distribuzione pasti milano
Tutte le foto di Carlotta Coppo per Munchies
Cibo

Come funzionano davvero le associazioni che distribuiscono i pasti ai senza fissa dimora a Milano

Abbiamo passato una serata con Progetto Arca, che ci ha spiegato come funziona davvero la distribuzione del cibo in città per le persone in difficoltà.

Con il lockdown, in via emergenziale, è partita la distribuzione a piedi che poi è diventata un servizio fisso con un food truck che dona ogni sera 100-130 pasti caldi a chi ha bisogno.

Secondo le stime ISTAT dello scorso anno nel nostro paese alla fine del 2020 c’erano 5,6 milioni persone in stato di povertà assoluta, ovvero impossibilitate ad acquistare beni di prima necessità. Di questa cifra fa parte il 29,3% delle persone straniere presenti in Italia, mentre dal 2019 la quota italiana è passata da 5,9% a 7,6%. Le famiglie in stato di totale indigenza sono circa 2 milioni con una crescita dell’1,3% sull’anno precedente (da 6,4% al 7,7%). Statistiche e arrotondamenti che tradotti in numeri reali, a distanza di più di un anno, saranno di certo maggiori.

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Le difficoltà ad accedere ai beni alimentari e di prima necessità sono prima aumentate con la pandemia, poi acuite con la crisi mondiale delle materie prime che ha aumentato i prezzi al consumo. Ciò che però a Milano, la città in cui risiedo, rende tutto più difficile, è il mercato immobiliare che ha vestito l’abito della finanza, sempre più scollata dall’economia reale. Il prezzo medio del mattone al metro quadro è di 4.913 € per chi acquista, 18,63 € per l’affitto. Significa che per un appartamento da 60 metri quadrati il canone medio di locazione è di quasi 1.200 €/mese.

Numeri crudeli che accompagnano la discesa verso il basso delle fasce sociali più deboli, già provate dai lockdown che hanno costretto locali a chiudere e aziende a licenziare. Se girando per la città vi è parso di vedere sempre più persone vivere per strada devo informarvi che non si tratta di un’illusione ottica.

La Cucina Mobile di Progetto Arca

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L'autore con Luca nel magazzino del Progetto Arca. Tutte le foto di Carlotta Coppo


Sono le 19.30 di un mercoledì di fine gennaio ed entro in un magazzino profondo sotto i binari della Stazione Centrale, in cui ci sono diversi bancali con colonne di derrate alimentari. È la Casa del Volontariato di Progetto Arca, fondazione che nasce nel 1994 a Milano grazie a un gruppo di volontari decisi a dare il loro contributo sul territorio a sostegno dei più bisognosi. Riconosciuta come Onlus nel 1998, dopo la creazione di due centri di accoglienza residenziale tra il 1994 e il 2001, grazie alle donazioni negli anni l’associazione s’è radicata nel territorio con le unità di strada e attività di sostegno alimentare anche in altre città (Torino, Napoli, Varese, Ragusa), oltre a progetti per accoglienza e reinserimento di immigrati e senza fissa dimora.

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Come ogni sera da lunedì a venerdì, tra qualche minuto inizierà la distribuzione dei pasti per strada. È Luca (che preferisce non venga divulgato il suo cognome) a illustrarmi cos’è la Cucina Mobile. Un passato nella ristorazione, dopo essere entrato in Progetto Arca come volontario è adesso il responsabile dell’attività, a cui lui stesso ha dato un’identità ben precisa. 

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La cucina mobile di Progetto Arca


La Cucina Mobile parte durante il primo lockdown, all’inizio della pandemia in Italia. Con la chiusura forzata dei ristoranti sono mancati i pasti in eccedenza che spesso i locali donano a chi vive in strada nei paraggi. Diversi volontari scoprirono che molte persone non mangiavano da giorni. In via emergenziale è partita la distribuzione a piedi che poi si è strutturata fino a diventare un servizio fisso a tutti gli effetti con un food truck vero e proprio che dona ogni sera 100-130 pasti caldi a chi ha bisogno, 720 totali a settimana. 

