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serie tv

Solo a me non ha fatto schifo The End of the F***ing World?

A me è piaciuta. È carina.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT

Attenzione. Il pezzo contiene f**tuti spoiler.

Partiamo da un assioma: l’adolescenza è un bel casino. Un vero casino. Sennò non si spiegherebbe perché a qualsiasi età chiunque senta di tanto in tanto la necessità di raccontare un aneddoto di quel periodo come chissà quale parabola. È inevitabile, fisiologico. Soprattutto se si è immersi in quell’intervallo tra la noia e le reminiscenze delle tragedie familiari di un inizio gennaio a casa, e non si sa più che dire.

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Probabilmente è proprio per questa sorta di concatenazione mentale che The End of the F***ing World, uscita su Netflix lo scorso 5 gennaio e incentrata sulle vicende di due adolescenti, ha attirato estemporaneamente l’attenzione di un sacco di gente. Già andata in onda su Channel 4 e All 4 da inizio ottobre, la serie britannica è stata creata da Jonathan Entwistle, ed è tratta dall’omonimo fumetto di Charles Forsman.

In totale le puntate sono otto, da 20 minuti ciascuna, per una durata complessiva di due ore e 40: bazzecole per chi è abituato a sessioni di binge watching serali oltre il limite di sopportazione delle proprie cornee. Così, dopo questo breve tempo filato, mi è venuto da pensare: “Proprio carina.” Non pazzesca—per quanto mi riguarda le comedy non sono quasi mai da cinque stellette—ma piacevole, confezionata bene. E invece no.

Da molti all’interno dell’ecosistema in cui mi aggiro, ho ricevuto perlopiù feedback negativi e occhiatacce che verbalizzate suonerebbero come sei-un-bimbominkia-normie. C'è chi me l'ha descritto come "ottimo materiale per un Tumblr del 2010", chi si è detto stufo delle serie con adolescenti così irrealisticamente e cinicamente brillanti ("Hannah Baker non era abbastanza?"), chi l'ha definito "un Juno girato da Wes Anderson e Gus Van Sant in quarta liceo." Tornerò su alcune di queste cose più in là, occupandomi ora di chi ha deciso a priori che facesse schifo solo guardando il trailer—un po’ adolescenziale come reazione a una serie adolescenziale, no?

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Però lo ammetto: il trailer è davvero davvero fastidioso. Pure fuorviante, in effetti. Fa intuire sì che piega prenderà la serie, ma non dai molto peso alla cosa, perché la caratterizzazione dei personaggi (James, un quasi diciottenne che si professa uno psicopatico con annessi istinti omicidi e che è interpretato da Alex Lawther, il pedofilo della 3x03 di Black Mirror—“ah, ecco dove lo avevo visto”—e Alyssa, 16enne interpretata da Jessica Barden, che per farsi notare spacca telefonini e inserisce parolacce in frasi nelle quali non sarebbero indispensabili) è troppo forte per pensare al resto.

Anche le primissime puntate possono risultare fastidiose e fuorvianti, probabilmente perché tutto è ancora incentrato un po’ sulle premesse iniziali—James-lo-“psicopatico” che vuole uccidere Alyssa. Su questo punto le critiche che ho sentito maggiormente sono due: da un lato c’è chi è rimasto deluso dal fatto che questo aspetto non fosse in realtà il fulcro di una serie comica nonsense, dall’altro chi si è infastidito per il trattamento così approssimativo di un disturbo mentale. Se mi spiace per i primi, ai secondi mi viene da dire che nessuno ha trattato il tema della psicopatia in maniera superficiale perché il tema, di fatto, non è mai stato trattato. James, come si capisce andando avanti, non è uno psicopatico, ma un adolescente che crede di esserlo. Anzi, mi correggo: un adolescente appartenente a quella categoria fortemente disagiata e con potenziale, che crede di esserlo.

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Dal canto mio, infatti, mi sembra che l’intera serie sia semplicemente una grande allegoria, satura di situazioni irreali quanto esplicative, di quel periodo di merda e crescita per cui proviamo una sorta di feticismo conversazionale anche molti anni dopo averlo passato. Il tutto è sintetizzato nella serie dal viaggio—dopo essersi lasciati alle spalle una vita grama e un paesino odiato alle spalle, i due protagonisti partono on the road per trasformarsi in due Bonnie e Clyde moderni, ma molto più sfigati all’apparenza.

Grab via Netflix.

Ovviamente non è realistico che James e Alyssa siano sempre cinicamente brillanti e con la battuta pronta, ma preferisco uno sceneggiato incalzante e con qualche battuta a effetto che mi spieghi mano a mano l’evoluzione dei personaggi piuttosto che delle risatine di sottofondo che mi dicano quando ridere.

Tale evoluzione non è altro che una scusa per descrivere tutti i tipici passaggi dell’adolescenza—in maniera un po’ universale e soprattutto iperbolica. Prendiamo, per esempio, i profili dei genitori dei protagonisti. Il padre di James è “un coglione” che, dopo il suicidio della moglie, non riesce a interfacciarsi davvero col figlio. La madre di Alyssa è troppo impegnata a essere succube del suo secondo matrimonio. Il padre di Alyssa—nella cui ricerca Alyssa e James investono la maggior parte del viaggio—sembra immaturo più della figlia. Sono tutti casi estremi, ma comunque plausibili, di genitori pessimi: un modo come un altro per ricordare che tutti durante l’adolescenza abbiamo detestato, più o meno giustificatamente, i nostri genitori, e magari abbiamo avuto paura di diventare come loro.

Ho trovato trattata piuttosto bene anche la parte che preferisco, l’introspezione. Tramite l’escamotage dei voice over, sappiamo sempre cosa frulla in testa ai protagonisti: dai pensieri stilizzati e un po’ macchiettistici iniziali si passa a quelli sempre più reali e semplici. Se da un lato James si rende conto che tutte le sue certezze erano dettate da una routine alquanto solitaria e triste, dall’atro Alyssa racconta tra sé i dubbi e le insicurezze che si porta dietro per la prima cotta della sua vita. Tanto che l’ultimo aspetto descritto coincide al meglio con le sperimentazioni tra i due, rese impacciate più di quanto lo siano effettivamente a quell’età nel mondo reale.

Ecco: è comprensibile che chi non ha mai particolarmente annaspato durante gli anni scolastici tra la sensazione di detestare tutto e la voglia di evadere non abbia apprezzato The End The End of the F***ing World. E va bene così: tanto non credo che rimarrà negli annali come un esempio di serie che descrive egregiamente l’adolescenza nella sua interezza. Ne racconta uno spaccato parziale, a colpi di metafore e paradossi inseriti in un’ambientazione un po’ retrò, con una fotografia tra totali e primi piani simmetrici che ricordano tanto il Wes Anderson (su questo hanno ragione) senza colori pastello. Un esperimento, nel complesso, riuscito.

D’altronde, con le dovute differenze, la serie rientra perfettamente in quella sorta di filone narrativo sull’adolescenza che Netflix ha iniziato già da un po’. Penso a serie come Atypical, Tredici, Fino all’osso e altre che—seppur in alcuni casi davvero deludenti—sono nel complesso un ben accetto tentativo di raccontare situazioni più che plausibili di quell’età. Stavolta ci sono capitati i complessati semplici, inseriti in una comedy alternativa.

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