Politică

Dopo un anno di governo, del "cambiamento" non rimane niente

Doveva essere il "governo del cambiamento," ma dopo un anno l'alleanza tra Lega e M5S assomiglia più a una crisi coniugale.
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Grafica di Piero Amoruoso.

All’incirca un anno fa, dopo mesi di estenuanti trattative, nasceva il “governo del cambiamento” ed entravamo nella cosiddetta Terza Repubblica. Nonostante le palesi differenze e diversità di vedute su molti temi, l’alleanza era sancita dal famigerato “contratto di governo,” un documento firmato da Lega e Movimento 5 stelle con una serie punti condivisi da realizzare.

In questi dodici mesi i due partiti al governo hanno ripetuto all’unisono di “lavorare bene insieme,” bollando come fantasie tutti i retroscena che registravano scazzi e dissapori. Ultimamente, però, i terreni di scontro si moltiplicano a vista d’occhio—come la TAV, sulla quale, all’indomani delle elezioni europee, Matteo Salvini ha ripreso a spingere dopo mesi di stallo; o la questione della cannabis light, con il leader della Lega che accusa il M5S di volere “uno stato spacciatore” e Luigi Di Maio che replica dicendo che il Ministro dell’Interno usa “il tema della droga per coprire il caso Siri.” O ancora la “Flat Tax,” che, per Salvini, “o si fa e si vive, o non si fa e si muore.”

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Ieri poi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo aver annunciato di avere “alcune cose importanti da dire a tutti voi”, ha parlato a Palazzo Chigi davanti ai giornalisti, in una sorta di tragico discorso alla nazione sul futuro del Governo del Cambiamento. All’inizio del suo intervento ha elencato le cose realizzate nell’arco di quest’anno, definendo l’immagine di stallo dell’esecutivo una “falsità.”

Ma a un anno di distanza dall’annunciata “rivoluzione gialloverde,” è davvero così? Negli ultimi giorni sono usciti due dossier—uno pubblicato da Pagella Politica, l’altro da lavoce.info—che riassumono quanti punti del contratto di governo sono stati effettivamente portati a termine e quanto invece è rimasto sulla carta (no, l'aver “abolito la povertà” non c’è).

Secondo il progetto "Traccia il Contratto" di Pagella Politica, in questi dodici mesi di Governo del Cambiamento è stata mantenuta circa una promessa su dieci (il 12 percento), 37 sulle 317 presenti nell’accordo—il che, andando a guardare il merito di alcune proposte del contratto, non è necessariamente un male, ad esempio in tema immigrazione.

Tra le misure portate a termine ci sono il tanto sbandierato "reddito di cittadinanza"—che non è un vero reddito di cittadinanza—e “quota 100,” la modifica dei requisiti per andare in pensione. Fa parte di questo gruppo anche la nuova legge sulla legittima difesa (che in realtà esisteva già e apporta solo qualche modifica), le norme sulla corruzione, quelle sulla cosiddetta “pace fiscale” e quelle che prevedono più fondi per le forze dell’ordine.

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Su circa il 40 percento delle promesse il governo ha fatto qualche passo o ha iniziato una discussione, senza però prendere provvedimenti definitivi. Questa situazione riguarda principalmente i temi di giustizia, ambiente, riforme costituzionali e sanità. Rientrano in questa categoria anche la riduzione del numero dei parlamentari, la riforma dei centri per l’impiego—che farebbe parte delle misure per implementare il "reddito di cittadinanza"—e quella dell’affido condiviso, il discusso ddl Pillon, che, nonostante le polemiche tardive del M5S fa effettivamente parte del contratto di governo che hanno firmato.

Secondo l’analisi di Pagella Politica ci sono poi due ambiti in cui la maggioranza ha iniziato ad agire senza però mantenere davvero quanto scritto nel contratto: l’acqua pubblica e la Tav. Sulla prima c’è ancora in esame alla Commissione Ambiente della Camera una proposta di legge del M5S, ma la Lega non sembra molto convinta. La Tav, come detto, è uno dei punti di contrasto più evidenti all’interno del governo.

