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Musica

I Queen sono molto di più di "Bohemian Rhapsody"

Al di là del pomposo rock da stadio, i Queen sono stati grandi innovatori: abbiamo raccolto i momenti più estremi della loro discografia.

"No escape from reality"? Eppure la realtà e la fantasia sono la stessa cosa nella vita dei veri bohemien. E infatti, non a caso il brano da cui è tratto quel verso si chiama "Bohemian Rhapsody" e dà il titolo al primo film sui Queen, recentemente campione di incassi al botteghino. La pellicola in qualche modo sostiene la tesi di cui sopra, almeno a giudicare dal trailer. Sì, perché, sono onesto, non ho ancora visto il film. Ma ho letto svariati commenti e articoli, tanto che non so se lo andrò a vedere perché temo di essere deluso da come vengono affrontati certi argomenti piuttosto scivolosi. C’è infatti chi si lamenta che si approfondisca poco il lato omosessuale di Freddie (per quanto in effetti la sua identità sessuale sia sempre stata indefinita), c’è chi protesta per l’eccessiva autoindulgenza nella messa in scena del Live Aid, c’è chi non è d’accordo sul fatto che non sia stata fatta luce sugli eccessi di Mercury e sui famosi festini della durata di giorni a base di sesso promiscuo e sostanze, c’è chi storce il naso per uno scarso approfondimento sul rapporto con collaboratori d’eccezione come Micheal Jackson e Bowie… Insomma, a giudicare dalle recensioni sembra una specie di film Disney per fan dei Queen.

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Beh, non so come sia fatto esattamente il fan medio dei Queen, però di solito viene considerato come una specie di “bamboccione”, fanatico per riflesso, come quelli che tifano per la squadra che vince di più. Tanti, allo stesso modo, sono quelli che li detestano perché oramai nell’immaginario collettivo rappresentano la piaga delle band da stadio tipo i Muse, tutta pomposità e egocentrismo. Tanti li amano proprio per questo, perché in qualche modo Mercury rappresentava un supereroe, l’artista pop per eccellenza, un poster che saltellava sul palco invece di rimanere sulle pareti delle camerette. Per me, però, i Queen sono stati tutt’altro.

A undici anni i Queen hanno rappresentato per me il crossover per eccellenza, quello che poi la gente, anni dopo, trovava normale nei Faith No More, che non sono poi così lontani dai Queen, solo più estremi. Agli occhi di un ragazzino, il fatto che loro passassero dalle orchestrazioni vocali folli, alle suddivisioni ritmiche spezzate, alle ballate rock'n'roll prima maniera, alle commistioni hard psichedeliche (tipo “Now I’m Here” che praticamente cita il Syd Barrett di "Arnold Layne"), all'uso dell'effettistica atta a contrastare il sintetizzatore tanto di moda all’epoca, così che le chitarre di May e i pianoforti usati erano trattati con delay, granulator, pitch shifter e via dicendo; non tanto perché fossero contro lo strumento sintetico, ma più che altro contro la moda del suo utilizzo. E infatti lo usarono di brutto tempo dopo, creando tra i più famosi anthem synth pop della storia ("Radio Ga Ga" e "I Want To Break Free" in primis, che vede anche un sapiente solo di guitar synth) probabilmente per neutralizzarne la portata disumanizzante mischiandolo col rock.

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Dal punto di vista tecnico, soprattutto in studio, erano veramente delle macine alla ricerca di qualcosa di costantemente diverso: se penso che May si è inventato un suono costruendosi una chitarra dai resti di una bicicletta e dal mobile di un parente… fu scoprendo questa cosa che per la prima volta progettai una chitarra fatta solo di elastici e di compensato: il risultato non fu certo lo stesso, ma si trattò pur sempre di un trampolino di lancio verso la realizzazione di un sogno. Insomma, i Queen erano per me la summa di tutto, anche dal punto di vista dell’ambiguità sessuale. Mercury si trombava anche i termosifoni, pare, e per questo la sua musica rappresentava un vero inno alla libertà antimachista, una libertà fiera e potente, “coi baffi”. E tra l’altro tutti e quattro erano formidabili compositori, ognuno con le propria peculiarità: tanto che uno per uno riuscirono a piazzare delle hit colossali in cima alle classifiche: cosa rara nella gran parte delle band in circolazione anche oggi.

