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vita vera

The XTC Days

Ricordi dalla stagione romana dei rave.

Ieri ero col solito Wolf Anus a un tavolino all’aperto di un noto quartiere per aperitivi di Roma. Stavo lì, cercando di convincerlo a concedermi un’altra intervista (per la precisione sulla fisica teorica—giuro), quando veniamo disturbati dall’inquietante silhouette di un circa trentenne dall’aria smunta e dal peso non superiore ai 40 chili.

“Avete qualche spiccio?”

“No,” rispondiamo noi.

“Dai, mi servono,” prosegue quello.

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“A che ti servono?” chiediamo.

“Mi devo comprare gli antibiotici. Guardate qua.”

Si solleva la maglietta e ci mostra un enorme sgarro infetto. Non era una normale cicatrice: era proprio una voragine lunga qualcosa come 15 centimetri, sbrodolante pus color giallognolo e probabilmente dall’odore altrettanto ributtante. Gli diamo un euro a testa e quello se ne va (senza ringraziarci).

“L’hai riconosciuto?” mi fa a quel punto Wolf Anus.

“Eh?”

“Dico: hai visto chi era?”

“No, chi era? Lo conosciamo?”

E Wolf Anus mi ricorda di quando una decina d’anni fa a Roma era tutto un rave e ogni sabato si poteva scegliere tra almeno tre festini illegali. Si andava là, si faceva festa, e si tornava a casa la domenica a pranzo, in tempo per il gran premio di Formula 1. Vuole la vulgata che un’intera generazione senza distinzione di classe, provenienza, genere e orientamenti di vario tipo si formò tra le quinte scalcinate di qualche fabbrica abbandonata di periferia. Come tanti altri, anche io e Wolf Anus abbiamo partecipato alla festa. Erano gli anni calanti (il doppio senso è involontario) di una stagione cominciata più o meno a inizio Novanta. Eravamo troppo piccoli per aver vissuto il periodo d’oro dei rave a Roma, quando la città era diventata come per miracolo una delle capitali della techno europea, e quindi ci siamo beccati solo la coda del fenomeno. Che era comunque una cosa enorme, dalle dimensioni impressionanti, roba che a ripensarci quasi ti viene da non crederci. Un sacco di gente andava ai rave per sentire la musica e ballare, certo. C’era anche chi ipotizzava affiliazioni ed eredità di tipo sciamanico, come i miei amici di Torazine, una rivista che a quanto pare nessuno si ricorda più. Ma altrettanti ci andavano principalmente perché, per la miseria, i rave erano un vero e proprio mercato a cielo aperto. Inutile che vi stia a spiegare qual era la merce in vendita (droga), ma il punto è: che fine ha fatto quella gente? Come si è ridotta? Possibile che tutti quegli anni di eccessi non abbiano prodotto effetti collaterali, anche su larga scala?

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Va bene, io, Wolf Anus e un sacco di altre persone ai rave eravamo di passaggio: erano un diversivo come un altro, e ogni tanto poteva pure capitare che al festino del sabato sera si preferisse—orrore!—un film a casa. Ma per un mucchio di gente le maratone chimiche erano, come dire, una religione. Una missione a cui immolarsi anima, corpo, narici e polpacci. Non sto parlando di quattro esaltati dalle pupille perennemente ingrossate, intendiamoci. Sto parlando di giovinastri di borgata che passavano l’intera settimana in attesa del devasto del sabato, di ragazze di buona famiglia in fuga dai salottini, di studenti aspiranti intellettuali irretiti dalle good vibration dell’MDMA, di gente normale, normalissima, di colpo rintronata dall’implacabile martello dei 180 bpm. Una di quelle persone era il tizio dallo sgarro infetto. Il fantasma di uno come tanti conosciuto all’epoca, che riappare a distanza di anni e più o meno è come te lo aspetti: più di là che di qua. E gli altri? Quanti ce ne sono, come lui?

