Diamanti sotterranei: Wallace Records

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Musica

Diamanti sotterranei: Wallace Records

Attiva dal 1999, questa label milanese è un forziere del tesoro per chiunque guardi all'underground come alla fonte delle pietre più preziose.

Parlare della Wallace Records vuol dire parlare di una piccola istituzione nel mondo della musica underground in Italia e non solo. Le cose più interessanti per quanto riguarda il noise, l'avanguardia, tutto l'universo che a un estremo vede i barlumi di quel rock alternativo italiano, che proprio a Milano ha avuto il suo avvio, e dall'altro il rumorismo più sperimentale, concettuale, difforme, sono la sua cifra stilistica. Wallace in pochissimo tempo non solo è diventata punto di riferimento per tutti gli adepti di queste sonorità, ma ha fatto scuola, riuscendo a riunire un grande gruppo di irregolari che, mi dico, senza questa label chissà come avrebbero pubblicato i loro primi lavori.  Nei suoi quasi diciott'anni di esistenza, per la label milanese nata nel 1999 sono passati nomi forse misconosciuti (tanti dimenticati) ma eccezionali, dai Six Minute War Madness ai Rosolina Mar, dai Camillas agli One Dimensional Man (nucleo del Teatro degli Orrori). E per me, in particolare, niente è stato più come prima dal momento in cui i ragazzi con cui suonavo qualche anno fa mi hanno prestato alcuni dischi di Zu e A Short Apnea. Da lì in poi la Wallace per me è stata una fonte di inesauribili scoperte, grazie ai 194 dischi pubblicati fino ad oggi (ultimi due titoli gli album di The Rambo e Moe), ognuno con un approccio perfettamente anomalo, e d'ispirazione a seguire nel modo più personale la propria traiettoria, e dunque benvenuto in casa Wallace.

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Che poi è la casa (in senso proprio) di Mirko Spino, oggi 43enne affezionato più che mai alla sua creatura. Perché quello che forse sorprende è l'impegno unico profuso da Mirko in questi anni, a seguire da solo in prima persona tutte le incombenze di una label, dalla stampa dei dischi, alle grafiche di copertina, alla cura di un sito bellissimo fin dai tempi del web 1.0, ma anche tutto quel lavoro di scouting, consulenza alle band, il riuscire a portare a compimento idee musicali così difficili da incasellare—lavoro impagabile eppure fondamentale quando non si è nessuno e finalmente si incontra qualcuno che con tanta fatica e dedizione ci aiuta a tirare fuori quello che si vuole esprimere in musica.

Questa lunga chiacchierata telematica con Mirko Spino (al momento dell'intervista in viaggio in Asia) è, per chiunque abbia passione per la musica e per l'ambiente underground in particolare, soprattutto una grande lezione di umiltà. Lavorare con la musica è complicato, stancante, e quasi sempre in perdita. Eppure se vissuto in un certo modo resta qualcosa di bellissimo ed esaltante, che poi è l'effetto che fanno a me tanti dischi Wallace, a voi non so, ma cazzi vostri.

Noisey: La prima domanda è: chi te lo fa fare? O meglio: dove trovi la motivazione per portare avanti un'etichetta discografica di musica alternativa, non commerciale e quindi di sicuro poco redditizia? Cosa significa pubblicare dischi per te? Anche in un senso molto intimo.
Mirko Spino: Risposta obbligatoriamente intima. Oggi fare dischi non ha nessun senso oggettivo e pratico, è solo sentimento. L'ascoltatore non ha bisogno del disco per ascoltarti. Fai i dischi perché vuoi lasciare traccia fisica del tuo passaggio sulla Terra. Anche l'etichetta ha meno senso, le è rimasto il ruolo di promozione. Quindi per quanto riguarda il mio ruolo il senso di infondere tempo, energie e soldi sta nel potersi raccontare che "ho fatto parte di", "ho contribuito a realizzare questo", "senza di me sarebbe stato meno bello". A me questo basta come motivazione, smetterò quando ne avrò a sufficienza anche dei risultati.

