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A11N1: Panni Sporchi

Il calcio egiziano è diventato una questione di sicurezza nazionale

Durante la rivoluzione egiziana del 2011, gli ultras hanno giocato un ruolo chiave. Oggi, dopo svariati anni di stravolgimenti, la situazione nel paese è solo peggiorata, e gli ultras sono stati tra i molti a farne le spese.

Mortada Mansour, il presidente dello Zamalek, sostiene di essere stato vittima di un tentato omicidio, avvenuto lo scorso 17 agosto mentre si accingeva a lasciare il suo ufficio. Alle autorità ha dichiarato che ad aggredirlo è stato un gruppo di ultras della sua stessa squadra. Nelle settimane successive sono stati arrestati circa 50 ultras, alcuni di loro sono stati torturati, e nei confronti delle migliaia di giovani egiziani sono partite pesanti accuse di terrorismo.

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Ho parlato con avvocati, giornalisti e alcuni ultras, e molti di loro sostengono che il giro di vite del governo non è soltanto il risultato delle accuse del presidente Mansour o della volontà di migliorare le condizioni delle tifoserie di calcio. Credono che sia una vendetta delle forze dell'ordine che prima della rivoluzione avevano il potere nel Paese.

L'avvocato egiziano difensore degli ultras Tarek El-Awady mi ha raccontato che "non c'è alcuna prova a sostegno delle accuse." "Alle tre di notte c'erano già le telecamere e un avvocato seduto nell'ufficio di Mansour, come se sapessero già cosa sarebbe successo. Stando alle dichiarazioni di Mansour gli ultras gli hanno sparato 14 volte, ma il rapporto del medico legale ci dice che le ferite non possono essere state causate da un'arma da fuoco e la polizia ha trovato un solo bossolo a cinquecento metri dal luogo del presunto incidente. Il bossolo inoltre è di un fucile, ed è impossibile colpire un bersaglio da quella distanza con un fucile."

Sono passato dall'ufficio legale di El-Awady, al Cairo. Per i giovani accusati, la difesa composta dall'avvocato e dal dottor Walid El-Kateeb è stata l'unica speranza di non finire nelle mani del brutale sistema carcerario egiziano. El-Awady è stato estremamente schietto quando mi ha detto che le accuse erano una messa in scena: "I dieci individui arrestati non sono stati fermati sul luogo del misfatto—li hanno arrestati nelle loro case. Come facevano a conoscere la loro identità?"

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El-Awady ha anche confermato le dicerie riguardo ai maltrattamenti dai detenuti. "Li hanno torturati in presenza del presidente Mansour. Gli hanno estorto delle confessioni fasulle e le hanno mandate in TV, e quando quei ragazzi si sono rivolti al tribunale i responsabili hanno negato tutto."

L'avvocato Tarek El-Awady (a destra)

e il dottor Walid El-Kaleeb; insieme rap- presentano la difesa degli ultras in tribunale.

Quando nel 2011 milioni di egiziani si sono riversati nelle strade al grido di "Pane, libertà e giustizia sociale," la risposta del presidente Hosni Mubarak, in carica da più di 30 anni, è stata tutto fuorché cordiale. I cittadini che hanno marciato in piazza Tahrir hanno presto incontrato i proiettili e i manganelli dell'unica infrastruttura efficiente del Paese: le spietate forze dell'ordine.

In quei giorni gli ultras hanno giocato un ruolo fondamentale nell'impadronirsi delle strade. Oggi, dopo svariati anni di stravolgimenti, il sentimento nell'Egitto dell'ex generale Abdel Fattah el-Sisi non è tanto che le cose siano tornate a come erano prima della rivoluzione, ma che siano persino peggiorate. In nome della lotta all'estremismo, il governo sta soffocando ogni genere di dissenso. Dopo una breve esperienza al governo, i Fratelli Musulmani sono considerati alla stregua di un'organizzazione terroristica, mentre qualsiasi attivista di sinistra, giornalista, sostenitore dei diritti dei gay o membro di ONG viene messo a tacere o rinchiuso in carcere.

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El-Awady mi ha spiegato a quali condanne andavano incontro i giovani ultras. In risposta all'ingiustizia degli arresti seguiti al tentato omicidio del presidente, gli ultras del Zamalek si sono subito riuniti per protestare e nel giro di poco tempo la situazione è degenerata in uno scontro violento finito con l'arresto di 78 persone. Metà di queste sono state rilasciate senza una spiegazione, mentre gli altri sono finiti con gli attivisti e giornalisti in sciopero della fame arrestati per via della legge anti-proteste, un provvedimento controverso volto a criminalizzare ogni tipo di dimostrazione. Come se non bastasse, è stato Mansour a trarre vantaggio dall'isteria generale, muovendo di persona un'azione legale contro tutti i gruppi ultras del Paese, per renderli ufficialmente associazioni terroristiche.

