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Musica

Ossessione e nostalgia: come Spotify prevede i nostri gusti

Sono le due parole chiave delle nostre ricerche e fotografano l’epoca di un algoritmo intelligente e consapevole in grado di anticipare le nostre scelte.
GC
London, GB

Quando si parla di ascoltare musica, dacché Spotify è diventato parte integrante della cultura di massa, le nostre abitudini sono innegabilmente cambiate parecchio. Che ci piaccia o meno, la tecnologia ci rende facili cavie da programmare e nell’era in cui la rete è diventata tutto ciò che serve, anche la percezione dei trend musicali e di come si muovono si è spostata verso nuove mete. La verità non è così difficile da individuare, è solo che tendiamo a rimuoverla molto presto: qualsiasi sia lo strumento che durante le diverse epoche tecnologiche ci abbia accompagnato all’ascolto, ne abbiamo generato un conseguente risultato di fruizione. Il che, per chi sta dall’altra parte del vetro ad osservare come utilizziamo i giocattoli, è come realizzare una costante indagine antropologica.

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Spotify va ormai verso i 100 milioni di iscritti, sta per annunciare l’entrata in borsa ed è sempre più padrona del futuro della musica che ascolteremo. Questo, però, lo sapevamo già. Quello che non sappiamo, forse, è come fanno ad orientare i nostri gusti, in un’epoca in cui abbiamo già ogni modo possibile per personalizzare le nostre esperienze. E se questo non bastasse, a rendere il nostro modo di agire un concetto scientifico, che si può analizzare dettagliatamente fino alla radice.

Attraverso i dati che raccoglie, la piattaforma è in grado di definire — da ogni quartier generale sparso in giro per il mondo, con differenti target presi a campione — categorie che variano dagli ascolti dei millennials a quelli dei più incalliti nerd tecnologici, dei gamers e persino quelli delle mamme che usano Spotify. Un po’ come fare un censimento. Ciò non significa che ogni particolare preso in esame sia infallibilmente corretto tutte le volte, ma ci sono grandi possibilità che si avvicini all’esperienza precisa che gli editor perfezionano e migliorano di volta in volta, conoscendo chi sta dall’altra parte.

Alcuni parametri di distinzione ben precisi — dal database analisi Spotify di fine 2017 e da sondaggi a campione effettuati ad utenti di decine di nazionalità diverse la scorsa estate — hanno stabilito definizioni come ricerca (ascoltatori che tendono a cercare musica sempre nuova), diversità (pubblico che non focalizza l’esperienza su determinati artisti o generi) e cura (quanto si presta attenzione alla musica che si sceglie e se si è, in tal caso, predisposti a pagare per un prodotto più completo e personalizzabile).

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La forbice si è stretta, stando a quanto emerso al recente CES (Consumer Electronics Show) di Las Vegas, su due parole chiave ancor più incalzanti ed accurate nel completare la scheda dell’ascoltatore medio globale di Spotify oggi: ossessione e nostalgia.

Brian Benedik – vicepresidente responsabile delle vendite globali – ha parlato, all’interno del panel dedicato a Spotify per i brand, di come le playlist siano ormai diventate “epicentri culturali, con comunità intere che le definiscono”. Non più semplici “collezioni di brani”. E l’ossessione e la nostalgia sono i caratteri che più determinano gli stili di fruizione contemporanei delle nostre rotazioni e dei nostri play: l’inclinazione ad ascoltare più volte un brano e più volte le stesse tranche di brani consecutivamente da una parte, l’incontrollabile esigenza di ritornare indietro nel tempo facendoci coccolare da musica che ci ricordi gli ascolti d'adolescenza e di periodi della nostra vita ormai lontani, dall’altra. Uno streaming intelligente, che non mette in moto semplicemente l’algoritmo sviluppato di volta volta in base ai dati di utilizzo del servizio, ma un vero e proprio imprinting culturale a cui ci stiamo legando stabilmente. Un apprendimento precoce ad un metodo che rimane abbastanza difficile da scardinare, quindi facile da prevedere anche in futuro.

L’ossessività nello streaming non vuol dire prettamente – o solamente – l’incapacità nel districarsi verso un ascolto eterogeneo, che palesi più frequentemente trasformazioni di gradimento e tendenza, ma è piuttosto la regolare forma di utilizzo di una piattaforma di ascolto, nella maggior parte dei casi. La nostalgia, allo stesso modo, è una costante che persiste saldamente per l’abitudine di voler scovare qualcosa di familiare, che ci riallacci al passato, ed è con ogni probabilità la più alta percentuale di musica che suoniamo durante una festa o una serata con gli amici. “Voglio ascoltare i dischi che avevo da bambino, magari mi faccio qualche risata pensando a che gusti di merda avevo (poi però passerò tutta la serata a fare karaoke in camera)”. Vi sarà capitato, no?

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Il recente esperimento della Time Capsule – in cui l’algoritmo prevede attraverso playlist musicali quello che avevi a palla nell’mp3 o nel walkman quando andavi a scuola – ha comprovato tutto questo, essendosi rivelata una delle funzioni più utilizzate, twittate e discusse degli ultimi mesi. Un’ulteriore prova del concetto scientifico di playlist – come dice Benedik – che si sta rendendo il vero contenuto a cui fare riferimento. Una navigazione randomica di Spotify rende sì l’ascolto un insieme di scatole cinesi, ma ben indirizzato verso punti specifici che il flusso tenderà ad unire, perché già alimentato da precedenti riproduzioni. Sì, può sembrare che dietro ci sia lo zampino di Charlie Brooker. Non è né distopico né "dis-cronico": sta succedendo qui, ora.

È chiaro che questo sentimento possa variare parecchio di utente in utente. In linea generale è però innegabile che all’interno del nostro profilo ci siamo costruiti il nostro habitat, abbiamo ritrovato quello che ci è più familiare e non possiamo fare a meno di ritornarci. La cosa bizzarra è che questo accade nonostante l’accesso libero e illimitato ad una scelta infinita, da un catalogo che viene costantemente aggiornato. Un po’ come quando Netflix ci spiaccica sulla home un cult della nostra infanzia e pur avendone già visto una decina di repliche in TV ci sembra di provare qualcosa di stranamente nuovo.

Ed è vero, come raccontava il Guardian qualche tempo fa; c’è, tuttavia, il rischio (calcolato) che la stessa intelligenza artificiale del nostro portale non possa conoscere effettivamente cosa ci piacesse prima di mettere piede lì. Se fossimo incalliti collezionisti, ad esempio, potrebbe non sapere assolutamente nulla del fatto che la mia band preferita – di cui sfoggio il cofanetto completo in salotto – sono i Police, se non premerò play sulla loro pagina artista. Magari ho anche messo su, ogni sera, un vinile diverso di Sinatra, mentre leggevo.

Dai mood alle classifiche di genere, dalle nostre release radar alle uscite della settimana, il contenuto che troveremo sarà quindi sempre un passo avanti a ciò che vorremmo trovare, perché siamo noi stessi, all’interno della nostra gigantesca libreria virtuale, che stiamo tracciando una storia. Stiamo piantando dei paletti in un bosco sterminato, che puntualmente verranno seguiti da qualcuno. Fin dove riuscirà a indovinare cosa voglio? La risposta sarebbe che potremmo, magari, scegliere da noi. Ma sappiamo già che, comunque vada, rimarremo degli ossessionati nostalgici.

Giovanni è su Twitter: @storiesonvenus.

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