A un primo sguardo gli Yo La Tengo possono sembrare difficilissimi da capire. È da più di trent’anni che suonano, periodo in cui hanno pubblicato 15 album, un quantitativo esagerato di singoli, compilation, collaborazioni, colonne sonore e così via. Inoltre, lo storico trio indie rock di Hoboken, New Jersey non è mai rimasto particolarmente fermo, creativamente parlando. Ma non è in realtà così difficile innamorarsi di ciò che gli Yo La Tengo fanno.
Gli Yo La Tengo vennero fondati nel 1984 da una coppia marito-e-moglie, Ira Kaplan e Georgia Hubley. Lui alla chitarra, lei alla batteria, entrambi alla voce. Il nome era una citazione di un giocatore di baseball, il venezuelano Elio Chacón dei New York Mets, che gridava “Yo la tengo!” per avvisare i suoi compagni che avrebbe preso al volo una palla. Suonarono il loro primo concerto al Maxwell’s, un piccolo locale di Hoboken dalla capienza di circa 200 persone. Era lì che Ira e Georgia si erano incontrati un paio d’anni prima. Quel bar sarebbe diventata la casa spirituale della band per tutta la sua esistenza fino alla sua chiusura, nel 2013.
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Sono sempre stati lodati dalla critica, gli Yo La Tengo, senza mai veramente muoversi dalla loro cittadina. Così facendo hanno ottenuto solo modesti successi commerciali, su cui hanno anche saputo scherzare con intelligenza, ma anche la reputazione di grandi e avventurosi veterani dell’indie rock statunitense. La chiave che gli ha aperto le porte del rispetto della comunità è stata la loro passione per la musica, e quindi la loro voglia di provare sempre cose nuove: tutti e tre i membri hanno lavorato per anni nella scena come giornalisti, graphic designer, commessi di negozi di dischi, editor di zine, DJ. La loro storia, dettagliata dal giornalista Jesse Jarnow nel suo libro Big Day Coming, li vede passare da un indie rock ballonzolante e pieno di fuzz a un folk rock appassionato di tradizione e cover, passando per un indie pop controllato e meditabondo e per una miriade di altri esperimenti.
Il loro ultimo album, There’s a Riot Going On, è uscito venerdì 16 marzo per Matador. È un’opera ai limiti della musica d’ambiente, una quieta reazione al disagio del mondo in cui ci siamo ritrovati a vivere da cui trapela una curiosità creativa di tutto rispetto per una band che opera da più di tre decenni. Gli Yo La Tengo hanno resistito a tutti i cambiamenti che l’industria musicale ha subito, dai tempi in cui i R.E.M. diventarono superstar rendendo l’indie rock un genere commercialmente appetibile, passando per l’era degli MP3 e arrivando ora a quella dello streaming. Ma sono ancora qua: sempre gli stessi, sempre un po’ diversi.
Gli Yo La Tengo suoneranno in Italia il prossimo 15 maggio al Fabrique di Milano. L’evento è organizzato da DNA Concerti e i biglietti per il concerto sono già in vendita.
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Si può benissimo cominciare ad ascoltare gli Yo La Tengo tuffandosi nel mezzo della loro carriera e poi cominciare a esplorarla andando verso il passato o il futuro, a cominciare dai loro due grandi classici: I Can Hear The Heart Beating As One (1997) e And Then Nothing Turned Itself Inside-Out (2000). Quei due album dimostrano quello che gli Yo La Tengo erano all’apice del loro potenziale creativo ma è affascinante provare ad ascoltare, prima di ogni altra cosa, gli Yo La Tengo più semplici: quelli che nascondono canzoni pop travestendole da pezzi rock.
Indipendentemente da tutto quello che è successo alla band negli ultimi trent’anni, c’è una linea che collega il pezzo con cui si apre il loro debutto Ride The Tiger, “The Cone of Silence”, a “For You Too”, spazioso singolo tratto dal loro ultimo album. Oggi Kaplan è cresciuto molto come cantautore ed è molto più consapevole delle sue capacità alla chitarra, ma entrambi i brani combinano melodie memorabili con riff intricati, quasi strimpellati.
La maggior parte delle migliori canzoni degli Yo La Tengo si basa su questa combinazione, dalla burrasca simil-shoegaze di “From a Motel 6” all’accessibilità di “Tom Courtenay”, fino all’avvolgente e melodiosa distorsione di “Sugarcube”.
Playlist: “Ohm” / “From A Motel 6” / “The Cone of Silence” / “Tom Courtenay” / “Upside-Down” / “Sugarcube” / “Double Dare” / “Barnaby, Hardly Working” / “Drug Test” / “Madeline” / “Little Eyes” / “The Summer” / “Nothing To Hide” / “Well You Better” / “For You Too”
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Gli Yo La Tengo rivelano il loro lato più affascinante quando abbassano il volume degli amplificatori e lasciano che le loro canzoni si svuotino di tutto ciò che è superfluo. Se ne accorsero la prima volta nel 1990, anno d’uscita di Fakebook, un album che aggiungeva una patina folk al loro indie rock sconclusionato – sia in brani originali come “Did I Tell You” che in una serie di tenere cover dei Kinks, di Cat Stevens, degli NRBQ e di altri ancora.