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Mi racconti un po' come è nata la Wallace Records, come ti è venuta l'idea di fondare un'etichetta? E perché il nome Wallace? Qual è il primo disco che hai pubblicato?
Wallace è nata esattamente per i motivi di cui sopra. "Volevo far parte" del mondo che avidamente stavo consumando verso i vent'anni in fatto di concerti, dischi, fanze e discussioni su cosa vuol dire vivere e creare cultura in maniera alternativa, con le miliardi di branche in cui l'underground si scinde. Cosa potevo fare? Che cosa sapevo fare meglio degli altri? Io sono una discreta macchina da guerra in fatto di organizzazione, e quindi ho fatto sì che i gruppi non si perdessero in faccende accessorie, come creare i file delle copertine, fare spedizioni e tenere i contatti con distro e media. Non lo sapevo fare, ma ero motivato e ho imparato in fretta, finendo a volte per riuscire a piazzarci un po' di mia creatività. Quindi anche grazie all'amicizia che avevo con alcuni gruppi (Jinx, One Dimensional Man, Six Minute War Madness…) è nato il primo CD, la compilation Tracce nel maggio '99. Doveva essere un 10" ma poi i costi e la volontà di avere altri gruppi mi ha fatto "ripiegare" sul CD. Ecco, la Wallace nasce con un ripiego. Riguardo al nome: aiutavo i Jinx a trovare la date, mi dissero che per essere preso seriamente dovevo agire come agenzia, che quindi prese il nome di Mr. Wolf. In effetti risolvevo problemi come "manca il rullante per gli Starfuckers in Conchetta stasera". Taaaaccc, Ecco il rullante. Da lì a continuare con Pulp Fiction mi è venuto spontaneo.

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C'è un disco (o più) che hai pubblicato di cui sei particolarmente orgoglioso? E perché?
Ho sempre risposto che è il secondo di A Short Apnea, Illu Ogod Ellath Rhagedia [band di Paolo Cantù, Xabier Iriondo e Fabio Magistrali, album meraviglioso anche secondo me, NdR]. Non solo per il disco in sė, ma anche perché si tratta di un perfetto connubio di rock e avanguardia che non scimmiotta nessuno e che ha un respiro internazionale pur omaggiando le radici culturali italiane da cui esce. E perché i tre musicisti e personaggi in questione sono per me dei colossi e mi avevano consegnato il ruolo di etichetta naturale per il loro album. Ero al decimo disco, mi sentivo come in quella fase dell'innamoramento in cui tutto quanto sembra girare alla perfezione. Però se ogni tanto non citassi altri dischi farei loro un gran torto: io amo alla follia R.U.N.I., Anatrofobia, Bz Bz Ueu, Rosolina Mar, Rollerball, Tasaday (sto facendo dei torti a non allungare la lista ma mi fermo qui). Sono gruppi e dischi che mi ascolto per prima cosa in quanto ascoltatore. Per non parlare poi di Igneo degli Zu, Tarlo Terzo dei Bachi da Pietra, Morire per la Patria della Fuzz Orchestra. Sì, onanisticamente ascolto spesso buona parte del catalogo Wallace.

La Wallace è nata in un momento di passaggio e dal 1999 ha visto accadere diverse fasi per quanto riguarda la discografia. La scena italiana (e soprattutto milanese) degli anni Novanta è stata molto vivace, sono gli anni in cui cominciava a nascere il concetto stesso di etichetta rock indipendente (come esempio ti farei la Mescal). Da qui tu hai forse precorso i tempi, che in pochi anni hanno visto nascere un enorme numero di etichette indie, si tratta degli stessi anni in cui nasce il Mei per esempio. Però da metà anni 00 in poi (sto approssimando) l'avvento del digitale manda in crisi la discografia, proprio perché tutto diventa disponibile e gratuito, e per i grandi gruppi editoriali comincia una crisi profonda. 

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Ti chiedo: qual è il senso di mettersi a fare dischi esattamente nel momento in cui la discografia entra in profonda crisi? E a te com'è andata, come hai vissuto gli ultimi quasi 17 anni di lavoro discografico?
È vero che Milano negli anni Novanta è stato un buon terreno per potermi permettere concerti e frequentazioni, ma se devo trovare delle muse per quanto riguarda il mio operato, non le trovo nella Mescal quanto piuttosto nel negozio Zabriskie Point, nei centri sociali, nella Blu Bus. La Mescal è nata per piazzare i suoi dischi al Virgin Megastore Duomo vicino a Vasco, io per piazzarli alla libreria Calusca di Conchetta vicino ai Crass [su questi argomenti il riferimento imprescindibile è il libro Costretti a Sanguinare di Marco Philopat, NdR] e magari anche agli Area.

