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Demented parla da solo

Davis VS Coleman: due pugili sul ring del jazz

Miles Davis sta vivendo una terza, se non quarta, giovinezza, e anche per via dei tanti inediti usciti sembra sia l’unico vero innovatore nel jazz. Ma non ci stiamo forse dimenticando di Ornette Coleman?

Bene, ragazzi: state leggendo un testo che sarebbe dovuto uscire ieri, ma incredibilmente il file è sparito nel nulla. Mi trovo costretto quindi a riscrivere tutto da capo, ma forse non è un caso. Come gli appassionati di jazz sanno, il 28 settembre 1991 ci lasciava il vate Miles Davis: ragion per cui l’articolo qui presente—nato per tutt’altro motivo—può essere considerato un tributo a un uomo che se non fosse stato vero avrebbero dovuto inventarlo (consiglio a tutti di ripassare le sue gesta leggendo l’omaggio di Valerio Mattioli, che mi precede solo perché a lui glielo pubblicarono mentre il mio rimane ahimè nei cassetti dal 2003). Miles Davis sta vivendo una terza, se non quarta, giovinezza. Oramai ne parlano cani e porci, e ogni cinque minuti esce un disco di roba inedita pescata non si sa dove: l’ultima recentissima riesumazione in ordine di tempo è il live The cellar door sessions, che ci riporta indietro nei Settanta e che senza motivo alcuno spunta fuori dopo trentacinque anni (!). Insomma, pare che alla fine della fiera Miles Davis sia l’unico vero innovatore nel jazz. Ma ne siamo proprio sicuri?

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Ecco, l’argomento originario di questo testo è presto detto: ci si è dimenticati ad esempio di Ornette Coleman, suo diretto rivale. Proprio nel settembre 1961 quest’uomo pubblicò il primo vero disco di rottura con l’ortodossia jazz, ovvero Free jazz: finalmente melodia e armonia vanno dove cavolo vogliono, soprattutto verso il rumore. Come è possibile che nessuno lo sbatta in prima pagina? Forse perché non è ancora morto? A questo punto è necessario mettere sulla bilancia questi due pesi massimi e capire un po’ come funziona. E la storia ha tutto l’aspetto di una battaglia sul ring.

Facciamo un passo indietro, nel 1958. Davis—dopo aver inventato il cool jazz… mica pipe—sforna A kind of blue, che è un disco che non ha bisogno di presentazioni ma che probabilmente le nuove generazioni, forse inevitabilmente, manco sanno cosa sia. Best seller, ultraraffinato. È il primo esempio di jazz modale, in cui i suoni non sono necessariamente in relazione con una tonalità e si ragiona sulle scale invece di pensare in maniera maggiore/minore. In breve, una rottura colta e se vogliamo “delicata” col passato. Si grida al miracolo.

Ma quasi contemporaneamente il free Jazz di Coleman arriva come un treno ad alta velocità sui binari arrugginiti del jazz. Scardinando una serie di certezze, prime fra tutte la centralità dell’armonia e della melodia, si porta via l’attenzione riservata a Davis e ancora oggi fa proseliti fra i “bebè” della musica. Nello stesso ‘58 il nostro si fa profeta della “stonatura”: naturalmente ancora c’è qualcosa che rimanda al passato, le improvvisazioni sono almeno formalmente ancora regolate, ma l’approccio alla materia è indubbiamente ROCK, anticipando in qualche modo gli innesti futuri dello stesso Davis. Il quale, preso in castagna, ovviamente odia il free jazz. Ma come, io innovatore blasonato mi devo sentire ‘sti caciaroni punk che con la scusa della rottura fanno come gli pare? Ma andiamo, è una truffa.

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Il ragionamento fa molte pieghe, ma a questo punto Davis—con un moto d’orgoglio notevole—cerca di uscire dal tunnel pop che stava prendendo con Someday my prince will come per entrare in nuovi sentieri. Ti aggiusto io Coleman, sembra borbottare.

Ed ecco allora darsi al free pure lui, ma bop. Il freebop, cioè un bebop trasversale e più elastico, con album notevoli tipo Sorcerer e Nefertiti, che però non sembra buttare giù dalla torre Ornette… anzi, semmai ne consolida gli standard: quello si mette a fare Chappaqua e The empty foxhole col figlio di dieci anni alla batteria, figuratevi. Mangiandosi le mani, Davis decide di cambiare rotta e mettere un wah wah alla tromba (praticamente la tecnica della sordina aggiornata e corretta) e usare solo strumenti elettrici cercando l’ibridone fra il jazz e il rock. Il numero è Bitches brew. Sappiamo pressappoco tutti come l’album sia entrato nell’immaginario collettivo: Hendrix e allucinogeni ficcati nel jazz. Ma vediamo a questo punto come reagisce Coleman, se con un destro o con un sinistro.