Ora, il problema è che nella maggior parte dei casi tutti stanno in fissa con i soliti pezzi, le solite hit single, le prevedibili stronzatelle: scruto nella colonna sonora del film e non c’è manco un pezzo che deragli da quello che già sappiamo, dalle greatest hits, dagli scontati successi della band che si ricordano anche i cani. A parte "Ay Oh", il frammento in cui durante il Live Aid Freddie Mercury si cimenta in un sentito botta e risposta col suo pubblico che è poco più di una chicca per collezionisti, il resto nulla ci dice e di nulla ci parla su quella che era la vera anima del gruppo: quella sperimentale, quella che non avrebbe mai fatto una lira. Anzi, è andata anche a finire che, dopo l'uscita del film, il pezzo “Bohemian Rhapsody” sia diventato il brano più ascoltato in streaming di sempre, come se ad ascoltarlo fossero dei criceti in una ruota e non gente con un minimo di senso critico. E invece di pezzi assurdi, sperimentali e acidi i nostri Queen ne hanno fatti una caterva. Per cui ho pensato di stilare una top ten dei miei pezzi della “regina” più amati, che in qualche modo nella vita mi hanno fatto venire voglia di suonare roba zozza storta e priva di senso. Andiamoli a sentire.

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"Flick Of The Wrist", da Sheer Heart Attack, 1974 (Mercury)

Avremmo potuto iniziare la nostra playlist con “The March of the Black Queen” da Queen II, un formidabile esempio di come i Queen riescano a portare l’hard rock sinfonico a livelli di vero e proprio delirio (basti ascoltare le allucinanti sequenze di campane tubolari) fra stacchi improvvisi e layer strumentali arditissimi. Ma abbiamo deciso di partire la nostra rassegna da un brano di Sheer Heart Attack del 1974, un album carico di sorprese che venne trainato dal successo del singolo “Killer Queen”. Ecco, non tutti sanno che quel singolo era composto da una doppia facciata A, contenente questo missile, “Flick Of The Wrist”. A differenza della scoppiettante e camp-barocca "Killer Queen", qui invece si respira l’abisso di un bad trip senza ritorno. Mercury non ha mai rivelato a chi si riferisse nella canzone, che sembra narrare in apparenza di una specie di demonio in vena di torturare e sfruttare la malcapitata vittima fino alla follia: a giudicare dai testi, potremmo solo pensare appunto che questo demonio sia la droga, presa in eccesso. Un brano assolutamente anticommerciale, con un andazzo proto-dark, cupo, violento tra l’altro posizionato nell’LP come la seconda parte di un medley fra "Tenement Funster" e "Lily of the Valley", e quindi la scelta di pubblicarlo come singolo fu coraggiosa per la difficoltà di editarlo. Molto lontano dai Queen che tutti conoscono.

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"Death On Two Legs", da A Night At The Opera, 1975 (Mercury)

E arriviamo al disco clou, A Night At The Opera, che appunto contiene la hit “Bohemian Rhapsody”. In questo album ci sono dei numeri davvero stranianti come “Death On Two Legs”, probabilmente un pezzo il cui testo è il più crudo del gruppo. Si narra anche qui di una persona orribile che abusa di chi gli capita sotto mano, e Mercury non esita a gettare il suo odio cieco su questa figura: come se sparasse a un cadavere ancora caldo. Leggenda dice che fosse dedicato al loro vecchio manager, reo di averli sfruttati trattandoli come merce da supermercato. Musicalmente il pezzo rasenta il noise rock, con chitarre maciullate, feedback ulcerosi e chiaramente riff minacciosi uniti a ritmiche spezzate e schizofreniche. Un pezzo durissimo per una band da stadio.

"I’m In Love With My Car", da A Night At The Opera, 1975 (Taylor)

Il batterista Roger Taylor ha rappresentato nella scrittura dei Queen il più coatto del lotto. I suoi pezzi sono quelli maggiormente incentrati su un “rock'n'roll way of life” e sicuramente quelli più coatti anche a livello musicale. In questo brano, sempre tratto da A Night At The Opera, lo vediamo cantare un inno distopico, in cui il nostro praticamente fa intendere di copulare con la sua automobile da corsa, tanto che si fa mollare dalla sua ragazza piuttosto che abbandonare i suoi costumi particolari. Ispirato, pare, dalla passione malsana di un loro roadie per la sua macchina, è però impossibile non notare una malcelata strizzatina d’occhio a La grande abbuffata di Ferreri, con Mastroianni intento a perversioni automobilistiche non da poco. Un pestone hard rock in una salsa però deumanizzata che anticipa molte tendenze a venire (vedi il Gary Numan di "Cars"). È anche il lato B di "Bohemian Rhapsody", obiettivo raggiunto dopo una lite con Mercury che non voleva saperne di inserirla, viene citata un paio di volte nel film: soprattutto nella scena in cui Roger sta per lanciare una caffettiera addosso ai suoi compagni rei di non prendere sul serio il pezzo e Mercury lo ferma dicendo “Roger, in questa band c’è spazio per una sola regina isterica”.

