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Musica

Con ‘Eton Alive’ gli Sleaford Mods sono ancora i più veri sulla piazza

Eton è il college dove ha studiato la classe dirigente inglese e il gioco di parole è con "eaten alive", "mangiati vivi": e infatti ogni sillaba è carica di aggressività, sarcasmo e sincerità disarmante.
Giacomo Stefanini
Milan, IT
sleaford mods
Foto stampa

Mi ricordo il 2006 o il 2007, quando era ancora lecito arrabbiarsi con il governo e quelle robe lì. Mi ricordo che dicevamo cose tipo “se solo potessimo liberarci di…” e qualche nome di politico, sottintendendo che una volta eliminati questi sarebbe stato tutto ok. Quanta fiducia mal riposta, quella in noi stessi. Sono passati poco più di 10 anni, la situazione è grottesca, e lo stronzo che ci ha traditi è nello specchio. Se fossimo onesti, come minimo gli disegneremmo qualche cazzetto in faccia. Per fortuna ci sono gli Sleaford Mods, armati di metaforico pennarello, ad attendere che ci addormentiamo troppo presto sul divano perché abbiamo passato tutto il giorno a sforzarci tantissimo di prenderci sul serio.

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Aspetta, che sto andando troppo in là con i voli pindarici: Eton Alive (Eton è il college dove ha studiato gran parte della classe dirigente inglese; il gioco di parole è con eaten alive, mangiati vivi) è il quinto album degli Sleaford Mods (tecnicamente è tipo il decimo, ma per comodità consideriamo solo quelli con la coppia Williamson/Fearn). È anche il debutto della Extreme Eating, etichetta fondata dal gruppo stesso, dopo la parentesi dello scorso album con Rough Trade.

sleaford mods eton alive cover artwork

La copertina di Eton Alive. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

C’era una cosa che il famoso DJ radiofonico John Peel diceva della sua band preferita, The Fall: “sempre diversi, sempre gli stessi”. Lo stesso si può dire degli Sleaford Mods, che ancora una volta dimostrano di sapere esattamente che strada prendere: quella della sperimentazione discreta, del piccolo aggiustamento, un’evoluzione lenta e costante che con Eton Alive raggiunge la forma più matura e coerente della loro carriera.

A colpire, più che il familiare abbaiare di Jason Williamson, sempre punteggiato di sorprendenti momenti cantati ma anche rutti, insulti e siparietti di vari gradi di aggressività e sarcasmo, sono finalmente le basi di Andrew Fearn. Il silenzioso producer del gruppo, qui, ha trovato la chiave del Tardis: come l’astronave del Doctor Who, questo album è più grande dentro che fuori. Azzecca un pop modernissimo su “When You Come Up To Me”, che sembra quasi PC Music; in “OBCT” è capace di prendere un pezzo di quell’indie rock che il suo socio non ha mai smesso di prendere in giro e trasformarlo in una base strisciante e minacciosa, con la tensione che tocca a Williamson rilasciare sul finale a colpi di kazoo; “Big Burt” è elettronica lo-fi da manuale, mentre subito dopo “Discourse” pompa un basso funk e campionamenti che sembrano provenire dalla scuola di Fela Kuti o qualcosa del genere. È un lavoro impressionante.

Williamson, allo stesso tempo, continua a essere il cantante più vero sulla piazza. Ogni sillaba è carica di aggressività, sarcasmo, amara riflessione e una sincerità disarmante. Con i suoi testi, sempre in bilico tra il flusso di coscienza, la poesia e l’insulto di strada, dipinge uno scenario tetro e morboso in cui le classi subordinate si arrampicano fuori da un buco soltanto per scavarsene un altro, nell’eterna catena alimentare che ci mangia, digerisce ed espelle dal "Culo del Potere" (parole loro). Se “Graham Coxon [dei Blur] sembra un Boris Johnson di sinistra”, Jason Williamson assomiglia solo a se stesso—e a tutti noi, ma senza l’ipocrisia.

Giacomo è su Instagram.

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