animal collective merriweather post pavilion
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Musica

Gli Animal Collective sono un casino, come la vita

Sono passati dieci anni da quando è uscito Merriweather Post Pavilion e nel frattempo è cambiato tutto: la musica, il mondo, l'indie rock, le nostre vite.

A diciassette anni mi sono innamorata di un ragazzo che postava sulla sua bacheca di Facebook un sacco di musica che non conoscevo. Era il periodo dei primi xx, dei Crystal Castles e di Erol Alkan, dell’esplosione dell’indie e della riscoperta dell’underground degli anni Novanta. Fino a quel momento la mia educazione musicale era stata lacunosa e disordinata perché per la mia famiglia di accademici la musica era sempre stata un contorno, un tappeto di suoni discreti e conosciuti, oppure arcaici e colti, che favoriva la concentrazione su qualcos’altro.

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Un giorno sulla bacheca di questo ragazzo che studiavo a distanza è apparso il video di "Water Curses" degli Animal Collective, un delirio di pixel in 4:3. Quando ho cliccato play la prima volta sono rimasta sbigottita. I suoni, le voci si affastellavano gli uni sugli altri. Mi sembrava di essere stata strappata via dalla realtà ed essere finita in una dimensione parallela, una in cui la musica non era più tenuta ad assumere alcuna forma prevedibile, piacevole. Sentivo suoni che mi ricordavano campanelli d’argento e trilli alieni che mi rimbalzavano nella scatola cranica, voci che si intrecciavano pronunciando parole che per la prima volta nella mia vita non riuscivo a distinguere. Mi sentivo in un torrente, mi sembrava di ascoltare il suono di una festa di delfini, semmai i delfini organizzassero feste. Sentivo i corsi d’acqua e le correnti. Mi sembrava, per 3 minuti e 27 secondi, di essere d’argento.

Dopo Water Curses ho recuperato Feels, uscito nel 2005. Malgrado sia meno corposo e definito del più noto e apprezzato Merriweather Post Pavilion (ci arrivo), a guardarlo adesso mi sembra il disco che più di tutti racchiude il cosmo visionario, variopinto, sinestetico e imperfetto degli Animal Collective, mantenendo al contempo un grado di “semplicità” che lo rende accessibile malgrado tutte le sue idiosincrasie.

La copertina di Feels, che ancora adesso si vocifera sia ispirata alle opere di Henry Dargers, è stata in realtà creato dal cantante della band David Portner dopo aver trovato il ritaglio di un manuale per bambini per strada ed è un collage scomposto, logoro e impulsivo, con il titolo Feels sanguinante che sembra inciso su un tronco dalla mano incerta di un bambino. Gli Animal Collective funzionano infatti grazie a un sistema di splendida casualità, ben spiegato da un aneddoto di cui si trova ancora traccia nei primordi di internet. È infatti ancora online la discussione archiviata di un gruppo di fan che cercava di capire l’accordatura di Feels sul forum della band. A un certo punto fa il suo ingresso Geologist, ossia Brian Ross Weitz, uno dei fondatori del gruppo che si occupa di tastiere e manipolazione elettronica dei suoni. Mentre i fan si chiedono confusi come mai l’accordatura di Feels sia così bizzarra, Geologist spiega che nessuno di loro potrà mai ottenerne una replica perfetta perché tutti gli strumenti usati per registrarlo sono stati accordati sul piano scordato di un'amica.

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Feels si apre con "Did You See The Words", un pezzo sensuale e bizzarro che parla di parole e di sesso. Mi sono sempre chiesta, dopo aver letto da qualche parte che il co-fondatore del gruppo David Portner (in arte Avey Tare) e la sua ormai ex-moglie Kria Brekkan si scambiavano tantissime lettere proprio durante la registrazione di Feels, se il pezzo non fosse ispirato a questa abitudine:

Le parole squarciano / Il tuo povero intestino / Non posso negarlo / Quando le frasi d'inchiostro gocciolano dalla tua cassetta delle lettere / e il sangue vola, cade e si libra, mi faccio strada dentro te / Afferro qualcosa / C'è qualcosa di vivo in queste righe. The words cut open / Your poor intestines / Can't deny / When the inky periods drip from your mailbox / And blood flies, dip and glide, reach down inside / Grab inside / There's something living in these lines.

"Purple Bottle" è invece la canzone dell’innamoramento puro, quello che poi magari vai a sbattere ma in quel momento lì non c’è niente da fare. I suoni sono isterici, ossessivi, le percussioni che ricordano il battito cardiaco accelerato e le voci tirate che cantano: indosso una giacca di sentimenti e fanno tutti casino! ("I wear a coat of feelings and they are all loud!")

Ma il pezzo che rimane a oggi il più luminoso e commovente di tutta la discografia degli Animal Collective per me è "Banshee Beat". È un pezzo sul lasciare nel senso più ampio possibile, credo, e non voglio saperlo se non lo è. C’è un momento, all’interno di un testo tanto suggestivo quanto misterioso, su un tappeto di suoni malinconici, sudati, e allo stesso tempo ritmati come la prima estate in cui ti accorgi che l’estate non ti piace più e continui a chiederti perché non ti piace più dato che la memoria ti dice che una volta era un momento di gioia, e non ti raccapezzi e non puoi farci nulla. L’estate di Feels e la piscina di "Banshee Beat" è il non riconoscersi più in una cosa che ci è appartenuta per così tanto tempo da essere data per immutabile. E invece.

