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Cafolavori

Carver a Correggio

Recensioni di libri scritti da personaggi che non dovrebbero scrivere, come Luciano Ligabue e Francesco Bianconi dei Baustelle.

Basta Montale, basta Pasolini, Gadda, basta: la verità è che con loro non si scopava mai. "Di cosa scriviamo quando scriviamo di merda" è una rubrica di recensioni letterarie dedicata a quegli attori, presentatori, musicisti e sportivi che hanno capito che scrivere un libro è la via più diretta per toccare le corde del cuore. I libri recensiti sono tutti disponibili in Autogrill. 

In questa seconda puntata, Luciano Ligabue, il Carver di Correggio, e Francesco Bianconi, il cantante dei Baustelle, aka il Baudelaire dell’any given monday.

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Il rumore dei baci a vuoto, Luciano Ligabue, Einaudi.

Quando Proust termina Dalla parte di Swann, invia il manoscritto a Gide per farselo pubblicare. A Gide che lo legge di corsa fa cacare e glielo rimanda indietro definendolo “impubblicabile”. Un anno dopo Proust se lo pubblica da solo, Gide allora lo legge meglio e gli prende un colpo. Invia subito una lettera all’autore nella quale si scusa del rifiuto da vero uomo e ammette di aver fatto “il più grave errore della sua vita”.   Luciano Ligabue, detto il “Liga”, detto il “Carver italiano” (soprannominato così da Antonio D’Orrico, una sorta di Andrea Diprè della letteratura, che ha pure definito Giorgio Faletti “il più grande scrittore italiano”) nel 2012, già vincitore di una laurea, di numerosi premi letterari e di un lungomare in Sicilia, propone i suoi racconti, Il rumore dei baci a vuoto, a Einaudi e pubblica in scioltezza la quarta opera letteraria della sua carriera, alla faccia di quelli che lo volevano morto. L’introduzione sulle bandelle de Il rumore dei baci a vuoto dà l’impressione che chi l’abbia scritta, nel riassumere il contenuto nelle solite brevi righe accattivanti, abbia compiuto uno sforzo straordinario e la prosa è subito simbolista:
“E sarà davvero morto quel gatto tirato sotto la sera in cui un papà decide che non vuole più parlare a suo figlio attraverso lo specchietto retrovisore? E quello scontrino pescato tra i rifiuti, e se… una delle prossime cinque macchine fosse una golf… Ma questa casa, comunque non la vendo”. In quarta di copertina la parola d’ordine è “tenerezza”:
“Ma c’è soprattutto tenerezza nei racconti teneri […] E sempre c’è tenerezza nello sguardo […] La sensibilità dello sguardo. La tenerezza”. Tano, Nello, Rancio, Tino Cappa, lo zio Alle, Pirro, Tienno, sono i “tipi” e i “tizi” dei tredici racconti dalla trama esile e dal finale sempre aperto.
Riporto, ancora dalle bandelle, le sinossi accattivanti:
“Un cane regalato mette a nudo un matrimonio. Una lettera che un chirurgo forse aprirà, forse no. Un fiume che sta morendo, anche se ha ancora qualcosa da dire. Una vacanza nell’estate più strana fin qui e una in pieno inverno. Un rapimento per errore che forse non è tanto per errore. Una moglie già anziana che si è portata dentro tutta la vita un incredibile segreto e adesso lo svela. O forse no.” Il “Carver italiano” è chiaramente poco interessato al contenuto dei suoi racconti.
Lo stile invece è più ricercato. Alterna momenti di descrizioni incredibilmente nulle:
“attraversarono alcuni corridoi”, “il suo sorriso, ora, era di altro tipo”, “ci davano dentro e facevano il possibile per raddrizzare una barca che non ne voleva sapere”, “durante l’amore si fissarono a lungo negli occhi”, “girò dodici canali e spense”, “aveva le gambe incrociate, spinnettava i piedi”, “urlava più che mai”, “gli si vedeva la vena sulla tempia”, “aveva dato un’occhiata al cestone dei dvd”, “sentì il tipo allontanarsi e aprire la porta che dava su qualche interno”, “adesso era sconvolto”, “fece passettini di pochi centimetri per andare verso il bagno. Nel tragitto si appoggiava con le mani dove poteva. Diede un’occhiata veloce allo specchio. Fece una faccia delusa”, “lui sorseggiava e guardava verso la porta della camera, lei osservava il suo stesso piede lisciare il pavimento”, “si guardarono per un po’”, “tornò sul divano. Riprese la posizione di prima”, “tutto il giorno appiccicati l’uno all’altra e gnigní e gnegné”; a momenti in cui si ricorda di essere il “Carver almeno di Correggio” e raggiunge le vette del “Capote di Zocca”:
“Abbiamo aggiunto nuova morbidezza ai nostri pensieri”, “correre era un verbo molto poco appropriato”, “lui contraccambiava, respirando profondo, facendogli arrivare la sicurezza di un sentimento”, “l’acqua rimaneva torbida e scura ma attorno c’era una parte selvaggia che faceva pensare, se possibile, a qualcosa di ancora incontaminato”, “partì la febbre”, “poco lontano due gatti si stavano miagolando addosso il rito dell’amore”, “il movimento aveva lasciato uscire il loro odore da sotto le lenzuola”, “parlavano morbidamente”, “non uscivano altri argomenti”, “si sorprese di non essere così sorpresa”, “La roulette russa. Tre pallottole in tamburo. Le vite salvate ma cambiate”, “io pentimenti no, ma proponimenti ne faccio a voglia”, “in quello spazio si infila più agevolmente il freddo blu di questo novembre”. E nel “silenzio irreale” con un “sorriso di disprezzo” e “un po’ di croissant e un paio di baguette”, le “lacrime scivolano in silenzio”, “lacrime che rotolano”. “Stufo marcio” dei “cieli tersi” e degli “squarci di freddo che investono”, arrivo alla fine “con gli occhi che fissano il vuoto”, in attesa delle scuse di D’Orrico, dell’Università di Teramo, del sindaco di Capo d’Orlando e di Einaudi che mi sveglino da quest’“incubo a occhi aperti”.

