FYI.

This story is over 5 years old.

A9N3: Il sottobosco ucraino è roba dura

Guru non è una parolaccia

Nel mercato italiano del life coaching è tutta una questione di competizione e metafore.

Roberto Re, il più famoso life coach italiano.

Al mondo non tutti sono felici, e chi non lo è può bere, oppure affidarsi allo sviluppo personale, una filosofia del successo che unisce personal power, pensiero positivo, fiducia nell’Io e il manuale pratico del venditore della Folletto. Negli anni Ottanta il business del coaching era circoscritto all’America e a pochi altri Paesi anglofoni, e l’unico che ne parlava era Anthony Robbins—quel tizio che in Amore a prima svista importuna Jack Black in ascensore—, un ragazzone americano con un tumore all’ipofisi e la voglia di diventare il ‘Re dei coach’. Nei successivi trent’anni, Anthony è diventato il life-coach più famoso del mondo, ha allenato gente come Bill Clinton ed è riuscito a esportare la sua magia un po’ dappertutto, anche in Italia, dove ha dato vita a una generazione di quarantenni ben sbarbati, incravattati, tutti iscritti al pacchetto ‘Solarium’ delle palestre Virgin Active. Ad oggi in Italia questo mercato vale tra i dieci e i 15 milioni di euro e offre tutto quello che un uomo può desiderare: formazione individuale, attitudine al comando, prestazioni sul campo e quella cosa di cui chiunque, anche mio cugino montanaro, prima o poi ha sentito parlare, il public speaking. Al suo interno ci lavorano più o meno un migliaio di professionisti e uno di questi è Roberto Re, un uomo dai capelli scuri e un sorriso rigido—durante il nostro incontro, la fotografa gli ha chiesto, “Fammene uno più naturale,” e Roberto ha risposto, “Sorriso.”

Pubblicità

Roberto in Italia è il leader del life-coaching, e tutto quello che sottende un “TU ce la puoi fare!” passa da lui. Lavora nel settore dal 1987, ha formato tra le 200 e le 300 mila persone, e con me è arrivato a quota 200 o 300 mila e uno. Tra i suoi motivati di successo ci sono Isolde Kostner, Kristian Ghedina, Clarissa Burt e Jessica Rossi. Io e Roberto ci siamo incontrati a Milano in un palazzo grigio-topo come tanti nel nord-est della città. Al secondo piano ci sono gli uffici di un’azienda che si occupa di comunicazione e formazione, dove Roberto e una trentina di alunni si sono ritrovati per una due giorni di public speaking. Tra loro ci sono uomini e donne sui quaranta, imprenditori, venditori, agenti immobiliari e alcuni autoproclamatisi “indipendentisti veneti.” C’è anche un Sindaco, a breve si ricandiderà e ha bisogno di imparare a ri-convincere il suo elettorato. Promette che se dovesse vincere, al prossimo corso ci viene con la fascia tricolore. Nel momento in cui Roberto inizia a parlare, non fiata più nessuno. Dà ai 30 presenti il compito di mettersi in coppia e creare una presentazione “a caso,” scusandosi perché “oggi sono venuti a trovarci i media e devo dargli un po’ del mio tempo.”

Roberto ci accompagna in una stanza più piccola, ci sediamo e cominciamo a parlare. “Quando ho iniziato non c’era niente. Io ci sono finito dentro un po’ per caso. La mia famiglia è quanto di più distante ci possa essere da questo mondo: sono figlio unico, mia madre è vedova e ha lavorato per 35 anni nell’ufficio di Fantozzi, quello vero, l’azienda di Genova dove era impiegato Paolo Villaggio e da cui si è ispirato per il personaggio.” Il successo è arrivato con gli anni, e prima di farlo si è allenato. “Ho lavorato molto su di me, perché non puoi dire a qualcuno cosa fare se tu non hai avuto le palle per farlo. Pensa a un dietologo grasso, o uno psicologo infelice, li ascolteresti? Io non credo.” Oggi Roberto è un po’ giù (come può esserlo un life coach), perché di solito riempie i palazzetti, “quello di oggi è un caso speciale, mediamente ai miei corsi vengono due, tre, 400 persone. Una volta ad Assago saranno stati più di 10.000,” ma non è stato sempre così, e quando ha iniziato nessuno credeva che la sua filosofia andasse più in là di un mucchietto di belle parole.