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"You Take My Breath Away", da A Day At The Races, 1976 (Mercury)

I Queen sono famosi per scrivere delle ballate a volte al limite del mieloso (vedi "Spread Your Wings"), che certe volte sono, per questo, anche al limite dell’imbarazzante. Questo è vero, ma è anche inevitabile per ragioni di vendibilità calcare la mano su alcuni aspetti compositivi di sicura presa. Ma quando ci si mettono rasentano la perfezione, come in questa “You Take My Breath Away” tratta da A Day At The Races, il sofferto successore dell’album contenente la famigerata "Bohemian Rhapsody". Un pezzo struggente, perfetto, da lacrime: solo piano, voce e rasoiate di chitarra, con un avvolgente arrangiamento vocale e un riff di piano che starebbe bene in un brano trap (fermatevi, l’ho già campionato io!). Anthony and the Johnsons sono andati a scuola da questo capolavoro di sentimento e lacerazione, con un gran finale imbevuto in un loop malato di voce tutto in reverse, che infine si libera dalla morsa dell’amore impossibile infilandosi in un tubo di sublimazione erotica.

"Sheer Heart Attack", da News Of The World, 1977 (Taylor)

È il 1977. Il punk arriva a provocare e a contestare i gruppi prog, le vecchie istituzioni del rock, i dinosauri e via dicendo. Ovviamente i Queen sono nel mirino, tanto che è famosa la rissa sfiorata tra Mercury e Sid Vicious, che registrava con i Pistols negli stessi studi. Sid, a pezzi per la droga, disse provocatoriamente a Mercury “non sei ancora riuscito a portare la danza classica alle masse?” riferendosi al fatto che indossava tutine attillate. Il contenzioso fu suggellato da un Mercury che lo tira su per il bavero e lo percula sbattendolo fuori dallo studio con un “tu saresti il famoso Stanley Ferocious?“ ben assestato. Fu così che i Queen decisero di fare un paio di brani dicendo la loro sul punk. "Sheer Heart Attack", che prende stranamente il nome dal disco omonimo del 1974, è infatti un bazooka ultrapunk che stende le giovani leve del genere, con delle chitarre devastanti e assoli dementi, rototom di batteria come raffiche di mitra, tutti grappoli di feedback alla Metal Machine Music, con un Roger Taylor protagonista assoluto alla voce e a quasi tutti gli strumenti, suonati in maniera ovviamente non tecnica visto che una volta fuori dalle pelli della sua batteria era una grattugia. Mercury nel vinile è relegato a una piccola parte vocale, mentre dal vivo la interpreta da cima a fondo. L’altro brano, probabilmente dedicato a Vicious, è "Fight From The Inside", in cui si invitano i giovani punks a pensare meno alle droghe e più a infilarsi nel sistema da lucidi per distruggerlo dall’interno. In effetti la saggezza di Taylor farà si che molti punks finiscano in quel modo, a volte riuscendo a prendere per le palle l’industria, altre invece a farsi schiacciare. D’altronde “it was the DNA that made me this way”: se non ci nasci, you are not the champion.

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"Get Down Make Love", da Live Killers, 1979 (Mercury)

Un altro dei brani allucinogeni dei Queen, "Get Down Make Love", tratto da News Of The World, è l’ennesimo brano sul sesso libero e selvaggio, marziale e spastico nell’arrangiamento, con chitarre malate e squagliate, che esplode nella parte centrale con una vera e proprio suite orgasmica fatta di effettazzi, esplosioni sonore e cacofonie varie e ossessive. In questa versione live trova la sua migliore realizzazione. Un brano che non a caso venne coverizzato con successo dai Nine Inch Nails nel 1990, nel periodo di Pretty Hate Machine, in una feroce versione elettronica. A tutti gli effetti, l’originale dei Queen è da considerarsi, per tematiche e andazzo, proto-industrial rock. Se volete darci dentro sotto le coperte, questo è il brano per voi.

