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Com'è viaggiare quando vieni da uno dei paesi più 'pericolosi' del mondo

Quando il paese in cui vivi è percepito come instabile, non puoi semplicemente prendere e partire. Secondo il global Visa Restrictions Index, il passaporto iracheno è il terzo meno potente al mondo.

Una persona che non è l'autore. Foto di Unsplash

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Oggi "viaggiare" è diventata una di quelle pratiche da inserire in un'ipotetica lista delle cose da fare prima dei trent'anni. Un rito di passaggio per ogni buon membro della classe media—al quale, però, non è così automatico partecipare anche quando fai parte del gruppo sociale ed economico che ha tutte le carte in regola per farlo.

Prendete l'Iraq, per esempio: una delle aree del mondo più colpite da conflitti, e nella quale contemporaneamente internet ha raggiunto anche gli angoli più remoti. Attraverso gli hashtag utilizzati da lifestyle blogger profumatamente pagati—#wanderlust, #instatravel, #travelgram—moltissimi iracheni sono lasciati a vivere per interposta persona ogni foto di una noce di cocco su una spiaggia immacolata.

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"Mi piacerebbe molto vedere cos'ha da offrire il mondo," dice Zahraa Ghandour, che a Baghdad lavora nei media. "Ma quando penso al tempo e ai soldi che ho perso in visti poi respinti, sono sempre meno fiduciosa nella possibilità di viaggiare liberamente."

Il richiamo al viaggio è più che comprensibile quando hai vent'anni: la libertà, la possibilità di conoscere nuove culture al di là degli stereotipi, l'attrattiva di divertirsi con i propri simili. Può sembrare un sogno. Unitelo al desiderio di sfuggire alla consapevolezza di uno stato perenne di guerra e devastazione e potrete capire quanto, per alcuni giovani iracheni, il concetto di "wanderlust" vada ben oltre qualche foto su Instagram.

Ma quando il paese in cui vivi è percepito come instabile, non puoi semplicemente prendere e partire. Secondo il global Visa Restrictions Index, il passaporto iracheno è il terzo meno potente al mondo. Per un iracheno, i paesi che non richiedono il visto o che offrono la possibilità di ottenerne uno all'arrivo non sono più di 30.

Per Sarah Collinson, ricercatrice presso l'Overseas Development Institute, il concetto di visto è "insito nella natura stessa della sovranità." John Torpey, professore di sociologia alla City University di New York, va oltre, sostenendo che il visto sia "la 'prima linea di difesa' contro l'ingresso di persone non desiderate." L'idea di vedersi complicare l'accesso a determinati stati sulla base del paese di provenienza è di per sé razzista—in pratica, diventi indesiderabile fino a prova contraria.

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Ghandour è combattuta. "Amo il mio paese, e non ho intenzione di andarmene, ma voglio, devo, vedere il mondo." Molti suoi amici hanno lasciato l'Iraq come profughi—una delle poche alternative a disposizione dei giovani iracheni per uscire dal paese. "Non sono felice, qui," continua, "e per quanto abbia fatto il possibile per aiutare gli altri, ho bisogno di una pausa da tutto questo, anche solo per poter apprezzare la vita."

Zahraa Ghandour. Foto dell'autore.

In passato, racconta, ha speso migliaia di dollari per voli e hotel, finiti regolarmente nella spazzatura ogni volta che si è vista negare un visto. E questo non riguarda solo la possibilità di viaggiare, ma anche di farsi un'istruzione: a causa del sistema ha dovuto rinunciare a programmi di studio all'estero. "Non ho interesse nel chiedere asilo in un determinato paese al mio arrivo, quindi devo limitarmi a seguire chi viaggia su Instagram, per farmi un'idea di come è il mondo al di fuori dell'Iraq."

In quanto cittadino britannico ho il privilegio di spostarmi con una certa facilità, il tutto grazie allo strano potere rappresentato dal mio passaporto. L'impero britannico sarà anche morto e sepolto, ma la sua eredità non è stata del tutto smantellata.

È un punto su cui il regista pluripremiato Mohanad Hayal insiste con una certa amarezza, quando racconta del mancato visto per l'Australia. Era stato invitato a partecipare a un corso di formazione per sviluppare il suo nuovo soggetto, racconta, sottolineando la possibilità di lavorare accanto a registi di fama internazionale. Ma il visto non è mai arrivato. "Quanti dei 2.000 soldati australiani in Iraq hanno avuto bisogno di un visto quando hanno invaso il mio paese nel 2003?" mi chiede.

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Dopo tutti gli ostacoli sofferti in patria, non ultima la mancanza di elettricità durante la scrittura del suo primo film, Hayal spiega come l'ingresso già di per sé complicato nel cinema internazionale sia stato reso ancora più difficile dalle restrizioni alla sua capacità di spostamento. "Ho l'impressione di essere trattato come una minaccia terroristica, non un regista," aggiunge. "È una cazzata. Come posso essere una persona creativa e condividere questa mia creatività se non posso uscire dal mio paese? Mi sento in trappola."

Ma il problema non è solo uscire dall'Iraq. Anche spostarsi all'interno del paese può essere rischioso, vuoi per l'ISIS o per le divisioni settarie. Dilshad Yousif, un fotografo iracheno di origini curde, è nato a Baghdad e parla solo l'arabo. Gli è stato negato l'accesso a Erbil, la capitale del Kurdistan Iracheno. "Mi hanno tenuto tre ore in aeroporto, e poi mi hanno rimandato a Baghdad. Perché? Perché il fatto di non parlare il curdo mi trasformava automaticamente in un traditore."

Per la generazione cresciuta all'ombra della guerra trovare una via di fuga anche solo temporanea è estremamente complicato. E se per molti il viaggio inizia con un processo tanto semplice quanto comprare un biglietto aereo, per un iracheno questo rito non è soltanto fuori dalle proprie opzioni, ma direttamente fuori da ogni immaginazione.

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