Yuri Ancarani fa film impossibili da classificare

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Yuri Ancarani fa film impossibili da classificare

"Mi dicevano che avrei dovuto decidere da che parte stare, che formato fare… ed eccoci qui invece, ogni tanto mi mettono tra gli artisti, altre volte tra i documentaristi o tra i registi e siamo ancora lì."

Yuri Ancarani è probabilmente uno degli artisti italiani più interessanti sulla scena contemporanea. Nato nel 1972, con i suoi primi lavori girati tra Ravenna e Rimini ha registrato come pochi altri i cambiamenti sociali e territoriali della Romagna, della sua "zona rossa" degli anni Duemila, con la stessa abilità con la quale una generazione prima Pier Vittorio Tondelli raccontava a parole quegli stessi luoghi.

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Dai primi film ha poi costruito vere e proprie installazioni video, passando dalle gallerie d'arte e i musei che ospitano i suoi lavori alle partecipazioni ai festival di mezzo mondo. Tra questi c'èLocarno, dove l'anno scorso con The Challenge ha vinto il primo premio della giuria, inaugurando un nuovo capitolo—"un battesimo," come lo definisce l'artista stesso—nel mondo dei lungometraggi.

The Challenge è ambientato nel Qatar, dove Ancarani ha puntato l'occhio della sua telecamera su una tribù di giovani emiri con molto tempo libero e ancora più soldi da spendere. Ciascuna delle sue inquadrature racconta gli emblemi della ricchezza: le motociclette d'oro, gli arredamenti imperiali e i falchi addomesticati—o quella che meglio di tutte riassume l'intera esperienza: un uomo alla guida della sua Lamborghini insieme a un ghepardo. Nel film non ci sono praticamente dialoghi, ma la dimensione sonora e acustica è curatissima e si arricchisce della colonna sonora di Lorenzo Senni e Francesco Fantini.

Attorno al suo lavoro si è raccolta un'attenzione che ci dice molto anche di quanto il pubblico sia cambiato fuori e dentro i musei e le sale cinematografiche. Al momento Ancarani si trova in America, per seguire The Challenge in una vera e propria tournée—cosa non così scontata quando si parla di film italiani, soprattutto di fronte a nomi come South by Southwest, True/False Film Fest e New Directors/New Films—e realizzare il suo prossimo lavoro, il cui titolo e contenuto sarà svelato nei prossimi mesi. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata via Skype, cercando di capire cosa pensa del cinema uno dei registi migliori della sua generazione.

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Il trailer di The Challenge.

VICE: Partiamo dal presente: attualmente sei negli Stati Uniti per il tour. È rara una simile attenzione per un film italiano, no? Secondo te a cosa è dovuto l'interesse per il tuo lavoro?
Yuri Ancarani: In generale credo che noi italiani siamo dei disadattati, non riusciamo a connetterci nella grande rete mondiale… quindi siamo sempre messi un po' ai margini, alle periferie, no?

Però poi succede anche che siamo degli innovatori, proprio perché seguiamo delle logiche completamente diverse da quelle di autori anglosassoni che pensano a confezionare un lavoro stabile che porti anche benessere. Probabilmente a noi del benessere non importa poi così tanto perché l'abbiamo attorno a noi, quindi non ce ne frega un cazzo se guadagniamo dei soldi oppure no con il nostro lavoro. Prima di tutto dev'essere un progetto al quale crediamo e dev'esserci una carica innovativa importante. In sintesi, siamo dei ricercatori.

È per questo che diventa difficile classificare il lavoro degli autori italiani? È quanto è successo anche a te con The Challenge?
In parte sì, perché è un film che non riesci a capire cosa sia. Ovviamente ti devono inserire in categorie come il documentario o il cinema di fiction e via dicendo, ma The Challenge è un insieme di tutto, dove possono coesistere il videoclip, la videoarte degli anni Ottanta: ci abbiamo messo tutto ciò che è stata l'immagine in movimento fino ad oggi per trasformarla in un unico prodotto.

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Fammi un esempio.
Del film mainstream c'è l'epicità, poi però in ogni singola inquadratura si ritrova la simbologia e il linguaggio della videoarte che potenzialmente si sostiene su un'immagine attorno a cui ruota tutto il lavoro; visto che è un film composto da inquadrature, contiene in ogni scena un suo significato autonomo. Del videoclip c'è invece l'attenzione maniacale per la dimensione sonora e acustica.