Non sarebbe una grande sorpresa scoprire che dietro il tentato omicidio ci sia una vera e propria cospirazione. Mansour ha fatto parte della classe dirigente pre-rivoluzione, è un avvocato e sfrontato conduttore televisivo che non molto tempo fa è stato accusato di aver istigato la "battaglia dei cammelli": nei primi giorni della rivolta, alcuni individui sono entrati in piazza Tahrir brandendo spade e attaccando i manifestanti. Quando Mansour è diventato presidente del Zamalek, il gruppo ultras dei Cavalieri Bianchi non l'ha presa bene: il 12 ottobre Mansour ha dichiarato di essere stato attaccato con dell'acido nitrico mentre stava per rivelare il nome del nuovo allenatore. Gli ultras hanno risposto pubblicando un video sulla loro pagina Facebook, nel quale spiegano che si trattava di urina e definiscono Mansour un "cane del sistema."

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Anche El-Awady è convinto che Mansour sia un "burattino nelle mani dei poteri forti" e che le forze dell'ordine reagiscano mostrando i denti. "La loro strategia è questa: se non riusciamo a controllarli, li sbattiamo in prigione." In molti condividono l'idea che il governo abbia preso di mira gli ultras perché responsabili di molti scontri durante la rivoluzione. All'inizio del 2012 risale inoltre uno dei più sanguinosi scontri tra tifoserie del Paese, quello avvenuto in occasione della partita tra l'Al Masry di Port Said e l'Al Ahly del Cairo.

Verso la fine della partita i tifosi dell'Al Masry hanno invaso il campo e hanno attaccato i rivali con coltelli, pietre e bottiglie. È stato un bagno di sangue, e alcuni tifosi sono morti tra le braccia degli allenatori che si nascondevano negli spogliatoi. Non ci è voluto molto perché qualcuno si ponesse domande sull'incidente. Alcuni testimoni hanno dichiarato che all'ingresso non erano state effettuate perquisizioni, i cancelli che separano le tifoserie erano aperti, le luci sono state spente e le uscite erano bloccate, impedendo alle persone di scappare. Molti ultras sostengono che sul posto ci fossero anche alcuni baltageya (criminali assoldati) e che le forze di sicurezza avrebbero ignorato il massacro rimanendo immobili, o peggio, avrebbero assistito al dispiegarsi del loro piano così come l'avevano progettato.

Quella di Port Said è una tragedia impressa nella memoria degli ultras dell'Al Ahly. Le 74 persone che hanno perso la vita quel giorno vengono commemorate sulle magliette e su molti murales del Cairo. Da allora tutte le partite più importanti vengono giocate a porte chiuse, e i tifosi possono guardarle alla TV nei bar della città. Nell'anno successivo le condanne e le sentenze di morte nei confronti dei presunti responsabili hanno causato un ulteriore incremento degli scontri per le strade del Cairo, ma con l'aria di sospetto che aleggia è difficile pensare che sia stata fatta giustizia.

Quali che siano le ragioni del loro comportamento violento, se il governo egiziano non allenta la morsa su di loro la tensione non potrà che aumentare. "Il solo motore degli ultras è il calcio," mi ha spiegato James M. Dorsey, un esperto di politica del Medio Oriente e di calcio. "Il tentativo di criminalizzazione degli ultras, le restrizioni sui tifosi e l'incremento generale delle misure repressive costituiscono un mix letale che porterà solo a un'ulteriore radicalizzazione del conflitto."

Ne ho parlato con due tifosi, Nino e Mohammed, in un bar del Cairo dove molti ultras si trovano per fumare il narghilè. "Nessuno dimenticherà mai il sangue dei fratelli uccisi davanti ai loro occhi, e vorranno sicuramente vendetta," ha detto Mohammed, aggiungendo che pochi desiderano questa forma di rappresaglia. "Non vogliamo altri martiri. Non vogliamo vendicarci sui fratelli di altre persone… Ma non sappiamo che fare. Dopo il massacro di Port Said abbiamo preso uno dei responsabili, avevamo armi, ma non abbiamo potuto ucciderlo. Non potevamo fare la stessa cosa che lui ha fatto a noi." Nino ha chiarito la recente logica d'azione del governo: "Vogliono spingerci a reagire in maniera violenta, così invece di usare i manganelli potranno passare ai proiettili."

Quando ho chiesto il loro parere riguardo alla possibilità di un'azione comune con tutti gli altri ultras d'Egitto, Nino si è trovato d'accordo quando Mohammed ha detto, "Adesso siamo tutti sulla stessa barca. Combattiamo tutti per la stessa causa—tornare negli stadi, contro la volontà del governo."