Io faccio parte della Milano operaia, non di quella degli universitari mantenuti (sto usando due schematizzazioni, non voglio sentire proteste) anche se sappiamo che capita di condividere serate al Leoncavallo. Oppure si può pensare che sono uno che ci ha provato ma ha fallito. Mi piace ricordare agli inizi il percorso fatto insieme a Bruno (Dorella, ora al lavoro con Ronin, Bachi da Pietra e Ovo, ndr) con Bar La Muerte, ma anche con Stereosupremo (prima o poi si dovrà riscoprirla) o fuori da Milano con Burp, Free Land, Snowdonia… poi arriva il Mei e si afferma nel giro poco tempo, ma dopo un paio di anni passati ad annusarci ho capito che anche lì gli obiettivi erano antitetici. Forse le teche Rai conservano da qualche parte un'intervista a Jovanotti che al Mei di fronte al mio banchetto dice che tra le nostre etichette si sarebbe potuta trovare la futura Virgin. Col cazzo! Io stavo lì per dire che ci si può far ascoltare senza dover diventare burattini da music business. Per adesso ha vinto lui, ma il mondo non è ancora finito. Io non ho avvertito drammaticamente il passaggio del mercato discografico dalla forma fisica a quella digitale, credo sia perché di fatto non sono mai stato nel mercato. Se oggi vendo meno la mia musica fuori dagli schemi è perché c'è meno attenzione per le musiche fuori dagli schemi, non è una questione di formati o di capacità distributiva.

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Ma la TUA quota di mercato è aumentata? Diminuita? I singoli dischi vendono di più, di meno? Perché secondo te?
Davvero difficile capirlo. Sicuramente si è frammentato tantissimo il mercato, se così lo si può definire. Forse quindici anni potevi fare una lista di etichette underground visibili e contarne fino a dieci, tra cui anche la Wallace. Oggi per saziare la fame di musica diversa esistono un milione di realtà, spesso meteore ma comunque validissime. Penso che tutto sia nicchia nel nostro ambito. E penso che davvero nessuno ci stia capendo un cazzo, io in primis.

Quello che da fan ho sempre apprezzato della Wallace è la cura per tutto, la confezione, la coerenza nella scelta dei gruppi (tutti interessanti e originali, sempre di qualità), sei anche uno dei primi esempi veramente riusciti secondo me di "professionalizzazione" del mondo DIY. E penso che il tuo merito come discografico sia stato proprio questo, creare un marchio ovviamente riconoscibile, essere garanzia di qualità, cosa che ti ha portato a creare una fidelizzazione con il pubblico, che ti ha seguito, ha comprato i dischi Wallace e questa è una prospettiva ovviamente totalmente diversa rispetto alla major, per fortuna oserei dire (si muovono in modo simile oggi, per esempio, Maple Death e Boring Machines, ma ovviamente mille altre). Secondo te in questo ha influito anche la scelta del formato, visto il tuo amore per il vinile ad esempio che oggi è oggetto di un feticismo modaiolo? Vorrei mi parlassi di come sono cambiate le cose da quando hai cominciato. E in che direzione vorresti andare, dove pensi ti muoverai come discografico in futuro?
Mi ritrovo in quello dici, ho un metodo di lavoro abbastanza rigoroso. Volevo far sì che tra una pubblicazione Wallace e una major non ci fosse differenza formale: hai in mano un cd ufficiale, con una bella copertina ben curata. È registrato bene, ed è facile da acquistare anche nei negozi. È passato pure sulle radio a larga diffusione e sta sui giornali. A questo punto se ti compri (pagando il doppio) un gruppo minchia pop rock dalle major, il problema è il tuo livello culturale, non la difficoltà di un mercato sommerso. E sono estremamente convinto che il problema sia quello, ancora più grosso oggi e negli ambienti cosiddetti culturali della sinistra alternativa. Quello che ho evitato di fare, anche se avrebbe dato una maggior visibilità, è l'etichetta di genere. Se ti inventi che la tua musica è il punk/wave/jazz aggiungendo qualcosa come pre- post- no- alt- etc… rendi la vita più facile al giornalista pigro, gli fai capire che può essere il primo a parlarne, che esiste una scena che va testimoniata, e via di articolone di approfondimento. Poi però non c'è più nulla da dire, se non "c'era una volta". Stesso discorso per il vinile, per me non è mai tramontato e quindi non c'era nulla da riscoprire. Il disco numero 13 della Wallace, anno 2001, è un 7", l'ultimo è in CD e LP. Il fatto che oggi vengano fatte le edizioni in quadruplo lp di Ligabue per Natale non ha niente a che vedere con l'immutata esistenza del vinile underground. E tanto per stare sull'analogico, può essere che il futuro della Wallace sia uscire dal digitale. Non intendo il cd, ma streaming, presenza web, servizi online etc… invisibilità digitale. Ci sto pensando seriamente, ma devo valutare l'impatto che può avere per le band e i loro live.