Pubblicità

A SINISTRA: Una copia del primo best seller della letteratura sullo sviluppo personale, Come trattare gli altri e farseli amici, pubblicato per la prima volta nel 1936. L’autore, Dale Carnegie, è considerato tra i padri del coaching. A DESTRA: Una allieva del corso di Roberto Re guarda uno schema sulla gestione dei discorsi in pubblico.

“In America, Robbins riusciva a parlare davanti a 3.000 persone già vent’anni fa, ma là le cose sono più facili, gli americani sono più aperti, in Italia non è così. Qui la prima reazione è ‘Tu mi stai fregando, smettila di dir cagate e vaffanculo.’ Il pubblico italiano è sgamato, abbiamo una lunga storia di inchiappettate e non ci fidiamo facilmente.” Nel suo business Roberto affronta tutte le insicurezze umane, dai problemi sul lavoro a quelli spirituali, e quando gli dico che mi sembra lo stesso tipo di approccio usato dagli sciamani hawaiani, lui mi dice che le due cose non sono poi tanto diverse. “Spesso mi danno del buddista. Alla fine, la strada del miglioramento è quella. C’è chi la fa in bicicletta e chi in rollerblade. Nel mio lavoro c’è un profondo lato spirituale, ma la differenza tra me e la religione è la pratica. Prendi quello che va a messa tutte le domeniche, è religiosissimo, ma nella vita si incazza di continuo. Il mio lavoro è diverso, io ti insegno a ‘fare’. Il coaching lo vedi dal risultato, poi se dietro c’è una filosofia tanto meglio. La spiritualità non è misurabile, le persone concrete sono quelle che da terra guardano in su, come me, chi sta nel mezzo vola.”

Pubblicità

Oltre allo spirito e alle metafore però c’è di più, e Roberto è prima di tutto un’azienda con un ufficio contabile in un mercato che inizia ad essere super affollato. “Quel che facciamo non è tangibile, e molti sono fanfaroni e ciarlatani. Ovviamente non è il mio caso, io non ho competitor. Il più vicino è molto lontano. E non lo dico per fare lo sborone ma è così, ho iniziato prima e meglio, e sono l’unico che ha un ufficio di 500 metri quadri. Il termine di paragone ce l’ho con gli europei, o gli americani.” Però Roberto conosce anche gli italiani e con alcuni ha lavorato, come Livio Sgarbi, secondo in Italia per fatturato nel business del coaching. “Io e Livio eravamo soci, abbiamo iniziato assieme. Livio è bravo, è capace, ma in passato ha avuto un po’ di problemi.” Avete presente Campioni, il reality che doveva rilanciare le sorti del Cervia mettendo come allenatore Ciccio Graziani? C’era anche Livio Sgarbi come “motivatore” dei giocatori. “Livio è stato un po’ ingenuo, ha accettato di partecipare a un programma a cui non avrei mai partecipato. Loro sono stati dei bastardi e lui ne è uscito distrutto. La Gialappa’s l’ha chiamato l’immotivatore, tagliavano le scene nel punto giusto e lui ci è cascato. A me hanno proposto di fare la stessa cosa per Maria de Filippi ma ho rifiutato, sarebbe stato come buttare nel cesso 25 anni di carriera. Per fortuna la trasmissione è fallita.”