Mi è capitato di riparlare di quella stagione non molto tempo fa, in un’intervista al Duka, uno degli animatori storici dell’underground romano. La domanda che a un certo punto gli posi è: “Ma perché lo facevamo?” Oggi non ho nemmeno idea se i rave esistono ancora, e probabilmente la maggior parte di chi sta leggendo nemmeno sa di cosa sto parlando. Ve lo riassumo per come lo ricordo io.

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Prima di tutto, se parlo di rave per me significa una cosa sola: feste rigorosamente illegali, che si tenevano solitamente in vecchi capannoni abbandonati da occupare per una notte soltanto. I rave cosiddetti “commerciali”, quelli che si tenevano nelle discoteche, non mi interessano. Non ci sono nemmeno mai andato.

Ora, capite bene che, viste le location che facevano da sfondo ai suddetti festini, la scenografia non era esattamente idilliaca. Entrare in queste fabbriche in disuso che puzzavano di nafta (per via dei gruppi elettrogeni), buie, piene di  calcinacci e di ferraglia sparsa, con le vetrate divelte e i tetti pericolanti, in mezzo al nulla della periferia romana… insomma, ma chi te lo faceva fare? Tutto parlava di abbandono, di degrado, di brutture e persino di pericolo. Almeno i primi rave inglesi li tenevano in campagna, a Stonehenge, e alla fine parevano null’altro che allegri ritrovi hippie fuori tempo massimo, con la techno al posto dei Grateful Dead. Niente, noi bisognava rimediare una macchina, uscire dal Raccordo Anulare, seguire le incerte indicazioni rimediate da quelli ben informati, e poi ritrovarsi in un buco di culo che solo ad appoggiarsi al muro ti beccavi il tetano. Oppure quella volta che la fabbrica era un ex stabilimento per fotocopiatrici, fax, o roba del genere… C’era ancora il toner che aleggiava nell’aria. La gente aveva tutte le mani e le facce tinte di blu. Sapete quant’è tossico respirare quella roba? Diomio, ma perché stavamo lì?

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Già l’ambiente non era dei più accoglienti: ma parliamo della musica. In Inghilterra, a Stonehenge o quello che era, la gente ballava con 'sta cosa chiamata trance che era sostanzialmente una forma di psichedelia fatta con le macchine, roba buona per viaggiare, insomma. Noi invece no, entravi e venivi molestato da questa scarica di ritmiche industriali al cardiopalma, cattivissime e oscure, stridenti, dissonanti, che parevano fatte di lamiere e barattoli… una roba da incubo. Però la gente si piazzava davanti le casse e via, a ballare. Ore e ore e ore. Voglio dire, la musica il più delle volte non era neanche male. Ma come facevi a dire che era divertente?