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Quello che poi ho sempre apprezzato è che sei riuscito a dare una "confezione", un vestito e una coerenza, a band sperimentalissime e che senza questo contenitore eccezionalmente italiano magari si sarebbero perse (penso a Zu, Uochi Toki, tutte le cose che fa Xabier Iriondo fuori dagli Afterhours, come avrebbero fatto senza la Wallace?), e in qualche modo hai sdoganato, hai fatto sì che anche quest'aspetto estremamente sperimentale entrasse in quello che è la musica indipendente italiana (qualsiasi cosa voglia dire), mi viene in mente il percorso degli One Dimensional Man al Teatro degli Orrori, ma è solo un esempio. Come paragone penso a un'etichetta come la Tzadik di John Zorn, per esempio.
La Tzadik e le sue cazzo di fascette nere jap tutte uguali. Mi fanno impazzire, è tra le migliori trovate che conosco. Onorato del rimando. Vero che un po' di materiale Wallace è piuttosto ostico per chi nel rock non si scioglie fino a quando sente il riff. Ma questa è una parte, e non maggioritaria, del catalogo. Questa generalizzazione ("le solite cose inascoltabili della Wallace" mi è capitato di leggere) è figlio di quella pigrizia critica di cui parlavo prima sull'etichetta di genere. R.U.N.I., X-Mary, Camillas (e altri) non sono certo dei gruppi pop preconfezionati, ma sono fruibilissimi anche per un pubblico non specializzato. Sono il Festivalbar nel mondo ideale. Infatti questi dischi non riesco a venderli direttamente con i miei canali (distro, mailorder etc…) ma ai loro live vengono acquistati a pacchi. Perché non è normale pensare che tra il catalogo Wallace trovi questa roba. Comunque, scusa lo sfogo, evidentemente devo aver fatto qualche errore di comunicazione in passato.

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Un'altra cosa secondo me davvero notevole in quello che hai pubblicato è la capacità di scouting. Alcune band scompaiono, è la natura delle cose. Ma molte delle band attuali (Bachi da Pietra, Fuzz Orchestra) magari esistevano solo in nuce, e tu hai pubblicato i primi dischi di musicisti poi diventati anche relativamente famosi. Con che criterio scegli i gruppi? Perché pensi di essere riuscito ad avere sempre a che fare con musicisti ottimi e progetti eccezionali?
Facilissimo: è perché io frequento il mondo underground, ed è lì che trovi le cose eccezionali. È l'ambiente più slegato da logiche che non siano creative, e quindi il più fertile. Faccio solo delle scelte in base a quello che mi sta intorno. Se andavi a vedere i concerti a Milano nel 2000, non potevi non sapere che esistevano i Bron y Aur, che poi incontravi tra il pubblico in un altro posto e prima o poi ci conosceva, scambiandosi dischi e così via. Quei quattro individui diventeranno poi con negli anni Fuzz Orchestra, Plasma Expander e Rinunci a Satana?, che insieme ai sopracitati, sono tutti gruppi con cui ho collaborato. Questa cosa esiste in ogni città e il tutto diventa rete nazionale e oltre. Quindi, pur incassando il complimento, penso di non essere speciale nello scouting, ho solo scelto l'ambito più ricco da frequentare. Non dirlo a nessuno però che è così facile, se no mi rubano il lavoro.

