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reportage

Una macabra visita al Museo Medico di Bangkok

Tra cannibali mummificati, organi sotto formalina e brandelli di cadaveri.

Se siete a Bangkok e volete arrivare al Museo Medico Siriraj, il cui nome non compare sulla maggior parte delle guide, chiedete a qualcuno di scrivere “Ospedale Siriraj” in caratteri thai e mostratelo a un tassista. Vi porterà sulla “sponda sbagliata” del fiume Chao Phraya, depositandoci di fronte a un complesso di edifici a dir poco labirintico. Una volta sul posto, mostrate lo stesso foglietto a un passante dall’aspetto amichevole perché vi indichi la giusta direzione. Il museo apre alle nove, chiude alle quattro e l’entrata costa circa 0,95 euro—3,25 se volete anche l’audio guida con un sottofondo musicale degli U2 per il quale probabilmente non è stato chiesto nessun permesso. Non potete nemmeno scattare foto, e la sicurezza armata si preoccuperà di verificare che vi atteniate al divieto. Di conseguenza, per le immagini presenti nell’articolo ci siamo affidati a internet. Se tutto questo passaggio di foglietti con sconosciuti vi sembra uno sforzo notevole, credetemi quando vi dico che il museo vi ripagherà.

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Troverete “Gastroschisi”, conservato in formaldeide e con l'intestino nerastro che fuoriesce dalla pancia. C’è anche “Ciclopia con proboscide,” che non ha occhi. Un flaccido e lungo cordone ombelicale pende giù dalla radice del suo naso. In tutto ci sono nove bambini, ciascuno esposto su un piedistallo posizionato all’altezza degli occhi ed efficacemente illuminato dal di sotto, in una piccola stanza sterile. Sembrano venuti fuori da un set hollywoodiano. Dovete forzarvi a ricordare che sono reali—che un tempo se ne stavano in un pancione—, ma una volta che l’avrete fatto probabilmente vi si chiuderà lo stomaco e vi sembrerà tutto uno scherzo orribile. Nella maggior parte dei casi ci saranno molte visite “d’istruzione” alla mattina, e questo può essere di conforto quando tenterete di convincervi che c’è un valido motivo per cui tutti quei corpicini sono conservati in una stanza.

È stato così la mattina in cui ho visitato il museo: 30 studenti delle medie giravano per le sale in piena eccitazione da gita scolastica. Ognuno di essi aveva un opuscolo rosa, sui cui le ragazze hanno immediatamente cominciato ad annotare termini medici. I ragazzi, piccoletti e non ancora nella pubertà, non si sono disturbati di farlo. Nella visita era compresa “Ittiosi di tipo arlecchino”, una bambina con la pelle che sembrava cuoio screpolato e  la cui bocca gommosa era piegata in un perenne ovale. Il suo grido era diretto a “Anencefalia,” la bambina accanto a lei, che galleggiava in una posizione da Buddha, apparendo normale e rilassata come se stesse dormendo pacificamente in un lettino. Normale, certo, se non fosse per l'apertura nel cranio mostrava il suo piccolo cervello.

I ragazzi sono rimasti tutti senza fiato, avvicinandosi in punta di piedi per vedere meglio. Le guide—donne sulla quarantina—li hanno subito sparpagliati, ma anche gli adulti erano curiosi; una signora si è avvicinata a una bambina che era stata tagliata a metà dalla testa ai piedi e si è tappata il naso per proteggersi da un odore inesistente. A quel punto, nell’ala fotografica del museo è entrato un altro gruppo di studenti, armati delle stesse divise blu e opuscoli rosa. La prima immagine che ho visto raffigurava un braccio con sette ferite auto inflitte con un coltello, perpendicolari al polso. La traduzione nella targhetta riportava: “Ferite da taglio, Suicida [Tagli di coltello].” Se il disagio dei bambini non era ancora abbastanza palpabile, sicuramente lo è stato dopo che si sono riuniti attorno alla foto successiva, intitolata “Suicidio [Polso sinistro amputato]” e raffigurante un braccio privo della mano. Apparentemente, il tizio aveva usato una specie di congegno per macinare la carne, perché tutto il suo avambraccio si trovava in condizioni pietose. Nella sezione fotografica erano anche riportate ferite da ascia, dieci morti per fucilazione, una donna con una “ferita da coltello, aorta ascendente,” e un corpo che mostrava “ferite multiple causate da un’elica.” Quest'ultima ha affascinato particolarmente il gruppo di studenti, dato che il ragazzo la cui testa è stata straziata dall’elica aveva più o meno la loro età.

Ma l'attrazione principale del museo è il celebre Si Quey, un immigrato cinese che alla fine degli anni Cinquanta uccise e mangiò cuore e fegato di sei bambini thailandesi. Il suo corpo avvizzito e imbalsamato se ne sta in piedi nella vetrina come fosse un viticcio ricurvo. Due assassini mummificati gli sono seduti accanto. Le targhette che recitano: “Stupratore omicida con condanna a morte.” La realtà morbosa del luogo tende a contaminare la maggioranza dei visitatori nel museo, quindi la direzione ha gentilmente posizionato tre panchine di fronte a Si Quey e soci per permettere che li si contempli in tutta tranquillità. Un bambino conservato in un grosso barattolo se ne sta seduto all’estremità di una panchina, con lo sguardo fisso su Si 24 ore su 24.

Da lì in poi il museo cambia, e abbandona tutto quello ha a che fare con l’ambito “medico” per impegnarsi a diventare il più spaventoso possibile—ovvero, proponendo una schifosa montagna di serpenti morti conservati in una vasta gamma di posizioni orribili. Ma una volta che arriverete ai serpenti ce l’avrete quasi fatta. Da qui passerete davanti al vaso d’argilla in cui un ragazzino è stato infilato a forza per essere poi bruciato, morendo per asfissia. Vedrete anche vere armi del delitto, pile di ossa, poster sull’ecstasy e un'infinità di polmoni in salamoia e organi con ferite da taglio, bruciature da acido e fori provocati da proiettili. Se il Siriraj fosse una sinfonia, questa sarebbe l’ultima e infernale tirata d’archi. Terminata la visita, puntate al Mug Café del museo. È un posto piacevole in cui bere un cappuccino e prepararvi per immergervi nuovamente in una società che, almeno per la maggior parte, non ha appena visto decine di assassini e bambini morti.