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Non mi piaci più, penso / Ho trovato dei sentimenti nuovi al negozio dei sentimenti / E non ti trovo lì, nel posto dove ci baciavamo / Ho paura di quel nuovo paio di occhi che hai. I don't think that I like you anymore / Well I found new feelings at the feeling store / And I can't find you at our kissing place / I'm scared of those new pair of eyes you have.

La scorsa estate è stata triste e caotica. La colpa è stata di una situazione complicata che ha segnato in maniera permanente la mia situazione familiare e di conseguenza la mia storia personale, e ha reso fastidiosamente netto il passaggio all’età adulta – nel senso più negativo del termine. Mi chiedo, di tanto in tanto, se anche per altri sia successa la stessa cosa: un tempo dai confini netti in cui ci si accorge che effettivamente le cose sfuggono al controllo proprio o altrui, che ci sono certi eventi da cui non si torna indietro e d’improvviso la realtà si spoglia di quella patina di dolcezza e indefinitezza che non mi ero mai neanche accorta si fosse sempre frapposta tra le mie pupille e il resto del mondo fino a solo qualche mese fa.

Ero in Thailandia ed ero irrequieta e agitata, anche quando provavo a farmi fare un massaggio per ingannare il tempo venivo investita da una scarica di tosse nervosa che costringeva le massaggiatrici a scusarsi imbarazzate come se fosse colpa loro. Venivo spostata continuamente (e invano) di lettino in lettino. Un giorno, sdraiata sul legno scuro accanto la piscina di uno dei vari resort a basso prezzo di quell’angolo di universo, ho riascoltato Merriweather Post Pavilion, il disco che sopra ogni altro ha consacrato gli Animal Collective rendendoli accessibili a un pubblico più ampio di quello a cui erano teoricamente destinati a piacere.

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Merriweather è un disco rotondo, perfetto. Tutte le bizzarrie degli altri dischi si amalgamano insieme fino a creare un concept omogeneo e denso, non più ragazzino, non più incomprensibile. Se scorressi il mio archivio delle stories di Instagram e tornassi indietro fino ad agosto, scoprirei che un giorno uguale a tutti gli altri avevo postato "Taste", l’ottava traccia. Non è la canzone più scintillante del disco e si chiede con una cantilena ripetitiva e circolare: "Sono davvero tutte le cose che sono al di fuori di me?" In un momento in cui non sapevo più chi fossi – non lo so neanche a sei mesi di distanza e a migliaia di chilometri dal golfo andamano – mi è sembrata una domanda legittima.

In "Brother Sport", l’ultima traccia del disco e anche quella più strana, Noah Lennox insegna al fratello Matt come affrontare la morte del papà, lo conforta: Devi soppesare tutto quello che ha detto / Ha aiutato a modellare il modo in cui suoni ("You got to weigh all he said / He helped you shape the way you play"). Gli dice di aprire la gola e far passare tutto; a me ricorda Water Curses, con la gola che ritorna, e la continua tensione del gruppo tra l’essere tesi e contratti da una parte e l’aprirsi al dolore e ai flussi di affetto che da sempre pervadono con violenza la loro discografia. Merriweather è intriso di domande ripetute (Hai paura anche tu?, "Are you also frightened?") e versi ossessivi (Nessuno dovrebbe darti del sognatore, "No one should call you a dreamer"), intersecati con un sound coerente e pieno che rende le loro domande e i loro sentimenti meno inintelligibili del solito.

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Merriweather Post Pavilion è un album rotondo e perfetto e io sono quasi sollevata dalla sua unicità. A dieci anni dall’uscita il loro lavoro è tornato a essere amato dalla nicchia originaria, con l’ultimo visual album Tangerine Reef che ha ricevuto quasi solo critiche negative. Ma la forza degli Animal Collective è soprattutto nel loro percorso scombinato, bulimico e irrequieto che li rende poco appetibili live e faticosi per chi non condivide con loro una sensibilità disorganizzata, impulsiva e malinconica. Merriweather ha mostrato a tutti cosa possono fare e con ciò che è venuto dopo continuano a dimostrare cosa vogliono fare.

Ancora oggi, a dieci anni di distanza dalla loro scoperta, mi chiedo come mai gli Animal Collective mi facciano l’effetto che mi fanno. La risposta che mi sono data ha a che fare con la complessità e l’affetto. In un’epoca in cui la narrazione che ci teneva uniti come razza umana pre-internet all’interno di una trama storica dolorosa e complicata è andata in pezzi a favore di una semplificazione tanto angosciante quanto vuota dell’esistenza, dove non ci si deve ribellare a niente ed è permesso non assumersi nessuna responsabilità, vivere senza alcun affetto e scappare da tutto ciò che ci rende anche solo temporaneamente infelici. In tutto questo gli Animal Collective continuano a cercare caoticamente e con dolcezza un contatto umano.

Da poco tempo mi sembra che si sia conclusa una macrofase della mia esistenza e di essere rimasta temporaneamente senza pelle. Nel 2017 però era uscito l’EP Meeting Of The Waters che contiene al suo interno la dolcissima "Man of Oil", che a un certo punto dice: "Mi sono svegliato sudato, di notte / È strano sentirsi vivi / Ho una paura assurda di dirti / Che ho paura di scordarmi il tuo profumo ("I woke to sweats in the night / Strange sensation to feel alive / I find it so hard to tell you / I'm afraid to forget the smell of you"), e qualche volta mentre cerco di abituarmi agli oggetti nuovi e all’assenza di quelli passati, mi ritrovo a canticchiarla.

Ps: l’internet è un posto bellissimo, e qui c’è il video di "All The Single Ladies" di Beyoncé sulle note di "Water Curses".

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