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Tecnologia

'La linea di polvere': dentro il mondo degli indigeni con l'iPhone

Massimo Canevacci ci ha parlato dei Bororo —la popolazione indigena con i funerali più incredibili che possiate immaginare.

I Bororo sono una tribù indigena del Mato Grosso brasiliano, conosciuti per la particolarità dei loro riti funebri. Assistere a un funerale Bororo è una delle esperienze più macabre e sconvolgenti che un essere umano possa mai fare: il corpo del defunto, dopo essere stato interrato per alcune settimane, viene riesumato per essere sottoposto a trasformazione.

Le ossa del corpo vengono separate dal cranio, che viene spolpato, ripulito e dipinto di pigmento rosso (urucum) da uno dei componenti della famiglia. Decorato con piume di pappagallo bianco, il cranio diventa così un totem su cui gli abitanti del villaggio fanno colare il loro sangue, dopo essersi scarificati con dei denti di piranha. Tutto questo, nel caldo umido della giungla brasiliana.

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Come è facile immaginare, questa popolazione ha suscitato l'interesse di molti antropologi. Massimo Canevacci, antropologo romano che insegna e vive a San Paolo dal 2008, ha raccontato la sua ricerca sui Bororo in un libro edito da Meltemi, uscito da poco in edizione italiana: La linea di polvere. La cultura bororo tra mutamento e auto-rappresentazioneOltre a scrivere una documentazione di quasi 300 pagine, Canevacci ha cercato di intrecciare i fili narrativi della cultura Bororo su più dimensioni, sfruttando le potenzialità del digitale con la realizzazione di una app e di un gruppo Facebook per indigeni.

"Poco prima di mettere piede per la prima volta nel villaggio, qualche anno fa, ho comprato l'ultimo modello di fotocamera analogica. Quando sono arrivato lì, però, uno dei ragazzi mi ha accolto fotografandomi con una bellissima compatta. In quel momento ho capito che non ero solo io, l'antropologo, a poter raccontare loro. Anche loro potevano raccontare me, oltre che se stessi," ha raccontato Massimo durante una presentazione del suo libro. Per saperne di più su come vivono gli indigeni con l'iPhone, e più in generale su come sia cambiata la loro società con l'introduzione della tecnologia, lo abbiamo incontrato a Milano.

Motherboard: In cosa consiste la tua ricerca sulle culture indigene del Mato Grosso? Quel era l'obiettivo dei tuoi studi, in quanto antropologo?
Massimo Canevacci: Le culture indigene stanno affrontando una fase di mutamento, in modo diverso dalle culture urbane, ma con un processo che ha affinità e differenze che io, in quanto antropologo, cerco di studiare. Uno di questi aspetti è dato dalle tecnologie digitali che stanno cambiando i modelli di comportamento sia nostri che loro. La mia indagine è volta a capire chi ha il potere di comunicare su chi, e con quanta efficacia.

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Con quali difficoltà si confrontano le popolazioni di questo genere, nell'era digitale?
Essendo ormai a metà tra una cultura e l'altra, i Bororo devono difendere la loro autonomia cosmologica filosofica e religiosa dal mondo esterno. L'offensiva maggiore è costituita da chi vuole appropriarsi dei loro territori e delle loro anime: salesiani ed evangelisti, fazenderos, la rete televisiva Globo con le sue telenovelas — tutte le capanne indigene hanno l'antenna parabolica. La sfida, per le nuove generazioni, è quella di trovare un modo per integrare la tradizione con il mutamento.

Un bororo durante il rito funebre di sua moglie. Foto: Massimo Canevacci

Se per noi occidentali l'impatto delle tecnologie digitali è stato graduale, immagino che nelle culture indigene sia stato molto più brusco e abbia portato non pochi sconvolgimenti.
Sì, l'impatto è stato certamente più drammatico e brusco. Nel Mato Grosso le tecnologie analogiche non sono praticamente penetrate: erano care, ingombranti e si rompevano facilmente a causa dell'umidità e dell'eccessivo caldo. La TV, per esempio, ha iniziato a esistere soltanto con l'antenna parabolica. Il digitale è piccolo e si rompe meno facilmente. Poi ha un uso davvero intuitivo e semplice, per un ragazzino di un villaggio del Brasile usare un iPhone è facile tanto quanto per uno di Roma.

Come ha reagito la società Bororo all'arrivo delle tecnologie digitali e di internet?
Si sono create situazioni interessanti, tra cui anche intrecci amorosi prima impensabili: fino a qualche tempo fa, per esempio, c'erano dei tabù legati all'impossibilità di sposarsi tra membri dello stesso clan o tra Bororo e Xavanti (due tribù storicamente in conflitto). Ora la questione si è appianata: grazie ai social network i ragazzi entrano in contatto. Anche i gay, che sono storicamente ostracizzati, hanno acquisito un ruolo sociale: fare il trucco alle ragazze e vestirle in occasione dei rituali. Il digitale non è l'unica causa, certo, ma sicuramente è uno dei fattori che hanno contribuito all'apertura mentale.

Quali progetti legati al digitale hai portato avanti in questi anni?
Da una parte c'è aldeia digital, un gruppo Facebook che ho creato insieme ad alcuni amici per far entrare in contatto persone di culture indigene differenti unite dalla conoscenza del portoghese. L'obiettivo è quello di farle comunicare, colmare le distanze geografiche e appianare i conflitti. Poi c'è una app, Ubiquitous Anthropology — sviluppata in collaborazione con Salvatore Iaconesi — pensata per raccontare le popolazioni del Mato Grosso con narrative inedite: l'antropologo non ha più il ruolo di rappresentare le altre culture dall'alto, ma queste riescono ad auto-raccontarsi caricando sulla app contenuti multimediali relativi ai loro costumi, e alla loro quotidianità.

Il fatto di promuovere l'auto-rappresentazione dei Bororo ha una profonda connotazione politica, no?
Sì, spesso nelle ricerche etnografiche c'è l'antropologo che racconta, descrive, spiega al lettore quanto ha visto. Ma il racconto è sempre monodimensionale. Nella app, invece, le narrative non sono più solo verticali, monologiche, oggettivanti, ma anche polifoniche, sincretiche e ubique — le mie tre parole-chiave. È giusto che non sia più solo l'antropologo a dipingere una cultura indigena attraverso il suo sguardo da occidentale, in un'epoca in cui questa si può autorappresentare grazie alla tecnologia. Io la chiamo divisione comunicazionale del lavoro: oggi riuscire a comunicare e ad autorappresentarsi vuol dire avere potere.