Una parte degli alimenti sono eccedenze provenienti dalla grande distribuzione. Questi prodotti, però, non sono sempre garantiti perché dipendono dalle vendite variabili dei supermercati, è per questo che il grosso lo fa la merce acquistata dall’associazione

Luca mi informa che il menu è ciclico e cambia ogni giorno: hamburger, melanzane alla parmigiana, lasagne di carne e vegetariane, si compie il massimo sforzo per rispettare i regimi alimentari e i divieti religiosi ma non sempre ci si riesce del tutto. Mi dice che una volta un ragazzo indiano, quando non aveva altro da mangiare, non ha rifiutato la carne bovina, che sarebbe vietata dall’induismo.

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Sono inclusi anche una bevanda e tè caldo (preparato in tempo reale alla Casa del Volontariato da Christian, un volontario), frutta fresca e altri prodotti. Sul camioncino c’è anche una macchinetta per la zuppa calda. All’inizio i piatti venivano preparati in un laboratorio dell’associazione, ora arrivano dalla cucina del birrificio Doppio Malto di viale Liguria, dove c’è una linea dedicata alla preparazione dei pasti da distribuire, che devono essere pronti entro le 18.30. Che ci siano dei piatti veri e propri a rotazione basati sull’equilibrio tra quantità e qualità per Luca è importante, sia per un’alimentazione diversificata, sia perché il cibo non deve solo sfamare ma trasmettere conforto attraverso il gusto. 

Un ritornello che mi verrà ripetuto durante l’intera serata è che “a Milano nessuno muore di fame”, anche chi non ha i soldi per comprare qualcosa. Il problema è dove dormire, soprattutto in inverno

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Alla Casa del Volontariato una parte degli alimenti sono eccedenze provenienti dalla grande distribuzione: pane, focacce, pizze, croissant confezionati. Luca dice che questi prodotti, però, non sono sempre garantiti perché dipendono dalle vendite variabili dei supermercati, è per questo che il grosso lo fa la merce acquistata dall’associazione.

Chiedo quindi se prendono in carico donazioni da privati. No perché verrebbe meno in primis la tracciabilità, uno dei fondamenti dell’HACCP, il sistema di norme che regolano l’igiene, sia della produzione alimentare industriale che della somministrazione, come bar, ristoranti, mense e food truck. 

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E allora le piccole botteghe e i negozi possono donare per la distribuzione? No, ma più per un problema logistico di ritiro. Domando se questo è un problema. Per niente, dice Luca, anzi, di cibo da donare ce n’è in abbondanza. Tutto ciò che è qui dentro tra un paio di giorni sarà donato, in magazzino c’è costante ricambio di merce ogni settimana. Un ritornello che mi verrà ripetuto durante l’intera serata è che “a Milano nessuno muore di fame”, anche chi non ha i soldi per comprare qualcosa. Il problema è dove dormire, soprattutto in inverno, quando il freddo penetrante della notte si mescola allo smog, che staziona ad altezza uomo. È anche per questo che Progetto Arca, in parallelo alla Cucina Mobile, ha un’unità che distribuisce sacchi a pelo e kit igienico-sanitari a chi vive per strada. Entrambi i servizi sono attivi tutto l’anno e si reggono con le raccolte fondi, campagne e donazioni di cittadini via sms solidali. E oltre a Milano la Cucina Mobile è già attiva a Varese e Torino e a breve lo sarà anche a Roma e Napoli. 

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Essendoci altre associazioni attive sul territorio, forse con un po’ di inconscia malizia, chiedo se possa esserci “concorrenza”. Luca fa No con la testa, il Comune di Milano coordina le attività delle diverse associazioni ripartendo le zone in giorni diversi, per coprire più aree in simultanea. E in più si evita di inondare le persone di cibo, che andrebbe sprecato.