"Mustapha", da Jazz, 1978 (Mercury)

Come tutti sappiamo, Mercury era di origine persiana, ragion per cui a un certo punto decide, nel 1978, di scrivere un pezzo antesignano del cosiddetto arabic rock. "Mustapha" parte come una preghiera rock ad Allah per poi delinearsi in cavalcate simil balcaniche, cantato in una specie di pidgin angloarabopersiano con una serie di neologismi inventati sul momento. Un brano atipico per i Queen e anche un po’ per tutto il rock del periodo, pioniere di quello sdoganamento etnico che ora ascoltiamo in salsa Sublime Frequencies e affini (e pensando ai Mr Bungle coi loro esperimenti, anche di qualcosa di più). Non tutti sanno che fu pubblicato come singolo in Germania, Yugoslavia , Spagna e in Bolivia e tutto sommato è il simbolo di un album variegato nello stile e in qualche modo “ostico” rispetto a tutto il loro catalogo, proprio perché privo di reali punti di riferimento (ad esempio, il singolo "Bicycle Race" è un brano impossibile da passare in radio, eppure…). Un pezzo spesso richiesto dal pubblico, anche se Mercury accennava spesso solo all’intro nei live, per far cantare la platea. Evidentemente la cosa principale era sottolineare l’aspetto di preghiera e di ritorno alle origini.

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"In The Space Capsule", da Flash Gordon, 1980 (Taylor)

Dopo tanti anni a denigrare i synth, ecco che chiamati a curare la colonna sonora del cult di fantascienza Flash Gordon i Queen decidono di sfatare il tabù e farne un uso smodato. D’altronde le leggi sono fatte per essere trasgredite, e ai Queen la trasgressione riesce facile. Così in Flash Gordon troviamo dei brani di micidiale cosmic ambient krautpop, come questa “In The Space Capsule”, che trasuda appunto spazio ma anche spezzoni che potremmo chiamare “musica concreta synth pop”. Ma non solo, in tutto l’album troviamo pezzoni come “Vultan’s Theme” in cui i Queen diventano una specie di band new romantic come i primi Spandau Ballet, quelli ultra sintetici per intenderci, o dei Rockets riveduti e corrotti. Sicuramente uno dei loro lavori più interessanti e singolari, soprattutto per l’aura di totale libertà creativa ispirata dai nuovi mezzi tecnologici e da una situazione filmica in cui tutto è lecito.

"Body Language", da Hot Spaces, 1982 (Mercury)

Come sia possibile che nei greatest hits questo pezzo sia raramente considerato è un mistero: eppure Hot Spaces, il disco da cui è tratto, fu il motivo per cui Michael Jackson decise di registrare Thriller. Il modello, secondo Jackson, era perfetto: un insieme di musica sintetica da club, iniettata di spunti black, che però manteneva un tiro rock (e, in effetti, Thriller è lo stato dell’arte di questa formula). È l’album meno rock di tutti, in cui i sintetizzatori sono in primo piano, ed è per questo che molti fan dei Queen storcono il naso quando ne sentono parlare. A salvare capra e cavoli per i puristi dei Queen rockettari ci pensa la famosissima "Under Pressure", ma “Body Language” con i suoi serpeggianti bassi di Oberheim e quel vuoto pneumatico erotico, è sicuramente più interessante (tanto che il video correlato fu bannato presto da MTV per il suo alto tasso di “hotness”). Il suo minimalismo all’ epoca stupì molti, ma oggi è praticamente l’attualità. I Queen ci vedevano lunghissimo, altro che pomposi dinosauri.

"Machines", da The Works, 1984 (May/Taylor)

Ritorniamo in ambito distopico, con un pezzo in cui l’elettronica è usata in maniera massiccia, forse più che in qualunque altra canzone del disco. Sequencer, vocoder malvagi, l’utilizzo di un campionatore Fairlight in cui vengono anche infilati auto campionamenti da vecchi brani. Il botta e risposta tra uomo e macchina anticipa gli scenari che oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti, in una società pervasiva in cui la tecnologia sta distruggendo la realtà umana per sostituirla con dati digitali immateriali e dittatoriali. Dentro però pulsa ancora un cuore rock'n'roll (e nella frase “with random access memory” pulsa anche quello dei Daft Punk, che l'hanno rubata per il titolo del loro album).

E poi? Non c’è altro? Ovviamente sì, ma il film si ferma al 1985, e anche per questo ha ricevuto alcune frecciatine dato che la storia dei Queen è poi proseguita più che egregiamente. Però non vi preoccupate, è chiaro che se the show must go on, ci sarà un sequel proprio con questo titolo. Però andiamoci piano, che come cantava Freddie “too much love will kill you”. A volte uccide più idoli l'amore che il fuoco.

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