È nato come un esperimento per me, però ho visto che funziona: le persone rimangono a vedere l'intero film, connesse a queste immagini. Ti faccio un esempio: se fossi un videoartista "puro", se mi fossi trovato davanti all'immagine della scena della Lamborghini con il ghepardo avrei subito concluso il mio lavoro: perché ho davanti l'animale in assoluto più veloce in natura dentro a un'automobile come quella. Come spettatore ti apre un mondo, un sacco di chiavi di lettura, e probabilmente il mio scopo lo avrei raggiunto. E invece no, quella è soltanto una delle inquadrature che compone una lunghissima serie di altre scene. È un bombardamento forse, ma oggi siamo abituati così, a essere assediati dalle immagini.

Il trailer di Piattaforma Luna.

La proiezione di pochi mesi fa di The Challenge in una sala di Milano ha registrato il tutto esaurito, una cosa che non è frequente per un film di questo tipo. Come ti regoli sulla distribuzione?

La cosa che mi diverte molto è sentirmi dire che il film non è distribuibile, nonostante la fruizione sia facile per tutti. Mi diverte sentire molti registi che si lamentano del fatto che "non è più come una volta," che è difficile vedere distribuito il proprio film. A me invece questa cosa che un tuo film non sia distribuibile fa ridere. Partendo proprio dall'esempio del cinema Arcobaleno [sede della proiezione milanese di The Challenge] che è un multisala: sono stato proprio io a chiedere fortemente che la proiezione non avvenisse in un cinema d'essai—non perché non mi piacciono, anzi mi danno la possibilità di vedere film che altrimenti non conoscerei, però mantengono una carica di nostalgia che non fa parte del tipo di lavoro che faccio io.

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Il mio lavoro è fatto per il presente, e oggi il tempio del cinema è il multisala dove magari c'è annesso anche il bowling e ti danno un bello scatolone di popcorn. L'alternativa per me è l'estremo opposto: la galleria d'arte. Se devo proiettare in un contesto artistico deve essere una galleria o un museo, se dev'essere un contesto cinematografico il mondo del cinema è per me quello dell'industria.

Accennavi a colleghi nostalgici delle passate formule distributive, come si può far circolare allora un lavoro così particolare?
Se il film non è distribuibile non vuol dire che dobbiamo piangerci addosso ricordando che un tempo le persone frequentavano di più le sale e quindi bisogna forzarle per farcele ritornare. Significa trovare nuove soluzioni. Il modo di fruire il film oggi è completamente diverso, è come un evento: uno si deve spostare per vedere un concerto o una performance, allora si deve spostare anche per vedere un film fatto in un certo modo. Non è tanto diverso da una tournée o da uno spettacolo teatrale itinerante.

Quali sono gli elementi che rendono in generale i tuoi film così godibili da tutti?
Sono film che possono essere chiamati sperimentali ma allo stesso tempo sono comprensibili da tutti. Quando ci lavoro tengo molto a questo aspetto: il film deve essere compreso grazie alle immagini, sono loro che fanno capire il film, non c'è una voce che ti spiega.

Il trailer di San Siro.

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L'altro giorno su WhatsApp quando ci accordavamo per la nostra chiacchierata ti sei geotaggato al confine tra Stati Uniti e Messico… che ci fai lì?
Sto lavorando a un progetto che inizia proprio dal centro America, dove sono ora. Mi sono trovato a conoscere questa zona degli Stati Uniti della quale abbiamo sentito tutti parlare e visto un po' nei film ma che di fatto non conosciamo davvero.

Questo lavoro è il frutto dell'osservazione di alcuni luoghi per così dire tipici e dell'esilissimo confine rappresentato dal Rio Grande, che se lo vedi sembra proprio un fiumiciattolo.

A proposito di territorio, tu hai realizzato i lavori più interessanti su questo tema focalizzandoti sull'Italia dei primi anni Duemila, partendo dalla Romagna; stai estendendo la stessa indagine al resto del mondo?
In verità, se potessi rimarrei sempre nella zona rossa. Non ho mai avuto la passione di girare il mondo, m'interessava particolarmente raccontare il mio paese. Poi una serie di eventi inaspettati mi hanno portato a spostarmi così tanto velocemente che sono stato costretto a lavorare con la testa fuori dall'Italia, e quindi sono nati diversi progetti all'estero.

Conto di fare il mio prossimo film in Italia, anche se sono molto colpito dagli Stati Uniti—ma se devo essere sincero, al momento ho una certa nostalgia per l'Italia. A tutti quelli "incazzati" consiglio di spostarsi per un certo periodo all'estero per poi ritornare molto felici in Italia.

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Parlando di un altro autore italiano: a Locarno l'anno scorso sei stato premiato da Dario Argento, in quello che tu mi dicevi considerare un battesimo nel mondo del lungometraggio. Se penso però al suo cinema e al tuo lavoro mi viene difficile trovare rimandi immediati. 
In realtà come dicevo prima il mio lavoro è una sintesi di svariati linguaggi e formati, perciò all'interno sì, ci sono anche i generi come lo sci-fi e l'horror. Anzi, a dirla tutta i miei film sono quasi tutti dei film horror!