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Luca mi dice che negli ultimi due anni sono aumentate le famiglie con figli che chiedono aiuti alimentari: lì alla Casa del Volontariato possono fare la spesa senza pagare e in totale anonimato perché non servono tessere. Aggiunge che non è suo compito indagare o fare domande, chi vuole racconta qualcosa spontaneamente. Con stoica pazienza ha instaurato un rapporto di mutua fiducia con i “clienti” abituali, come li chiama lui stesso, di cui conosce i gusti e sa cosa dare e a chi. E per la Cucina Mobile ha imposto delle regole: si danno tanti pasti quante sono le persone in fila, perché è successo che restasse a corto per averne consegnati in più a chi diceva di essere lì per la famiglia, o a gruppi di persone; la fila dev’essere ordinata e nel rispetto degli altri; se si consuma il pasto in loco non deve restare spazzatura in giro. dopo che le lamentele dei residenti di alcune zone hanno spinto la Polizia Locale a minacciare la fine dell’attività. Tutti sembrano rispettare le regole senza problemi.

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Il truck si apre con una porta basculante sul fianco e per far rispettare le distanze a decine di persone in fila è necessario che si fermi in uno spiazzo. Ogni sera la zona di distribuzione cambia ma è comunque fissa in base ai giorni della settimana. Oggi è mercoledì e siamo diretti dietro la stazione ferroviaria di Lambrate, dove c’è un posteggio abbastanza ampio e diverse persone sono già in attesa, tra cui non poche coppie di anziani.

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La situazione è tranquilla, ognuno aspetta il suo turno con pazienza nonostante il freddo. Secondo una stima del 2018 a Milano vivono in strada poco meno di 600 persone (a cui se ne aggiungono poco più di 2.000 ospiti in strutture di accoglienza notturna) ma il numero reale è sicuramente superiore. La maggior parte è straniera ma non mancano gli italiani. Oltre all’impoverimento i motivi per cui si finisce in strada sono innumerevoli: perdita del lavoro, una separazione, un incidente, malattie proprie o di parenti, dipendenza da alcol o droghe, una serie di colloqui andati male in un periodo di disoccupazione, la depressione.

Ma c’è anche chi sceglie volontariamente di vivere per strada perché stretto in un contesto sociale in cui non si rispecchia. Certo, è una minoranza, ma è qualcosa da tenere sempre da conto quando si affronta l’argomento: serve a sospendere ogni giudizio preliminare e soprattutto spegnere la brutta vena di pietismo che annacqua certi discorsi. Come mi dicono gli stessi operatori, ci vuole un approccio in equilibrio tra empatia e distacco, proprio come un medico, aperti all’ascolto e al dialogo ma senza farsi travolgere e condizionare — anche perché i racconti possono essere manipolati ad hoc.

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Ci sono diverse residenze per l’accoglienza sparse nella città dove i senza fissa dimora possono dormire. La stessa Progetto Arca ha ristrutturato una cascina vicino Baggio, nell’hinterland milanese, ricavando 7 mini-appartamenti tra monolocali e bilocali in cui accogliere i senza tetto con uno o più cani perché molte residenze non accettano animali. Stasera, nei pressi del furgone, ci sono due volontarie della onlus Save The Dogs and Other Animals, qui per distribuire pasti gratuiti per cani. 

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Nonostante il rischio di essere sgombrati dal Comune da un momento all’altro, —come sta capitando a molti senza fissa dimora negli ultimi mesi soprattutto nei sottopassi della stazione—, c’è chi sceglie di non dormire nei rifugi perché abituato a stare da solo e non vuole condividere spazi con nessuno. Uno di questi è Adrian (da qui in poi i nomi sono opportunamente cambiati), cittadino rumeno sulla sessantina. Mi racconta che prima della rivoluzione romena faceva un sacco di soldi, aveva 6 auto e 3 case, di cui però non può mostrarmi le foto perché ha il cellulare scarico, infila la mano in tasca ma non tira fuori nulla. Come sia finito per strada in Italia è un buco narrativo che resta tale solo per poco. Non sa tenere i soldi da parte, dice lui, fa lavori saltuari come manovale o agricoltore per una manciata di mesi e quando incassa lo stipendio ha l’impulso irrefrenabile di spendere tutto in cose che gli piacciono, soprattutto vestiti. O per guardare la Formula Uno a Monza: 500 euro alla cassa, più della metà della sua paga mensile. Lavora, guadagna e spende tutto.