Pubblicità

Livio Sgarbi è la versione più alta e calva di Roberto, e se sulla carta si occupano entrambi di coaching, nella realtà uno è molto più bullo dell’altro. Ci sentiamo al telefono, dopo pranzo, lui è in macchina, non va in ufficio perché lo stanno ristrutturando— ampliando, precisa. Voglio sapere com’è andata a Campioni, quanto ne ha sofferto e se ha chiuso con la TV. La prima cosa che mi dice è “Sto andando a fare una trasmissione televisiva.” Perfetto, quindi no. “Campioni non è stato il punto più bieco della mia carriera. Il lavoro mi è piaciuto e i ragazzi hanno ottenuto un risultato. Poi il mestiere di alcune persone è quello di fare ironia, e ti dirò, a me è pure piaciuta, mi ha fatto gioco, mi ha dato visibilità.” Livio è una persona di successo, e delle cadute non sa che farsene. “Nel mio lavoro devi essere autorevole, devi diventare l’esempio evidente di quello che dici. L’atteggiamento mentale è tutto, e sentirsi una persona di successo è fondamentale. La coerenza è l’arma di un buon coach, e se sei bravo, e riesci a dimostrare di essere quello che dici, puoi suggestionare chiunque. È tutto marketing.”

Sono sempre più convinto che il coaching cresca sulle insicurezze degli altri, e che per chi lo sa fare, produca soldi, accoliti, e, come ogni buon business, sia causa di scontro. Lo dico a Livio. “La competizione c’è, siamo in pochi a guidare il mercato, ma c’è un sottobosco di piccoli coach in continua ascesa. Io mi sento in competizione con alcuni, ma non con tutti, diciamo con i migliori. Io e Roberto siamo i primi.” Livio, come Roberto, sa quello che vale e non ha paura di dirlo: “Sono bravo, tanto bravo, se non il più bravo almeno tra i più bravi.” Gli chiedo perché dovrei scegliere lui e non Roberto, “uno sceglie me perché mi ha sposato, perché gli ho dato la vibrazione giusta, perché tra noi c’è magia. Uno mi sceglie perché mi ha agganciato.” Anche spiritualmente. “Guru non è una parolaccia. Se qualcuno mi chiamasse così mi farebbe un complimento. Spesso questo termine viene usato negativamente, io non sono un santone e non la so tutta, però è un bel complimento.” Quando ho chiesto a Roberto di parlarmi del suo motto mi ha parlato del figlio di dodici anni: “Da quando era piccolo gli ripeto ogni sera prima di andare a dormire che ‘l’importante è essere felici’, Ormai mi zittisce: ‘Amore ricordati sempre…’ ‘Lo so papà.’” Quando chiedo a Livio la stessa cosa mi dice che le frasi non servono, che ridursi a un concetto è stupido e che “No. No. No. È banale, è riduttivo, e non mi piace. No.”

Pubblicità

Uno dei vari motivational appesi per il centro congressi, “Gli obiettivi sono sogni con una scadenza.”

Livio e Roberto rappresentano il lato ‘umano’ del coaching e dispensano soluzioni a mezzo convegno, o libro—tutti best seller—o format tv. In libreria li trovate nel reparto ‘Scienze sociali e professioni’, e per il grande pubblico, quando capita, si infilano nei palinsesti tipo Odeon o Telesperanza o cose così. Certo, c’è anche il lato ‘azienda’, ma i loro nomi sono più importanti delle aziende per cui operano, e la verità è che non tutti sono come loro. Ci sono coach come Giovanna D’Alessio. Giovanna ha fondato una società di coaching per le aziende—e basta—e il suo lavoro è formare altri coach. Ci incontriamo nel bar di un hotel, perché come tutti i CEO, Giovanna non è mai a casa. Non indossa un tailleur, ma jeans e scarpe da ginnastica, mi offre un caffè, e traspare un’aria zen in tutto quello che fa e dice. “I meccanismi di paura bloccano le energie, soprattutto in azienda. I sistemi di potere non sono più quelli di un tempo: prima il leader poteva guardare al passato per prevedere il futuro, oggi no, è costretto a vivere il presente, e ad essere più umile, in contatto con il suo io interiore.”

