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Lo strano caso dell'italiano dietro al padiglione del Kenya alla Biennale di Venezia

Perché alla Biennale il Kenya sarà rappresentato principalmente da artisti cinesi, e chi è l'italiano che per la terza volta va a Venezia a presentare le sue opere per conto del Paese africano?

Shame in Venice II, dell'artista keniota Michael Soi. Per gentile concessione di Michael Soi.

Il prossimo 9 maggio prenderà il via la 56esima edizione della Biennale di Venezia, la prima e più importante biennale di arti visive del mondo. L'edizione di quest'anno, All the World's Futures, è curata dal critico d'arte nigeriano Okwui Enwezor e metterà insieme 136 artisti da 53 diversi paesi del mondo.

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In aggiunta agli artisti che esporranno negli spazi storici della Biennale, ci saranno le varie partecipazioni nazionali. La Biennale insomma è sempre più un evento globale, che al di là del suo mandato originale, ovvero quello di 'mappare' lo stato dell'arte ogni due anni, si sta configurando come un evento collettivo-mediatico con un sentore apparente di political correctness, includendo stati anche piccolissimi e artisticamente irrilevanti (nel 2013, ad esempio, il Vaticano). Una sorta di Jeux Sans Frontières, ma senza un vero criterio di selezione critico, meritocratico e requisiti accademici minimi.

Il caso più emblematico e surreale quest'anno è probabilmente quello del padiglione keniota: se le cose andranno esattamente come annunciate nelle comunicazioni ufficiali, sembra che il Kenya abbia svenduto la sua scena artistica alla Cina con la complicità dell'Italia. Dopo la pubblicazione della lista di nomi scopriamo infatti che quest'anno il padiglione del Kenya vedrà soltanto un'artista keniota, Yvonne Brandle-Amolo, mentre gli altri saranno artisti cinesi più l'italiano Armando Tanzini, un personaggio noto per svariati motivi ma non propriamente per i suoi meriti artistici e che tra l'altro rappresenterà per la terza volta il paese africano.

Art by Armando Tanzini who nicked — SkepticAfro (@skepticafro)18 Marzo 2015

Già nel 2013 il Kenya presentò alla Biennale soltanto due artisti kenioti e tra gli stranieri, oltre a Tanzini, ci fu l'italo-brasiliano Cesar Meneghetti più altri otto artisti cinesi. In quell'occasione dallo stato africano si levarono diverse voci denunciando l'inammissibile sabotaggio del padiglione da parte di "ciarlatani", impedendo così di rappresentare degnamente il Kenya. Analisti culturali come Joyce Nyairo e il poeta, blogger e performer Njeri Wangari chiesero spiegazioni alle autorità (senza ottenerne), lamentando lo spreco di un simile palcoscenico internazionale.

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A distanza di due anni nulla sembra essere cambiato, e anzi il numero di artisti del Kenya è addirittura diminuito. Così, oltre alla petizione su internet—intitolata "Renounce Kenya's fraudulent representation of the 56 Venice Biennal 2015 & commit to support the realisation of a national pavilion in 2017"—personalità centrali della cultura keniota come lo scrittore e giornalista Binyavanga Wainaina e l'artista Phoebe Boswell hanno iniziato a twittare e chiedere spiegazioni: com'è possibile che venga chiamata a rappresentare il Paese una persona con una produzione artistica irrilevante rispetto al corrente dibattito keniota, completamente disconnessa dalla sua scena artistica e culturale? Recentemente, anche il critico americano Roger Denson ha domandato via twitter al direttore Okwui Enwezor di fare luce sulla vicenda.

History repeats itself — Yvette Greslé (@yvettegresle)19 Marzo 2015

A questo punto è necessario precisare che non solo quello del Kenya è un padiglione 'cavallo di Troia' per presentare artisti di altri nazionalità: è lo stesso ente Biennale a sottolineare in una nota ufficiale del marzo scorso la gestione del tutto autonoma dei padiglioni nazionali che hanno formalmente richiesto di partecipare tramite autorità governativa e diplomatica: "Il rapporto con i paesi si svolge secondo modalità rispettose del fatto che si tratta di autorità rappresentanti stati sovrani. Per quanto riguarda tutti gli aspetti organizzativi della partecipazione la Biennale non interferisce in alcun modo lasciando piena autonomia, per consuetudine consolidata, al paese partecipante."

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Eppure, molti dei padiglioni esteri sono curati da critici italiani e altre personalità, che in totale libertà interpretano a piacimento l'identità del paese che li ha designati. Ma come avvengono tali nomine? E perché, nel caso del Kenya, ci sono praticamente solo artisti cinesi? Chi è Armando Tanzini?

Armando Tanzini è un personaggio piuttosto interessante da meritare un approfondimento: ha 70 anni ed è livornese, imprenditore edile e costruttore dei più lussuosi compound di Malindi, dove da circa 45 anni risiede. Tanzini fa parte di quel mondo di italiani sedotti dal paradiso keniota come l'amico Flavio Briatore (a cui arredò la casa), ex-politici come Giovanna Melandri, Luigi Colajanni, Claudio Martelli, figure come Chicco Testa, Giovanni Minoli e Ilaria d'Amico. Le espressioni entusiastiche su Armando Tanzini provengono da amici, vip e settimanali come Panorama che per lui si sperticano in definizioni che vanno da: genio, poeta, architetto, filantropo, "imprenditore e filosofo", latin lover, "cacciatore pentito" e ovviamente, artista. C'è addirittura una canzone su YouTube (di autore ignoto) dedicata a Tanzini che tratteggia tutto l'allure del personaggio.