Il trailer de Il Capo.

In che senso?
Sono dei film spaventosi da un certo punto di vista… che poi grazie all'estetica vengono ammorbiditi, smussati con elementi che utilizzo per farteli apparire incredibilmente belli, ma sono realtà orrorifiche. Se penso a Il Capo (2010) ad esempio, comunica un grande senso di armonia ma in realtà il protagonista sta tirando giù una montagna che scende di otto metri all'anno. Il Capo non si ferma.

In Piattaforma Luna (2011) ci sono i diver che vivono per un mese in una camera iperbarica e non possono uscire. Ci mettono sei giorni prima tornare tra gli umani, altrimenti andrebbero in embolia, significa che se avessero un problema famigliare ci metterebbero sei giorni a uscire da là. E tutto questo per fare un lavoro estremamente semplice e umile che è quello della manutenzione. È un film claustrofobico, che a me fa paura. Anche Da Vinci è piuttosto horror: parla di un robot che si anima e prende il sopravvento nei confronti dell'uomo lacerandolo dall'interno…

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E The Challenge?
The Challenge è un film apparentemente molto divertente, quando in realtà per un'ora e dieci vedi uomini che non fanno un cazzo. Certamente quando finisci di vederlo ti senti addosso questa grande carica di energia data dalle immagini e questo enorme potenziale che esprimono, ma è la forza del nulla, perché tutte queste energie sono servite per fare niente. Quindi è anche incredibilmente triste. Ovviamente a differenza di Dario Argento io lavoro con un altro formato e lui ha iniziato in un altro contesto storico, con altri linguaggi: oggi le immagini vanno manipolate in un altro modo.

Il trailer di Séance.

Quando ho pensato a te e Argento insieme credevo che un punto di contatto potesse essere Séance.
Ecco sì, diciamo che lì c'è qualcosa dell'atmosfera. Ma più in generale mi piace rappresentare l'invisibile. In Séance bisognava di fatto rappresentare qualcosa che non c'era, un'entità, come in San Siro, il film sullo stadio: lì senti la percezione di un'entità, ma di cosa si tratta esattamente? Cos'è questa entità, questa energia che trasmette l'edificio che porta le persone ad andare là? Non è tanto la squadra di calcio, ma è proprio l'energia contenuta in quell'edificio. Tutto questo è invisibile, e rappresentarlo è molto complesso.

Sempre in questi giorni sei nel palinsesto di Cinéma du Réel, con The Challenge ma anche con il mediometraggio Whipping Zombie: che lavoro è quello?
Whipping Zombie è stato girato nello stesso periodo in cui ho girato The Challenge, in qualche modo c'è una connessione temporale, anche faticosissima perché Haiti e Qatar sono due punti molto distanti e diversi del mondo e ci sono delle coincidenze: sono due paesi molto piccoli, all'interno di due paralleli; uno è il paese più ricco del mondo e l'altro è uno dei più poveri.

Anche Whipping Zombie è un film sulla fatica e sull'invisibile. Trasmette una forza pazzesca per le pratiche e i rituali che ho filmato, anche se è un film molto violento, dove il corpo viene portato a un livello diverso della percezione.

Per concludere, la colonna sonora di The Challenge è curata da Lorenzo Senni e Francesco Fantini, e rende il film qualcosa di unico. So che sei anche un collezionista di musica, vero?
Non ho tantissimi dischi, ma diciamo che sono piuttosto selezionati: circa duemila di musica elettronica dagli anni Ottanta al 2010. Ho una consistente collezione di musica elettronica, per molto è stata divisa per etichetta, generi o annate. A proposito dei dischi di Lorenzo, ricordo che quando avevo in mano i suoi primi mi dicevo "E ora questo dove lo metto? dove deve stare? In che punto?"

Quando sei incerto da questo punto di vista, su come catalogare qualcosa, non ci sono dubbi: vuol dire che Lorenzo sta facendo qualcosa di nuovo. La stessa cosa la vedo nel mio cinema, perché per anni mi hanno rotto i coglioni dicendomi che avrei dovuto prendere delle decisioni, da che parte stare, che formato fare… ed eccoci qui invece, ogni tanto mi mettono tra gli artisti, altre volte tra i documentaristi o tra i registi e siamo ancora lì; ad oggi non sanno dove collocare il mio 'dvd'.

In generale non dobbiamo sottometterci agli standard; penso che non sia l'opera a doversi adattare al contesto, ma il contesto a doversi adattare all'opera.

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