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È per questo che si definisce, e riporto sue parole testuali, un “barbone di lusso”. Di lusso, non ricco. perché ricco è chi il lusso può mantenerlo e non solo concederselo ogni tanto. Adesso è rimasto di nuovo senza soldi e a marzo andrà a Roma per altri lavoretti precari. Gli chiedo se la sua famiglia sa della vita che conduce, suo figlio, ad esempio, che aveva citato poco prima. Il tono baldanzoso dell’epopea si spegne, così come lo sguardo sopra la mascherina, con la voce rimpicciolita e stridula e masticando qualche sillaba dice che, no, non gliel’ha mai detto. Gli dice bugie. Ora però deve scappare, ha un treno per la Svizzera che parte a momenti.

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Roberto mi attende per parlare con una coppetta di zuppa da cui si alzano spirali contorte di fumo. Dice che il Covid gli ha tagliato le gambe. Lavorava come magazziniere in una cooperativa a Segrate (MI), con il lockdown il lavoro è diminuito e l’hanno lasciato a casa all’improvviso senza cassa integrazione. Si arrangia con qualche lavoretto ma nel frattempo suo padre, gravemente malato e con cui viveva, muore e nella ripartizione dei beni paterni, non priva di scontri, mi dice che il fratello, che vive in Toscana, si porta via le chiavi dell’appartamento lasciandolo senza un tetto. La madre è ricoverata in una RSA e soffre di Alzheimer, non sa nulla. Gli chiedo se può fare qualcosa ma ogni principio di risposta si interrompe in un continuo “non lo so”.

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Dice che forse tramite un’associazione potrà avere un avvocato ma suona più come un pensiero a voce alta che come una possibilità concreta. La notte si appoggia a casa di amici ma non sempre li trova disponibili, quando deve dorme per strada. È preoccupato dal freddo di notte e per la sua incolumità, un giorno in un attimo distrazione qualcuno gli ha rubato lo zaino con tutto ciò che aveva. La zuppa sta smettendo di fumare e quindi lo lascio andare.

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Riesco a parlare solo con le poche persone che decidono di avvicinarsi, sia per questioni di tempo, sia perché non tutti sono vogliosi di raccontare qualcosa. Ero stato avvertito che durante le vacanze di Natale sono arrivate diverse testate giornalistiche per articoli simili e le fotocamere non sono gradite a tutti, soprattutto a chi vuole stare in disparte. Basta un movimento mal interpretato a innervosire qualcuno e innescare lamentele, anche solo alzando poco più del dovuto la camera nella direzione sbagliata per controllare gli scatti.

Daniel ha 33 anni ed è nato nella provincia di Novara e ha vissuto a Bologna e Torino. Il suo motto è “vivi e occupa” e ne ha fatto uno stile di vita. Occupa edifici abbandonati e ammette che i lavoretti da elettricista gli sono stati utili, senza nasconderne il vanto: si allaccia alla rete elettrica e accende la stufetta o cucina con una piastra. Piuttosto che lavorare in nero a 300 euro al mese mungendo vacche e facendo il latte tutta la settimana senza riposo, proclama con voce piena, non ha un alloggio e scrocca la corrente. Lo fa da 10 anni, la stessa età di suo figlio, che però non vive con lui. Ha conosciuto da poco una donna di quarant’anni che ha trovato un lavoro fisso e vorrebbero convivere. Forse a breve tornerà in Valle d’Aosta, dove la scorsa estate ha imparato a fare la fontina, ha un lavoro in ballo. Dice che vuole smettere di occupare e vorrebbe darsi una sistemata.

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La fila inizia a ridursi, sono quasi le 22. Con un forte accento campano che 12 anni di permanenza a Milano non hanno intaccato, Flavio, che a occhio avrà 50 anni, ribadisce la sua riconoscenza verso Progetto Arca. Perché il cibo è buono anche se contesta l’uso della besciamella nelle lasagne perché “ci vorrebbe la scamorza” e comunque la parmigiana di melanzane “non è male”, paragonandola occultamente a quella di casa.