Quasi la metà delle promesse contenute nel contratto sono rimaste solo annunci. Ad esempio la "Flat Tax"—misura-bandiera della Lega per le elezioni del 4 marzo 2018—o la legge sul conflitto d’interessi per il M5S, quella sul salario minimo, nonché la maggior parte degli impegni su giustizia, università e ricerca (l’80 percento), turismo, ridiscussione dei trattati Ue sul deficit.

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C’è poi il capitolo immigrazione—tema che ha praticamente occupato l’agenda mediatica degli ultimi anni. Prima di diventare ministro Salvini aveva promesso che avrebbe espulso “cento migranti al giorno,” e nel contratto di governo si faceva cenno a una “seria politica di rimpatri.” Queste dichiarazioni non hanno trovato riscontro, considerato che Salvini non ha stretto nessun accordo bilaterale con paesi di origine o di transito, e che, secondo un’elaborazione dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), tra giugno-novembre 2017 i rimpatri mensili erano stati in media 577, mentre nello stesso periodo relativo al 2018 sono scesi a 463.

Stesso discorso per quanto riguarda il superamento del regolamento di Dublino, anche questo inserito nel contratto. Del resto, in sede europea la Lega ha disertato 22 riunioni in due anni di negoziati per la riforma del testo.

Se dei due impegni principali sull’immigrazione nessuno è stato portato a termine, il governo ha privilegiato azioni a forte impatto mediatico come la propaganda dei “porti chiusi”—che non lo sono—e i ripetuti casi di navi cariche di naufraghi bloccate a poche miglia dalle coste italiane.

Infine, in 8 promesse su 317 l’esecutivo ha fatto esattamente il contrario di quanto aveva annunciato: ad esempio per quanto riguarda il ritiro delle sanzioni alla Russia—l’aveva detto già ad aprile 2018 Salvini, e poi l’ha inserito nel contratto—Iva, accise sulla benzina e pressione fiscale. Per quest’ultima il contratto ne prevede una riduzione, ma stando al Documento di Economia e Finanza (Def) di aprile 2019, sembra che questa aumenterà dal 42 percento previsto per il 2019 fino al 42,7 percento nel 2020 e nel 2021, per poi riscendere nel 2022 al 42,5 percento, che è un valore comunque più alto di quello registrato nel 2018.

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Un altro impegno sul versante immigrazione era quello di allineare le attuali forme di protezione agli standard internazionali. Secondo il governo la cancellazione della protezione umanitaria (sostituita da permessi speciali) operata con il decreto sicurezza andrebbe in questa direzione. Bene, è esattamente il contrario: la protezione umanitaria è prevista da 25 i paesi, di cui 21 membri dell’Ue. In generale poi il decreto ha l’effetto opposto di quello dichiarato, andando a creare nuova irregolarità e marginalità.

Questo resoconto riguarda quella che Conte ha definito ieri in conferenza stampa la “fase 1” del governo giallo-verde, mentre ora dovrebbe partire la “fase 2”.

Durante il suo discorso, il presidente del Consiglio ha chiesto a Di Maio e Salvini di dichiarare “se hanno intenzione di proseguire nello spirito del contratto stipulato o se preferiscono riconsiderare questa posizione,” perché lui non è disposto a “vivacchiare”—insomma, se si va avanti o si va tutti a casa e si torna a votare.

Entrambi hanno detto che si va avanti. Di Maio ha dato la disponibilità del M5S ma ha chiesto un vertice di governo; mentre Salvini ha sostanzialmente detto che la Lega c’è se il governo dirà sì a un paio di cavalli di battaglia come Flat Tax, riforma della giustizia, Decreto Sicurezza Bis e autonomia regionale.

Nel frattempo, ieri sera la riunione convocata da Conte per discutere il decreto sblocca cantieri è stata interrotta a meno di un’ora dall’inizio per divergenze tra Lega e M5S e sono ricominciate accuse e punzecchiamenti. Questa mattina Salvini ha dichiarato in un’intervista di non avere “alcuna intenzione di fare cadere il governo,” ma che se “tra 15 giorni ci ritroviamo qui a dirci le stesse cose, con gli stessi ritardi e gli stessi rinvii, allora sarebbe un problema.”

La “fase 2” non sembra iniziare molto bene.

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