Miles si riposa dopo l'ennesimo match.

Dopo un iniziale spiazzamento, nel 1971 pubblica Science fiction. Cacchio, se non si è inventato la jungle poco ci manca, pare di sentire Roni Size in acido che non ci capisce più un cazzo. Folgorante apertura, ma ancora di elettrico c’è poco: volendo è una risposta “in reverse” a Davis. Tu vai sull’elettrico ma io faccio le stesse cose in acustico: faccio proprio il noise spaziale. Vero è che fanno capolino schitarrate e un mood esplicitamente funky che, come vedremo, sarà il prossimo approdo del suo ideale rivale. Ma non solo: ci sono delle sbrattate che ricordano molto la musica concreta e le manipolazioni elettroniche di On the corner (tipo bambini che piangono su macerie sonore di strumenti che suonano a caso).

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Ebbene sì, l’anno dopo Davis scrive On the corner. E qui c’è l’apoteosi, il capolavoro malato. Addirittura disposto a smettere di ascoltare musica (cosa che più tardi avvenne), Miles rinuncia ai compromessi a volte ruffiani di Bitches Brew. Riporta tutto allo spirito afroamericano, dandogli però propulsione folle e dissociata, permeata da un cinismo atto a mettere a disagio l’ascoltatore, a fargli pensare alla truffa. Ma non era la stessa cosa che succedeva a lui ascoltando Coleman? Sì, perché se Miles impazzisce per Sly and the family stone e James Brown, in pratica la parte più ignorante  e ballabile della musica nera dell’epoca, nello stesso tempo frequenta Paul Buckmaster, compositore elettronico  che lo porta ad assaggiare le spezie di Stockhausen: registra quindi su più multipista, tagliando il nastro col machete e riproponendo loop a cazzo illudendo di ascoltare un disco suonato. Tra l’altro i pezzi si aprono come decapitati, impedendo a chicchessia di abituarsi gradualmente al groove dei brani, spesso anzi interrotti e ripresi nei minutaggi più improbabili, con feedback, ululati di tromba, ritmiche drogate. Stavolta Miles confessa implicitamente l’influenza di Coleman sul suo lavoro; forse addirittura è il suo disco più freeform di sempre.

E intanto Coleman che ti fa? Invece di lavorare sul piano dell’elettronica, pubblica Skies of America, un colossale capolavoro fatto di orchestra, sinfonia, archi: strumentazione in apparenza classica ma usata seguendo la sua visone “armolodica” (che sa solo lui cos’è). Insomma, una roba aliena da far scoppiare il cervello pure questa, musica di fuoco e fiamme. Miles pensa a Stockhausen? E io penso a Cage, vaffanculo. Un ideale zero a zero fra i due, e palla al centro.

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Ma attenzione, ecco Miles Davis con Dark Magus, anno 1974. Si riaprono i giochi. Inutile dire che, a parte le premesse e i pretesti di “ricerca”, Miles vuole distruggere la musica, la sua credibilità come musicista e l’establishment jazz. Rifiuta semplicemente le regole musicali, infischiandosene di tutti e dando vita a un pastiche a suo modo casalingo, fatto di riprese casuali e di assoluta violenza nichilista. Fastidio per la forma “razionale” del pezzo, stessi miasmi da sciattezza, esotismo eroinomane. Insomma, energie negative.

Coleman con il suo staff tecnico, pronto a sferrare l'attacco decisivo.

Non che per i seguenti album live (Agharta e Pangea) Miles si comporti meglio: melodia zero, coerenza zero. Musicisti che non sanno dove si trovano e cosa stanno facendo, che si aggrappano ai suoni per non crollare come pezze. Esecuzioni talvolta imperfette: ognuno per i cavoli suoi mentre Miles si limita a scorreggiare nella sua tromba filtrata col labbro oramai maciullato, osando note inosabili e dunque assumendo le “stecche” ad opera d’arte (ma non aveva il copyright Coleman?): in pratica si tratta di prove in pubblico. Davis sfoga la sua furia stanca: uccide il suo stesso mito, si dà fuoco da solo. Non esita a emettere effetti larsen, suona cluster di organo improponibili,tenta  fusioni  fra la batteria elettronica dell’organo yamaha settata ai massimi BPM  e la batteria acustica  che si impegna in sfrenati groove funky,mentre il sassofono dà vita ad assoli sfiatati. “Abbiamo gli amplificatori, suoniamo forte perché dobbiamo sentirci.” In pratica i PIL di Flowers of Romance due miliardi di anni prima. Dopo questo disco il nostro eroe si spezza per eccessi di droghe, alcol e mitomania, ritirandosi per cinque lunghi anni e superando in quanto a libertà assoluta Coleman. Il quale non sembra abbia troppo interesse per droghe e riflettori, almeno non in questa fase. Pensa a suonare e basta, e a questo punto è solo sulla pista da ballo.