L’opera in cui questa prima fase degli Yo La Tengo raggiunge la sua fioritura fu Painful, un album che sperimentò le suggestioni di Fakebook e le migliorò drasticamente. “Big Day Coming”, una delle canzoni più iconiche del gruppo, cominciava con una dichiarazione d’intenti a tutti gli effetti: su una melodia di tastiera mandata in loop, Kaplan cantava “Non prendiamo decisioni, prendiamoci il nostro tempo”. Erano ben felici di distorcersi le chitarre, fare casino e spaccare timpani a forza di feedback, gli Yo La Tengo, ma avevano scoperto che erano altrettanto felici di scrivere pezzi minimali e pazienti.
L’album degli Yo La Tengo che meglio esplora questo concetto di quiete è And Then Nothing Turned Itself Inside-Out, uscito nel 2000: in playlist troverete quel tenero sussurro d’amore in potenza che è “Our Way to Fall”, quel malinconico omaggio a Thomas Pynchon che è “The Crying of Lot G”, e l’epica “Night Falls on Hoboken” in tutti e 18 i suoi minuti. Anche il suo malinconico successore Summer Sun, uscito nel 2003, a momenti chiede all’ascoltatore di fermarsi ad ascoltare i sussurri che contiene: nelle confuse chitarre di “Today Is The Day”, per esempio, o nel cogitabondo pop di “Season of the Shark”.
Playlist: “Big Day Coming” / “Our Way To Fall” / “I’ll Be Around” / “Nowhere Near” / “Did I Tell You” / “Season of the Shark” / “Let’s Save Tony Orlando’s House” / “Don’t Say A Word (Hot Chicken #2)” / “Saturday” / “Today Is The Day” / “The Crying of Lot G” / “Damage” / “Shades of Blue” / “Green Arrow” / “Night Falls On Hoboken”
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Una costante, nell’opera degli Yo La Tengo, è la loro capacità di prendere una canzone e dilatarla fino a renderla un muro di feedback, rumore e schitarrate varie. Così facendo creano lunghe jam che spesso usano come snodi centrali dei loro album, drammatici brani epici che raggiungono climax per cui è facile immaginare Kaplan emotivamente e fisicamente demolito, accasciato sulla sua Fender Jazzmaster. Mentre un lato della band trova bellezza nella quiete, nella pazienza e nella sottigliezza, l’altro trova forza nel fascino delle esplosioni di rumore, tanto disorientanti quanto incantevoli.
Mentre la “Big Day Coming” che apre Painful è un brano contenuto, costruito su lunghi loop di tastiera, la sua seconda versione – che precede “I Heard You Looking”, anch’essa inclusa in questa playlist – è una jam distorta e cacofonica. E contiene un’altra dichiarazione di intenti: “Alziamo gli amplificatori, come facevamo una volta, senza un piano”. Gli Yo La Tengo hanno spesso ripensato, rilavorato e ripubblicato loro materiale in chiavi diverse, anche all’interno dello stesso album: esistono diverse versioni sia di “Barnaby, Hardly Working” che di “The Ballad of Red Buckets”, per esempio.
Un’altro esempio è “The Story of Yo La Tango” (il cui titolo, sbagliato apposta, è una strizzata d’occhio ai primi momenti della loro carriera, in cui il loro nome veniva spesso mal pronunciato e scritto). Scelta spesso per chiudere i concerti della band, è un brano che si espande per circa 12 minuti, lungo il cui corso assoli di chitarra emergono dal muro di fuzz che sovrasta la voce di Kaplan. È un esempio di quanto gli Yo La Tengo siano predisposti a scrivere drammatici crescendo e partiture catartiche. “We’re An American Band”, tratta da I Can Hear The Heart Beating As One, è un omaggio ai Grand Funk Railroad solo nel nome: in realtà è una masterclass sul concetto di tensione, e su come portarla a una conclusione brutalmente spettacolare.
Playlist: “Pass The Hatchet, I Think I’m Goodkind” / “Deeper Into Movies” / “Mushroom Cloud of Hiss” / “The Story of Jazz” / “Cherry Chapstick” / “The Story of Yo La Tango” / “I Heard You Looking” / “We’re An American Band” / “Big Day Coming [Second Version]” / “Blue Line Swinger”
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Prima di essere musicisti, gli Yo La Tengo sono super ascoltatori. Per evitare che il pozzo dell’ispirazione si seccasse, hanno sempre esplorato zone sconosciute alla rock band media. I migliori esempi dei risultati di questa attenzione si vedono nel loro album più famoso, I Can Hear The Heart Beating As One. “Moby Octopad”, che prende il nome da una drum machine di Moby, con cui la band suonò al festival Lollapalooza nel 1995, ha una linea di basso acrobatica che sembra venire da una versione futuristica del post-punk. “Center of Gravity” è un brano colorato da una sinuosa bossa nova. Il loro celebre singolo “Autumn Sweater” è una lunga spinta propulsiva basata su un uso sperimentale delle percussioni, e “Stockholm Syndrome” ha una linea vocale alla Neil Young tirata fuori dal bassista James McNew.
