleghi devono essere colleghi, ci devo lavorare bene.”

Anche se in Italia facciamo tantissima fatica a parlarne, nel mondo ci sono molte iniziative che mirano a riflettere sul tema della salute mentale per prevenire il burnout degli chef. “Dormi di più, mangia meglio, prenditi una vacanza, fai esercizio fisico regolarmente” sono i consigli che la scuola di Culinary Arts Escoffier ha divulgato sul suo sito. Nel 2019 è nata l’associazione The Burnt Chef Project con l’obiettivo di offrire supporto e limitare lo stigma sociale nel settore dell’ospitalità dove viene riportato che 8 professionisti su 10 soffrono di disturbi mentali. 

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Pelusi mi ha spiegato che le strategie di mitigazione di questo disagio così invasivo possono essere tante e diverse a seconda del contesto. “Una cosa che facciamo molto poco e che bisogna fare invece è ragionare sulle nostre emozioni. Sono arrabbiato? Perché? Per come il datore di lavoro si interfaccia con me? Per gli orari? Per la mia mansione? Prendere consapevolezza aiuta ad agire sul sintomo”. Se per esempio le difficoltà vanno imputate a una conflittualità con i colleghi, è consigliabile cercare dei momenti di chiarimento in un contesto extra-lavorativo. 

“Spesso si dice che è al lavoro è bello quando si è tutti amici” prosegue Pelusi “In realtà è bello sì, ma non è necessario. I miei colleghi devono essere colleghi, ci devo lavorare bene. Perché se poi il collega è anche amico e c’è un conflitto, il trauma è doppio. Bisogna fare uno sforzo per non mischiare le due sfere, quella personale e quella professionale”. 

Altra soluzione è cercare all’esterno opportunità per ricaricarsi, per sfogarsi. Che sia un hobby, la famiglia o la birra con gli amici. “Infine bisogna capire se le risorse che mettiamo in campo sono sufficienti,” avverte Pelusi. “E se così non è, valutare di rivolgersi a un professionista. In Italia c’è ancora tantissima strada da fare in questo settore. Lo psicologo lo si cerca ancora al di fuori del lavoro. Alcune aziende ci hanno provato, succedeva spesso che gli sportelli psicologici rimanessero deserti”. 

Molte cose, come abbiamo visto, stanno cambiando. Il benessere psicologico e fisico all’interno della cucina è diventato un requisito ricercato da molti, un elemento che fino a poco tempo fa sembrava una velleità. Per verificarlo esistono anche criteri oggettivi. Nel 2022 Forno Brisa a Bologna è stato eletto da Great Place To Work® come il miglior luogo di lavoro in Italia. Anche in quel caso c’era di mezzo un’indagine sul personale. Questa però ha portato alla luce livelli molto alti di soddisfazione tra i dipendenti soprattutto per quanto riguarda il senso di comunità, la coesione e il coinvolgimento. Forse il futuro della ristorazione parte da lì.

MUNCHIES conosce i nomi delle persone intervistate ma non può diffonderli per ragioni di privacy.

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