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Paradossalmente, con Davis in fuori gioco, Coleman sembra accogliere su di sé le responsabilità di portare alto il funk nel jazz. Come se nei cinque anni di inattività lo stesso Miles gli tossisse nella testa queste parole, “vai negro, ora tocca a te… vediamo di cosa sei capace.”

E Coleman fonda i Prime Time sfornando dei dischi mostruosi.

Nel ‘76 il primo della serie, Dancing in your head: un ibrido storpio fra pifferi marocchini, world music ante litteram e porca paletta, praticamente è No Wave! Caciarazza elettrica funk assoluta, roba che i piedi non riescono a stare fermi e la testa ti fa male, con un cazzo di bassista assurdo (Jamaaladeen Tacuma) che potrebbe tranquillamente essere sostituito da un polipo demente. Altro che i Contortions, facile uscire nel ‘79 e fare i fichi dopo che uno come Ornette ti serve su un piatto d’argento la pappa pronta. Un groove sfasciato come se tutti stessero precipitando, salvo poi risalire e ancora riscendere in una follia maniacale fatta di suoni tipo unghie sulla lavagna che però sembra la pazzia del matto lucido, dell’assassino seriale, quindi estremamente pericolosa lì dove Miles faceva solo male a se stesso. Ornette fa centro e diventa di nuovo il perno di un’era. L’era del free funk, della quale è per forza di cose re incontrastato.

Nel ‘77 si bissa con Body Meta: qui si spinge ancora l’accelleratore sul funk radioattivo, praticamente inaugurando un paio di generi che poi spopoleranno anni e anni dopo: ovvero il punk funk, l’acid jazz e il post rock. Diciamo che è come se, per ideale sequel/epigono di Bitches Brew, mettesse nella musica nera Capitan Beefheart al posto di Hendrix. E naturalmente Miles Davis al posto di James Brown. Duro, crudo ma anche estremamente lirico. A volte addirittura sfiora le cantilene per bambini stupidi—è stato sicuramente saccheggiato dagli U.S. Maple, per citare qualcuno—in quanto la carta “stiamo andando in pezzi” canta chiarissimamente.

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Negli anni Ottanta però Miles torna miracolosamente a suonare. Mentre Coleman perfeziona—forse troppo a parità di freschezza—il suo jazz funk distrofico con Of human feelings, Miles si dà al pop anni Ottanta e vende una cifra. Diciamo che The man with the horn è un ibrido fusion/pop, una cosa un po’ scioccante che non si sa se va indietro o avanti. Anche Coleman allora, a modo suo, si darà alla massa, con linee di basso più definite e tipiche sonorità di plastica da classifica show: col risultato di creare un piacevolissimo free fusion televisivo, ovvero Opening the caravan of dreams (1983). Da questo momento in poi i due spingeranno in senso più “orecchiabile” i loro lavori, buttandoci ogni tanto in mezzo qualche lapillo di lava e cercando di confondere le idee alle mode imperanti. I due sembrano andare per binari paralleli anche nelle situazioni più rarefatte (il meraviglioso e impalpabile Aura di Davis, 1988, forse il suo ultimo vero capolavoro che in futuro approfondirò, e l’altrettanto liquido e quasi ambient Virgin beauty di Coleman). Poi la morte di Miles negli anni Novanta, mentre sta provando a usare l’hip hop nel jazz- mentre normalmente succede il contrario. Purtroppo il postumo Doo bop è un esperimento acerbo per quanto interessante, e l’highlander Coleman in cuor suo sa che deve fare qualcosa. Ecco quindi che in Tone dialing fa capolino il rap: d’altronde già in Science fiction il nostro infilava parlati prima ancora che fosse la norma.

Ornette vince quindi la cintura per inevitabile abbandono.

L’innovazione vera sta tutta qui, in questo botta e risposta: senza Davis niente Coleman e viceversa, come senza la morte niente vita. L’unico mio cruccio è che non li ho mai visti suonare assieme, e mi sembra tutto sommato stupido che non sia accaduto. Ma d’altronde due pugili non possono combattere se non l’uno contro l’altro: Jack Johnson contro Peter Jackson.

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