Che rapporto hai con le band? Di cosa ti occupi? Prima di arrivare alla pubblicazione di un disco, qual è il percorso? Dubito, soprattutto per realtà sperimentali e a inizio carriera, che tutto fosse chiaro per tutti, giovani musicisti magari. Come li hai aiutati? Li hai prodotti? Consigliati? Cosa proponi a un gruppo che vuole lavorare con te? Quanta gente ti scrive per lavorare con te? Quanti ne rifiuti? 
Di solito indago molto le persone, per essere sicuro che ci sia una comunione di intenti. Se capisco che il gruppo sta cercando il trampolino di lancio ė chiusa subito. Ma di solito ciò si capisce già prima di trovarsi a cena insieme. Molti dei musicisti con cui lavoro sono diventati tra gli amici più stretti, e non il contrario. O comunque c'è grandissima sintonia, anche nei disaccordi. Ė un lusso che cerco di conservare. I gruppi non sanno niente di pubblicazione e promozione, ma anche dei principi base del diritto d'autore, per non parlare di proventi (e quando mai?). Io spiego loro le cose, poi decidiamo insieme cosa fare. Per esempio, buona parte del catalogo è su Spotify/iTunes etc… ma alcuni preferiscono di no e quindi non ci sono. Questo ed altri dettagli, copertina, formato, tipo di promozione, li decidiamo insieme. Credo che questo lavoro di consulenza sia quello di cui le band abbiamo più bisogno. E infatti molte proposte che ricevo si concentrano su questo. A cui io applico i miei filtri musicali e personali. Quante proposte mi arrivano? Circa due al giorno. E credimi ascolto tutto. Una volta rispondevo anche a tutti, ora mi manca il tempo e soprattutto la voglia. Anche perché non ricordo di aver pubblicato dischi per via del demo che ho ricevuto. Come dicevo prima, preferisco incontrare i gruppi nelle situazioni vissute, concerti e così via.

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Parliamo di numeri. Sei un raro caso di one-man-label, ma ti aiuta mai qualcuno o fai tutto tu? Ci vivi? Ci guadagni? Fai altri lavori? Quante copie vendono i dischi che produci? In quante copie li stampi e quante di queste sono ancora nel tuo garage? E quali sono i dischi che hanno venduto di più?
Faccio tutto io, anche se a volte chiedo una mano qua e là per ritirare e inviare pacchi. Oppure nel caso di coproduzioni ci si divide il lavoro. Non sono bravo a delegare e comunque se non mi beccassi anche la parte sporca del lavoro, non mi sentirei di aver infuso la fatica necessaria per mettere il mio marchio sul disco. Tasto dolente quello dei numeri. Se fosse rilevante sarei un masochista seriale. Stampo circa 500 dischi, ultimamente spesso coprodotti, e le vendite sono davvero poche. Migliorano se il gruppo fa concerti, a volte fino si riescono a vendere tutti. In passato però sono arrivato a stampare anche 2500 copie, mediamente 1000. Alcune giacciono in uno scatolone in attesa del revival alternative rock '00s. Ovviamente faccio un altro lavoro, anche per pagarmi lo sfizio della Wallace. Ho lavorato quindici anni per una grossa multinazionale, guadagnavo un sacco e viaggiavo, così dopo il meeting con il cliente (e lauta cena) andavo a sentire i live nel posto in cui mi trovavo. Oggi sono molto più barbone, mi occupo di sviluppo web come freelance, non ho fissa dimora e quando torno a Milano pubblico qualche disco.

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Dove sei in questo momento? Te la godi? Vai spesso a concerti?
Ora mi trovo in Laos perché sono nel bel mezzo di un giretto asiatico di due mesi. Vacanza pura, anche se il mio lavoro mi consente gestioni a distanza. Infatti mi muovo spesso, quest'anno sono stato un po' a Berlino, in Sicilia, in Romagna. Sono un cosiddetto nomade digitale, tra cloud e device attutisco la mancanza dei vinili, comunque insostituibile. Sicuramente questa situazione ha i suoi vantaggi, ma tra gli svantaggi c'è quello di perdersi l'approfondimento delle scene locali. Concerti quindi ne vedo molto pochi rispetto agli anni milanesi, a mia discolpa devo dire che c'è ne sono molti meno che mi attirano. Il resto è colpa della vecchiaia.