I Am Not Afraid Of You And I Will Beat Your Ass, oltre ad avere uno dei titoli migliori della loro carriera, è uno dei loro album più eclettici. “Mr. Tough”, brano soul pieno di fiati e voci in falsetto, è solo a qualche brano di distanza dall’irruente garage rock di “Watch Out For Me, Ronnie”. E poi c’è il groove psichedelico che accenta la voce di Georgia su “The Room Got Heavy”, uno dei brani più strambi mai pubblicati dalla band.
È però già dai primi momenti che questo tipo di sperimentazione fa capolino tra le tracklist degli album della band. Ride The Tiger conteneva per esempio un pezzo puramente country, “The River Of Water”. Electr-o-pura, pubblicato nel 1995, contiene “Attack Of Love”, un assalto sonoro che sembra suggerire i concerti hardcore che Ira e Georgia andavano a vedere a Boston quando erano ragazzi.
Playlist: “You Are Here” / “Autumn Sweater” / “Mr. Tough” / “Here To Fall” / “Moby Octopad” / “Watch Out For Me Ronnie” / “Can’t Forget” / “Center of Gravity” / “The River of Water” / “Attack On Love” / “Periodically Double or Triple” / “Stockholm Syndrome” / “The Room Got Heavy”
Forse ti interessano: gli Yo La Tengo che fanno le cover?
La prima volta che Ira e Georgia si esibirono assieme fu nel 1982. Si chiamavano Georgia and Some Guys ed eseguirono una selezione di cover, tratta da un canzoniere di oltre cento brani. Tra gli artisti che scelsero c’erano i Velvet Underground, i Kiss, Buddy Holly, i Beach Boys e molti altri. Per quel gruppo, che si sarebbe poi chiamato A Worrying Thing e poi Yo La Tengo, suonare brani scritti da altri era una parte integrale del proprio DNA. Alcuni sono diventati loro classici a tutti gli effetti, come “You Can Have It All” di Harry Wayne Casey, uno dei momenti migliori di And Then Nothing Turned Itself Inside-Out). Un’altra interpretazione fondamentale della Hubley è “My Heart’s Not In It” di Darlene McCrea, pubblicata su Stuff Like That There (2015). Le cover di questa playlist potrebbero essere tranquillamente inserite all’interno delle altre quattro che abbiamo proposto qua sopra, ma ognuna di esse è in realtà in perfetta sintonia con qualsiasi capriccio creativo gli Yo La Tengo stessero avendo nel momento della sua esecuzione.
Kaplan e la Hubley non hanno mai smesso di rendere “loro” le loro canzoni preferite. Le loro setlist sono ancora piene di brani non originali, soprattutto i loro iconici concerti di Hanukkah, e la cosa ha senso: le loro cover riflettono l’etica della band e non sono solo un segno di riverenza nei confronti dei loro predecessori. Sono vent’anni, per esempio, che la band fa un concerto, organizzato dalla stazione radio WFMU, in cui suona solo cover a richiesta per raccogliere fondi da devolvere in beneficienza. Per un’offerta di cento dollari, gli Yo La Tengo suonano ogni anno qualsiasi brano il donatore voglia ascoltare. Il concerto di quest’anno li ha visti mettere mano a brani di Nico, degli Stooges, dei Devo e di molti altri ancora. Se volete ascoltare altre loro cover datevi ai Condo Fucks, il loro alter ego tutto-cover, autori di un LP nel 2009: Fuckbook.
Playlist: “You Can Have It All” [Harry Wayne Casey cover] / “Roadrunner” [The Modern Lovers cover] / “Let’s Compromise” [Information cover] / “Griselda” [The Holy Modal Rounders cover] / “Dreams” [Fleetwood Mac cover] / “Little Honda” [The Beach Boys cover] / “Friday I’m In Love” [The Cure cover] / “Speeding Motorcycle” [Daniel Johnston cover] / “What Can I Say” [NRBQ cover] / “My Heart’s Not In It” [Darlene McCrea cover] / “Oklahoma U.S.A” [The Kinks cover] / “I Threw It All Away” [Bob Dylan cover] / “Here Comes My Baby” [Cat Stevens cover] / “Nuclear War – Version 2” [Sun Ra cover]
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Abbiamo anche altre guide per cominciare ad ascoltare cose, qua sotto ce n’è una: