Devo dirti una cosa

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Devo dirti una cosa

In occasione di una nuova mostra a Seattle Adrain Chesser ci ha parlato del suo progetto del 2003. Quando, per “I Have Something to Tell You”, ha fotografato amici e parenti nel momento in cui rivelava di avere l'AIDS.

Adrain Chesser è un fotografo americano di 48 anni. Nato in Florida, da bambino prendeva lezioni di piano e organo con l’idea di diventare prete pentecostale. Poi un giorno ha detto ai familiari di essere gay ed è fuggito il più lontano possibile da casa. Ha fatto una grande varietà di lavori, ha comprato le sue prime pellicole ed è diventato un fotografo. Secondo lui, “la fotografia gli ha salvato la vita.”

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Dieci anni fa, nel 2003, ha iniziato a lavorare a una serie con un gruppo di 47 soggetti scelti tra parenti e amici. Quando ha scoperto di avere l'AIDS, Adrain li ha riuniti per dirglielo—uno dopo l’altro, li ha resi partecipi della sua malattia e li ha fotografati proprio nel momento in cui lo annunciava. “I Have Something to Tell You” è stato esposto a Portland nel 2004, a Santa Fe, poi allo Houston Center for Photography nel 2005. La serie sarà oggetto di una nuova esposizione al Photo Center Northwest di Seattle. Ho colto l'occasione per chiamare Adrain e fargli qualche domanda.

VICE: Ciao Adrain. Mi racconteresti come hai cominciato a lavorare a "I Have Something to Tell You"?
Adrain Chesser: È un progetto che risale a dieci anni fa. Per me l’arte e la fotografia sono sempre state una forma di intrattenimento spirituale, un modo di capire la mia vita. Quando ho saputo di essere sieropositivo, e poi quando è arrivata la diagnosi dell'AIDS, l’idea di doverlo dire ai miei amici mi spaventava, avevo un enorme senso di rifiuto. Ma ho un gruppo di amici fedeli, uniti e a cui voglio molto bene. Ho capito che le mie paure venivano dalla mia infanzia, che in realtà non erano altro che una terribile paura dell’abbandono. Ho capito che ritualizzando il processo, il fatto di “dire quella cosa”, sarei riuscito a trascendere quelle paure infantili che mi avevano seguito fin nell’età adulta.

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Cosa hai cercato di mostrare, attraverso queste foto?
Non ho mai avuto l’intenzione di “catturare il momento”. Come ho detto, il mio proposito era quello di scardinare un trauma ben radicato in me. Ho trasformato la confessione in un rituale. Credo che queste immagini parlino di un’esperienza umana universale, della perdita, del lutto—e della speranza di fronte all’orrore.

Tutte le foto sono state scattate nello stesso posto, no?
Esatto, ho fotografato i miei soggetti davanti alle tende della mia camera, nella casa in cui sono cresciuto. Eravamo l’uno di fronte all’altro. Ho iniziato sempre con la stessa frase: “devo dirti una cosa." In tutto ho fotografato 47 persone, due pellicole per ciascuna. Sono stati tutti molto coraggiosi. Mentre scattavo le foto nessuno mi ha chiesto di fermarmi, nessuno è uscito.

Quali sono state le reazioni più frequenti?
Per lo più abbiamo chiacchierato; alcuni hanno pianto, altri hanno finito per mettersi a ridere. Alla fine, nessuno si è fatto sopraffare dagli eventi, e io, da parte mia, sono riuscito a gestire un trauma profondo. Sono in debito con queste persone, è una cosa che va oltre le parole.

Cos’hai provato quando hai editato le foto? Dev’essere stato il momento più difficile, rivedere le persone che ti amano nel momento in cui vengono a conoscenza della tua malattia.
Per raccogliere tutte le foto mi ci è voluto poco tempo, due settimane al massimo. Sull'editing mi sono concentrato più tardi, e facendolo mi sono reso conto che selezionavo solo le immagini che corrispondevano di più al mio ricordo di quel momento. Mentre riguardavo le stampe mi sono accorto di come ci fosse sempre un momento in cui la persona davanti a me non ne poteva più: doveva chiudere gli occhi, guardare altrove per un attimo, alzarsi. Ma alla fine sono tornati tutti a sedersi di fronte a me: ho capito ancora una volta che non mi avrebbero abbandonato. Ho pianto molto stampando le foto, sono estremamente grato a queste persone. Questo progetto continua a commuovermi, ancora oggi.

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Come stai adesso ?
In dieci anni sono cambiate molte cose, sia le cure che l’atteggiamento verso chi ha l'AIDS. Il mio medico dice che ho lo stesso sistema immunitario di qualsiasi altro uomo della mia età. In questo momento, sono felice e in salute.

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