Ha una fascia che gli avvolge polso e mano destra e si tocca continuamente l’addome quando parla di un’operazione recente alla pancia, per la riabilitazione è stato ospitato da Progetto Arca, che si è occupata anche di fargli somministrare la terza dose di vaccino anti-Covid. Che lavoro facesse e il perché ora viva per strada non saltano fuori, dice solo che viveva in una casa in condivisione, un posto letto in doppia. Mi parla di politici non specificati e male amministrazioni e ribadisce quanto abbia fatto per lui l’associazione. “È per questo che si pagano le tasse”, mi dice, “per aiutare chi soffre perché un giorno chiunque può cadere in disgrazia”. E se ne va perché la cena si fredda. 

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Ho un ultimo colloquio con una coppia di amici. Leonardo ha 50 anni ed è di Milano, Paolo ha accento medio-orientale ma mi perdo il paese d’origine, vive da trent’anni in Italia e il suo ultimo lavoro è stato 15 anni fa in un laboratorio di cinema. Ora ha 65 anni. Vuole che scriva che il sistema immigrazione in Italia è il peggiore d’Europa. Non può rifare nessun documento. Non è raro che essendo straniero venga fermato ma non avendo precedenti viene sempre rilasciato. Un giorno un poliziotto “un po’ razzista” gli strappa il permesso di soggiorno che, seppur scaduto, gli serviva per le identificazioni. Adesso rischia la notte in centrale anziché essere rilasciato sul posto.

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Leonardo interviene dicendo che almeno lui gioca in casa, da italiano è più facile rifare i documenti [ma su questo alzo le mani per lacune giuridiche, NdR] ma se sei straniero diventi invisibile in via permanente. I centri immigrazione hanno file interminabili e si viene rimandati indietro di 3 mesi in 3 mesi, il tempo passa, le pratiche vengono smarrite e diventa sempre più difficile ottenere un foglio. Non può richiedere nessuna pensione senza documenti, nonostante quando lavorava abbia versato i contributi. Ormai per Paolo i giochi sono fatti, come lui stesso dice. Come per Roberto prima, anche Leonardo indica nel Covid la causa della sua definitiva resa. Tanti piccoli lavori instabili, ha perso l’ultimo da un anno e mezzo, a 50 anni sei vecchio per il mercato del lavoro, dice con un tono che va un po’ oltre la sola rassegnazione e ammette di non avere nessuna specializzazione, minus su minus che non gli permetteranno di uscire da questa situazione. Dice che per strada c’è una “solidale indifferenza” tra chi vive per strada, lupi solitari o anche gruppi divisi sempre per nazionalità o lingue.

Ognuno bada a sé provando a non calpestare i piedi ad altri. Mentre Paolo dorme fuori dove può, Leonardo pernotta in una casa di parenti non specificati con cui non corre buon sangue e che è sicuro lo sbatteranno fuori a breve. Ha un percorso di chiese che batte ogni giorno per prendere qualcosa dalle elemosine. È destinato alla solitudine, continua, non ha moglie e figli e non percepirà pensione. “Ancora non sono come quelli molesti che si ubriacano tutto il giorno con alcol scadente”, dice, “ma so che ci finirò un giorno o un altro. Mi riserva questo il futuro, perché non ho futuro”. Non so cosa dirgli e la conversazione si dissolve con un saluto a entrambi. 

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Luca ha finito tutti i 100 pasti e ha chiuso il portello per andare in un’altra piazza a distribuire le sacche blu della Giornata Alimentare che contengono una colazione e il pranzo per il giorno dopo (crackers e scatolette di tonno), a cui si somma la cena di stasera, lì distribuita da un’altra associazione. Si coprono così i 3 principali pasti quotidiani. Le persone della zona però non sono inclini alle chiacchiere e le fotografie sono bandite a priori quindi non lo seguirò.

In un’ora fermo al freddo ho le gambe anchilosate e i calzini sono diventati sarcofagi artici. Penso a come affronteranno la notte queste e altre persone che sono spesso ombre ai lati del mio campo visivo.

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