Veniamo ora al capitolo droghe. Erano chiaramente ovunque. Ed erano tante. Ogni tanto qualcuna andava più di moda delle altre, e la regina di un tempo—l’ecstasy—pareva già un po’ decaduta. Le pasticche, ci mancherebbe, non mancavano mai. Avevano tutti questi nomi ammiccanti, sapete: Mitsubishi, 007, cuoricini… Si distinguevano in base all’effetto: alcune erano “morfinose”, altre “anfetaminiche”, altre “estasiose”. C’era gente che le prendeva “a panino”, cioè due insieme. Poi passava ad altro, chessò, lo speed. Magari un acido. Per i più fricchettoni un funghetto. Oppure per rilassarsi una tirata d’oppio. O meglio ancora una bella botta di ketamina, il famigerato “anestetico per cavalli”. La ketamina potevi inalarla, ma poi venne fuori che l’iniezione intramuscolo era più potente, e quindi ogni tanto, mentre andavi a pisciare dietro a qualche immancabile furgone parcheggiato ai bordi della fabbrica, ti beccavi questi che stavano lì a farsi il buco sui polpacci, oppure sul culo. Un’altra presenza fissa dietro ai furgoni era la gente che scopava. I più fortunati si accoppiavano in macchina, ma poteva pure essere che uno la macchina non ce l’aveva, oppure sì, ce l’aveva, ma era troppo fatto per ricordarsi dove l'avesse lasciata. Cocaina ne girava poca e ancora costava tanto. Eroina, era una faccenda più clandestina e la gente per lo più se la fumava, ma quando la ketamina sdoganò il buco, oltre che i polpacci tornarono di moda anche le vene. Intanto, in sottofondo: dum-dum-dum. Alzavi gli occhi e scoprivi che a lato del capannone, in mezzo al buio, c’era una voragine malamente segnalata, in cui ogni tanto qualcuno ci cadeva dentro (una ragazza ci è morta). Nel frattempo, arrivava l’alba. Ai primi raggi di sole, ti si apriva davanti una scena che manco Bosch. Era l’inferno. In mezzo alla polvere beccavi un amico con la mascella in tiro che non vedevi dai tempi delle elementari, e tentavi un briciolo di conversazione. Incontravi la tipa sotto MDMA che ti lanciava sguardi languidi, e be’, ti si accendeva un briciolo di speranza e magari andavi a controllare che dietro al furgone ci fosse ancora posto. Eri sporco, lercio, con la polvere pure dentro le mutande, c’era sempre qualche poveraccio di cane che si era perso il padrone e che vagava senza meta sotto le casse, ti facevi un giro e magari inciampavi su un tizio che si era messo a “smorfinare” per terra, ragazze che pisciavano in mezzo al nulla, spacciatori magrebini venuti a vedere che aria tirava. Tutte le settimane così. Per… quanti anni?

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Tra le vittime che anche all’epoca mi mettevano più… ma sì, tristezza, c’erano le ragazze. Che al di là delle apparenze ritual-controculturali del classico rave illegale, non era raro venissero considerate—e quindi trattate—come nella peggiore discoteca per pariolini viziati. Immaginatevi il solito maschio arrapato che arriva, dà una botta di coca, si butta in mezzo alla mischia e adocchia una graziosa fanciulla che oltre a essere carina è anche fattissima, e che inebetita dal love love love dell’ecstasy gli sorride e magari gli si avvicina pure. Quanto tempo pensate che ci volesse perché il testosteronico macho la circuisse, magari sventolando un cartoccio di ketamina, e se la portasse dietro il famigerato furgone? Voglio dire, non c’era niente di male: la ragazza dopotutto era consenziente. Almeno tecnicamente. Poi però andava a finire che la mattina incontravi l’amica che non vedevi da quattro ore, le chiedevi che fine aveva fatto e lei boh, non ricordava niente. Qualche metro più in là, il satiro se la rideva con gli amici: “La vedi quella? Me la sono fatta!” Quando anche lei realizzava poteva essere un allegro “Va be', cose che succedono,” ma potevano essere anche vergogna, incredulità, rabbia, addirittura pianti. Non era la regola, non fraintendetemi. Credo di poter dire che la gran parte dei raver fossero persone ragionevolmente a posto. Ma sopra ogni festino aleggiava sempre un respiro, come dire, predatorio.

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Anni dopo, quando per motivi generazionali quella stagione si concluse, delle ragazze mi colpì in particolar modo l’evidenza della loro condizione di reduci, e come questa condizione si articolasse a seconda della relativa estrazione sociale. Non so perché, ma nella controparte maschile la faccenda mi è sempre parsa più sfumata, o forse semplicemente meno lampante. Come detto, ai rave c’era di tutto: ragazze di buona famiglia e borgatare incallite, figlie di papà e studentesse fuori sede che condividevano una stanza assieme ad altre sette conterranee, eccetera eccetera. Alcune di loro (esattamente come i maschi) ai tempi dei rave avevano evidentemente esagerato, ed era quando questa consapevolezza cominciava a manifestarsi che entrava in gioco il conto in banca di mamma e papà. Se il suddetto conto era poca roba, be’, poco da fare: alcune hanno continuato a sopravvivere come potevano andando a occupare case o lavorando come spogliarelliste; altre hanno proseguito facendo una tutto sommato banale vita da drogate; altre ancora si sono travate un posto al call center e ogni tanto, ma veramente una volta ogni tanto, ingollano una pasticca in ricordo dei bei tempi andati; qualcuna ha figliato.