Pensi che la situazione, anche culturale, per quanto riguarda alcuni stili musicali sia migliorata o peggiorata? È figlia dei nostri tempi? Figlia del nostro Paese?
Sicuramente la situazione è figlia della nostra epoca, ma non mi sento di dire meglio o peggio. Solo diversa. Sta a noi adeguarci e non sedersi sul classico "ai miei tempi…". Quello che mi sembra chiaro è che il rock ha smesso di rappresentare l'antagonismo culturale, con cui è sempre andato a braccetto. Oggi quando vado a vedere il gruppo noise avant (magari disco del mese qua e là), mi guardo in giro e vedo troppi capelli bianchi, vedo facce che conosco da sempre. Mi chiedo dove si stiano sfogando in quel momento gli ormoni dei ventenni. Mi rifiuto di rispondermi che stanno tutti a mettere like o a guardare X-Factor, perché quelli sono comportamenti della massa, che è sempre esistita e che è sempre stata mediocre. Ma quella categoria di persone che negli anni è stata hippy, punk, no global, squatter… oggi da chi è rappresentata? Dove sta? Io davvero non lo so e voglio continuare a pensare che sono io che non la vedo, che è talmente avanti e underground da non farsi scorgere dai vecchi imborghesiti come me. E nonostante io non perda occasione per gettare merda su un paese allo sfascio (culturalmente prima di tutto) come l'Italia, credo che questa situazione sia comune quantomeno a tutto l'occidente.

Torniamo ai Camillas. È una band che ora è diventata un prodotto anche televisivo e che quindi dimostrano esattamente quello che tu avevi intuito sulla loro accessibilità molto pop. Percepisco che esista un problema proprio di cultura musicale, di educazione alla musica, e quindi anche alle forme di fruizione, di sostegno, di relazione con un oggetto come il disco (che non è codificato come il libro, ad esempio). E penso che buona parte delle questioni legate al digitale risiedano anche in questo, in una cultura (che è cultura in tutto e per tutto, anche se spesso non viene considerata così) che si smaterializza, perde forma e consistenza, diventa passatempo, oppure sottofondo d'accompagnamento, tutto ovviamente gratuito, ma quindi senza valore (economico e d'uso), senza che vi si accompagni la necessità di fare uno sforzo di concentrazione e dedizione (e figuriamoci spostarsi fisicamente per andare a un concerto…). E qui torniamo al ruolo dell'oggetto disco, che spesso diventa un feticcio, ma che racchiude in sé mille significati anche simbolici rispetto al senso di fare e possedere cultura.
Non è solo educazione alla musica, quando parlo di cultura intendo un atteggiamento per il quale invece di cercare un proprio percorso di gusti, emozioni, piaceri, che per natura sono diversi per tutti, diventa più comodo allinearsi ed assecondare quello che ti viene sbattuto in faccia da chi può farlo (e Spotify, Apple e compagnia si stanno solo sostituendo alle pigre e incapaci major, non sono niente di nuovo). È questa pigrizia che ammazza. Anzi, ancora peggio, a queste persone si permette spesso di farsi dire come canalizzare un'eventuale voglia di trasgressione: ci sono i Nirvana, i Radiohead, gli Artic Monkeys. Ma dopo aver consumato i solchi di Nevermind non ti viene voglia di sapere se c'è in giro roba simile? Oppure pensi che Cobain sia Gesù e quindi poster, ristampe dorate e biglietto del Bloom '91 in cornice? Non dico di arrivare a conoscere il catalogo K Recs o Sub Pop a memoria, ma almeno ai Melvins ci si può arrivare. Come vedi sono più incazzato con gli individui inerti che non con i media che propongono merda. Sono sempre più convinto che "la rivoluzione comincia a casa, preferibilmente davanti allo specchio del bagno".

I Camillas sono un piccolo esempio perfetto: in giro da vent'anni, penso abbiano suonato in ogni comune italiano dalla fine dei '90. Adesso approdano in tv come "fenomeni emergenti". E va bene. Un milione di visualizzazioni del video di Bisonte. Molto bene. Sai quante persone hanno googlato i Camillas e sono approdate alla loro pagina sul sito Wallace? Google analytics dice pochi. Sai quante persone hanno acquistato il disco? Cinque: due cd e tre lp. Indicativo, no?

Fatti un giro nel catalogo Wallace Records.

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