Giovanna ha cominciato a lavorare come manager di aziende importanti, come Yahoo! quando Yahoo! era ancora un’azienda importante, poi ha scoperto il coaching. “Ho seguito il primo corso a Londra, ma non mi è piaciuto. Era un miscuglio di psicologia e New Age, e il tizio che lo teneva era un signore anziano con la barba bianca. Non faceva per me. Così sono andata in America e ho scoperto la International Coach Federation, un’associazione di categoria in una categoria che fino a quel momento era senza regole.” Perché nel coaching se qualcuno dice di essere un coach e gli altri ci credono, allora è un coach. “L’ICF invece ha stabilito un codice etico, e se non lo rispetti ti viene tolta la certificazione, che poi è l’unica garanzia di competenza.” Roberto e Livio non ne fanno parte, Giovanna li conosce, ma li considera dei coach sì-e-no, “i corsi di Roberto sono corsi e basta, il coaching prevede un coach e un coachee. Io sono al tuo servizio, non ti do un manuale: tu mi parli, io ti parlo, e insieme arriviamo da qualche parte.”

E se il coachee può essere una persona chiunque da zero a 100 anni, il coach corrisponde a criteri precisi, e “se sei incentrato su te stesso non vai bene, non è un mestiere, non funziona così, devi essere disposto a ripensarti.” Ma soprattutto “devi conoscere la vita. Se non hai mai cambiato casa o non hai mai fatto un mutuo, o se sei troppo giovane, non vai bene. Il coaching è una di quelle professioni in cui i vecchi sono i migliori.” Roberto e Livio non sono vecchi, “quello di Roberto è un punto di vista interessante. Ognuno di noi ha un dono e una propria realtà. È tutta una questione di testa, e di filosofia. Io sono convinta che il protagonista sia il cliente, secondo altri non è così. Esiste un mondo incentrato sull’adorazione della figura vincente, ed è sbagliato. Il coach non è mai un guru.” Quindi la strada del miglioramento non è acquistabile su Amazon, ma è una presa di coscienza interiore che è già parte di ognuno di noi, solo un po’ nascosta. “La verità è che non esiste un segreto, è tutto marketing, sono tutti espedienti. Nel mio sito non troverai mai il nome di un cliente, perché non è dimostrazione, ma consapevolezza. Loro invece si sentono di dimostrare tutto, sempre. L’Italia ha sviluppato una cultura del contrasto come nessun altro, esistono solo i like o la critica assassina. Non esistono grigi, o è bianco o è nero.”

Esattamente come in una religione, il mondo del coaching è pieno di gente che predica semplicità e cambiamento o totale devozione verso una figura superiore, tutto per arrivare a diventare un “leader”. Quindi, che diamine bisogna fare per diventare leader? Roberto non me l’ha voluto dire, “non posso aiutarti, non etichetto mai nessuno, so identificare i virus delle persone come un tecnico informatico, ma evito sempre di dire qualcosa, almeno fino a quando non mi dici cosa vuoi da me, perché e cosa ti impedisce di raggiungerlo. Da lì lavoriamo sui tuoi schemi mentali, e a quel punto ti dico fai questo o fai quello. E non è una questione di forza di volontà. Ho scritto un libro su questa cosa, con Roy Martina, si chiama Energy, leggilo.” Livio invece è molto più drammatico, e si incazza: “Come faccio a saperlo? Non mi stai dando nessuna informazione, parliamone, dove vuoi andare, perché, di cosa stai parlando? Facciamo leva sui tuoi perché.” Almeno Giovanna un’idea ce l’ha. “C’è la danza e c’è il balcone. Quando sarai in grado di stare nella danza e contemporaneamente sul balcone, avrai trovato l’equilibrio e potrai ‘fare’ sapendo quello che stai facendo. È questo il segreto.” Chiarissimo.

Segui Giorgio e Bea su Twitter: @sm_uu e @beadegiacomo