Tuttavia cercando informazioni sul suo curriculum artistico troviamo davvero poco. Oltre a vantare frequentazioni con Andy Warhol (chi non ha incontrato Andy Warhol in vita?), le partecipazioni alle Biennali di Venezia dal 2003—sempre nel padiglione del Kenya—e opere apparentemente collezionate tanto dal presidente keniota quanto dai nuovi ricchi cinesi che risiedono nel Paese, le prime notizie sui quotidiani che riguardano Tanzini risalgono al 1990 come amico di Edoardo Agnelli, arrestato a Malindi per il presunto possesso di 300 grammi di eroina. Al tempo Tanzini si operò per la sua scarcerazione, trovando al primogenito dell'avvocato Agnelli un legale e rassicurando i media internazionali della sua estraneità alla vicenda.

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Basta quindi una lontana frequentazione con Warhol, essere un proprietario terriero, aprire un bar-resort colonial-britannico (White Elephant Art & Sea Resort), e inondare Malindi e il Kenya delle proprie sculture elafantiache per diventare ambasciatore dell'arte di un paese africano? Evidentemente sì. Ed è proprio questo il nodo problematico che ha scatenato sui social network il dibattito riguardo l'intera faccenda: da quali curatori, critici e da quale organo sono stati valutati i curriculum artistici dei partecipanti al padiglione del Kenya e degli altri padiglioni nazionali?

Come evidenziato da questa nota del 14 aprile, il Ministero dello sport, arte e cultura del Kenya si dissocia dall'occupazione indebita del padiglione e sottolinea il millantato credito esercitato da Armando Tanzini come rappresentate della repubblica keniota.

Se già nel 2013 il fiasco del padiglione keniota rappresentò motivo d'imbarazzo, dunque, quest'anno sarà ancor più incredibile vederne il remake, considerando peraltro il ruolo del curatore dell'intera manifestazione Okwui Enwezor, il primo direttore africano nella storia della Biennale di Venezia.

Enwezor, oltre a essere un uomo molto elegante, è anche un importante accademico, storico d'arte e direttore dell'Haus der Kunst di Monaco. La sua carriera, soprattutto dopo la direzione nel 2002 della 11esima edizione di Documenta (la più importante mostra d'arte contemporanea al mondo che si svolge ogni cinque anni a Kassel, Germania), lo pone come una delle figure più centrali nella rilettura delle arti contemporanee in un ottica postcoloniale. In sostanza: quali titoli, quali primati culturali abbiamo noi occidentali per guardare, valutare e riflettere sull'arte prodotta da popolazioni non-occidentali?

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Attorno a questo ponderoso interrogativo Enwezor ha impostato la sua carriera intellettuale, e sui temi del postcolonialismo nelle mostre e nelle università si è discusso a tutti i livelli negli ultimi 15 anni. Certo Enwezor non è responsabile delle singole scelte compiute all'interno dei padiglioni nazionali, ma ha partecipato attivamente al comitato che ha lavorato per le rappresentanze africane. Tenendo presente l'enorme lavoro curatoriale svolto da Enwezor per organizzare l'impianto culturale della sua Biennale, resta incredibile questa svista, e la rinnovata presenza di Tanzini, e della sua retorica de "l'uomo che ha inventato Malindi" proprio in uno dei padiglioni che rappresenteranno il continente africano.

Sì, perché non soltanto quello del Kenya; anche altri padiglioni africani rivelano gioghi coloniali ancora attivissimi su molteplici livelli: è il format mercantile che offre padiglioni a chi può permetterseli, eterodiretti per lo più da italiani senza nessuna carriera curatoriale alle spalle (è il caso di Maria Paola Poponi, una delle curatrici ufficiali del padiglione keniota, nonché editrice dei vari cataloghi dei padiglioni nazionali) che assicurano il bollino Biennale e con artisti senza nessuna reale attinenza con quel paese e con quella cultura (come il caso di Romina Power per il padiglione del Costa Rica, poi fortunatamente ritirato).

La piattaforma veneziana è davvero così interessante per l'Africa o lo è di più per politici, faccendieri del posto e investitori che vi intravedono una possibilità di profitto e di legittimazione culturale, bypassando tutti i requisiti espositivi e concettuali che dovrebbe avere una mostra di respiro mondiale?

Per alcuni, il risultato artistico di tali operazioni in laguna appare come neo-colonialismo volgarmente presentato sotto le mentite spoglie del multiculturalismo. Con la Cina come "main investor" in Kenya la scena culturale africana ha trovato un nuovo padrone che non solo occupa il territorio ma attraverso le sue velleità artistiche impone visioni estetiche naif, folcloristiche, con quel tocco di neo-primitivismo alla Tanzini in cui la capacità di leggere la diversità e la densità del contemporaneo assomiglia del tutto al "Waka Waka" di Shakira e al Kwassa Kwassa dei Vampire Weekend.

Segui Riccardo su Twitter: @ByzantineVampyr