Poi c’erano le ragazze ricche, e su quello andrebbe aperto un capitolo a parte.

C’erano le brave ragazze dei quartieri alti che, dopo anni di sfascio, decidevano che era ora di ripulirsi e di accettare quel posto nell’ufficio di qualche produttore cinematografico rimediato dallo zio. Adesso le incontro che paiono Sarah Jessica Parker e mi ricordo di quando rotolavano nel fango assieme al cane del loro fidanzato dell’epoca, quasi sempre un punkabbestia.

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C’erano altre brave ragazze dei quartieri alti che lo zio produttore cinematografico, se ce l’avevano, non ne voleva sapere di viziatelle ex tossiche (e quindi, per definizione, piccole troie), e allora fatti tuoi, trovati una vita e non rompermi le palle. Ma poi mamma e papà, che con la figlia non ci parlavano da anni, avevano deciso che era pur sempre loro figlia, quindi si erano informati su una buona clinica per disturbi psichiatrici. Adesso le incontro molto raramente.

C’erano ancora altre brave ragazze dei quartieri alti che coi genitori invece non ci avevano parlato veramente mai, e alle quali il medico amico di famiglia prescriveva psicofarmaci perché “me l’ha detto tua madre.” Adesso le incontro che fanno discorsi incomprensibili, un giorno decidono che vogliono fare la cantante e il giorno dopo l’allevatrice di cavalli, le incroci al cesso del solito bar e ti mostrano la tetta, giri l’angolo e le trovi che piangono su un cassonetto, raccatti un amico e le accompagni a casa, ma loro litigano con l’amico, trovano un distorsore Boss sotto il sedile e glielo danno in testa, sei costretto a fermarti al pronto soccorso e quelle scappano, poi ti telefonano il giorno dopo per sapere “che c’è stasera al Verme.”

E poi, be’, tante storie.

Qualche anno fa, un quasi-amico/conoscente che si faceva chiamare Phil Sick scrisse un romanzo autobiografico la cui trama vale più di tanti ricordi: nel romanzo, lui è un tossico all’ultimo stadio e ricoverato al CIM, che viene ingaggiato da un ricco signore della Roma Bene in qualità di investigatore privato. Quello che Phil Sick deve fare è ritrovare la figlia del tipo, scomparsa da tempo e intravista l’ultima volta giusto a un rave. Il ricco signore ingaggia Phil Sick perché non vuole scandali: sa che la figlia è finita a farsi di ketamina a margine di qualche fabbricone abbandonato, e sa che giusto un tizio come lui conosce dinamiche e geografie di quel mondo lì. Il romanzo Phil Sick lo scrisse, se non sbaglio, una decina d’anni fa. Era divertente, e scritto veramente bene. So che alla fine è riuscito a farselo pubblicare da un minuscolo editore campano. Che fine abbia fatto Phil Sick, non lo so. Di un sacco di quella gente ho perso i contatti. So che qualcuno sta bene, qualcuno sta male, qualcuno è vivo, qualcuno è morto, qualcuno si è suicidato, e alla fine è arrivato questo tizio a chiedermi i soldi mentre parlavo con Wolf Anus di fisica teorica. Non so se è un bilancio, ma altro non mi sovviene. Nei post precedenti: 

Fenomenologia dell'indie italico: 883

Un grande Silenzio