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Per la recensione de Il regno animale, il libro di Bianconi, vai alla pagina successiva.

Il regno animale, Francesco Bianconi, Mondadori

è il primo romanzo di Bianconi ed è la cover fatta male della vita agra di Bianciardi. Il leader dei Baustelle, il maudit di Montepulciano, il Baudelaire dell’any given monday non ha mai nascosto il suo amore per lo scrittore maremmano, scrivendo articoli e rilasciando interviste dove il nome di Bianciardi è una costante.
Nel colophon del libro, Bianconi però avverte che questa è opera della sua fantasia e che altri riferimenti sono “intenzionalmente e ironicamente casuali”.
E allora l’episodio del barbone che muore in strada, la gente che lo scavalca per non calpestarlo, il voler essere scrittore a Milano, l’attentato, il paesello lasciato per sempre, il consumismo, il qualunquismo, l’alienazione, la satira sull’editoria, l’impotenza etc, sono il ctrl-v della sua ennesima “malcelata appropriazione indebita”; le citazioni a inizio di ogni capitolo di Ovidio, Rimbaud, Montale, Zanzotto, Fantozzi sono il cosmopolitismo di un fuori sede; le note fiume à la Wallace sono forme sconvenienti di arroganza; la letteratura alta abbassata al livello dei barboncini; e per assurdo penso a questa riflessione di Bianciardi: “Io, lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura, specialmente quando dura anni, e ti mozza il lavoro, e tu stai male, avresti bisogno di riposarti e di guarire, e invece continuano a tafanarti i padroni di casa, i letturisti della luce, Mara con la comunione e le palline del bimbo, le tasse, i rappresentanti di commercio, i datori di lavoro, i medici, i farmacisti, le cambiali, gli esattori dell’abbigliamento. L’agonia continua fino a che a tutti costoro sembri che ci sia il modo di levarti di corpo qualcosa ancora, e fino a che tu abbia la forza di continuare. Poi lasciano che tu muoia.
È per questo che il viso dell’agonizzante ci si mostra sempre così terreo e stravolto: sta lottando, non contro la morte ma contro la vita, perché pensa e si arrabatta di trovare i soldi per pagare il prossimo. Poi, appena morto, lo vedete distendersi, riposare, e sorridere ironico. Ora – così par che dica – arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio. Pagateli voi, i conti, e non i vostri soltanto, ma anche i miei, per la cassa, il trasporto, la buca al cimitero. E sorride.
Anzi, mi ha spiegato un amico mio di Roma (ciò che di solito viene nascosto ai più perché, dicono, la morte è solenne e va rispettata e certe cose è meglio non raccontarle in giro) mi ha spiegato questo amico mio di Roma che sei sette ore dopo la morte c’è la defecatio post mortem, cioè a dire il morto, quando è morto davvero, se fa ’na bella cagata, nel letto, in modo da cominciare a puzzare prima ancora che si sia avviata la normale putrefazione. E sorride, perché quella evacuazione non è per niente automatica e inconsapevole, secondo me. Il morto lo sa, di andare contro a tutte le regole del ben vivere, si sta beffando dei congiunti, degli amici, delle pie donne. È la sua prima vendetta contro il prossimo”.   “Bianciardi è morto per te” Francesco (come Baudelaire, Ciampi, Pasolini e tutta la gang del fosco), perché tu potessi incensarti anche con l’opera sua per coprire tutta sta puzza di merda.

Altri libri scritti di merda: Fabri Fibra e Federico Fiumani dei Diaframma