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Giallorenzo, foto promozionale
Musica

"Milano è un posto di merda", ma ci ha dato il disco indie più bello dell'anno

Loro sono i Giallorenzo, si chiamano come un uomo trovato morto nel loro palazzo e hanno scritto un disco bellissimo sui pazzi di Milano, che poi in realtà siamo noi.

C'è questa cosa che la morte non sta solo a Venezia, in letteratura, ma un po' in tutte le città in cui la si vuol mettere. Quando la metto a Milano, io la metto nell'opera di Antonio Moresco.

Moresco a Milano ci vive, in Porta Romana. Ci cammina, la notte, di strada e da solo. Finisce in risse, parla coi dimenticati, si aggira senza meta. Lo faceva anche da giovane, quando viveva in periferia, in una casetta di due stanze con moglie e figlia. All'inizio lavorava seduto sul cesso, per non svegliarle. È diventato scrittore già vecchio. La trilogia che ha segnato la sua vita—Gli esordi, Canti del Caos e Gli increati—è un iper-romanzo che parla del rapporto tra vita e morte, luce e merda.

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Il protagonista, che è uno ma più di uno come Gesù Cristo, a un certo punto comincia a peregrinare tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, confusi dalle scosse di un sisma divino. E gira anche per una Milano sospesa tra esistenza e inesistenza; una Milano increata, popolata da personaggi senza nome che però hanno un nome. L'uomo che pesta le merde, l'account, il copy, la bambina, il Matto, il Gatto, il traslocatore, la donna che grida, l'ispettore Lanza, il ginecologo spastico.

Faccio un salto, e quei personaggi buffi ma anche inquietanti, ognuno con una storia che comincia e finisce da sé ma che ne formano una comune, mi ricordano quelli che cantano i Giallorenzo nel loro disco MILANO POSTO DI MERDA. "Che titolone!", direte voi. Un po' sì, mai in realtà ha senso. Perché non è una sparata, ma una scritta che i ragazzi del gruppo—Pietro, Fabio, Marco, Giovanni—vedono tutti i giorni alla stazione di Dateo, che sta a Milano Est, vicino a casa loro.

È difficile mettere cos'è questo disco in pochi paragrafi, proprio com'è difficile convincervi che l'opera di Antonio Moresco vi cambierà la vita se la leggete, perché è pienissimo di cose e livelli e significati. Fondamentalmente, tutto nasce quando i ragazzi si rendono conto che al quinto piano del loro palazzo è morto un tipo, il signor Giallorenzo. E scoprono che era, essenzialmente, "un figlio di puttana odiato da tutto il mondo."

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E così lo raccontano. E insieme a lui raccontano altri personaggi off di Milano, nomi che chi si sente di qua ha visto, conosce o dovrebbe conoscere—Kevin Ragazzo Superdotato, il rasta che fa le foto, il signor Perindani. Esseri umani che, come i personaggi di Moresco, si aggirano in un mondo tra i mondi e attirano con le loro storie, calamite narrative, le storie degli altri. Nel nostro caso la storia è quella di Pietro, che canta e scrive i testi, e dei suoi amici. E la morte del signor Giallorenzo è il canale attraverso cui passa il flusso della sua storia.

I ragazzi si rendono conto che al quinto piano del loro palazzo è morto un tipo, il signor Giallorenzo. E scoprono che era, essenzialmente, "un figlio di puttana odiato da tutto il mondo."

Chi è che aveva già usato la morte per raccontare le cose? I Tre Allegri Ragazzi (appunto) Morti, che Pietro mi cita come uno dei nomi da cui nasce la musica dei Giallorenzo. Mi dice anche Vasco Brondi, e i Cosmetic, ma anche molto emo. E poi, e questo è un punto importante, una cosa che in Italia ancora mica c'è tanto come riferimento, cioè il suono lo-fi venuto fuori anni fa negli Stati Uniti attorno a etichette come Orchid Tapes e Run For Cover.

In Italia non c'è mai stato un vero emulo di cose come (Sandy) Alex G, i Teen Suicide e tutti i progetti di Sam Ray, gli Elvis Depressedly. Musica che sa essere tenera e gnucca allo stesso tempo, disperata e piena di speranza, registrata con il deretano. E una cosa che suona così, in Italia, suona dirompente e unica in quella zuppa che chiamiamo "indie italiano" e in cui c'è un po' di tutto, dalle primizie alle verdure che se non le usavi ora erano lì lì da buttare nell'umido.

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La cosa che rende i Giallorenzo delle belle verdurone mature e colorate è il loro andare oltre il fare-le-canzoni. Non stanno a dire che stanno male e vivono nella metropoli e amano e basta, ma lo mettono in un concept, che è anche una fanzine con i testi del disco e una storia che li unisce. Si sono fatti lo sbatti di fare una cosa vera, pensata, che racconta il senso di fascino e terrore della grande città per chi viene dalla provincia. E lo fa tramite persone che la gente considera matte, ai margini, e in realtà ha dentro lo spirito delle vie e dei palazzi e di tutti quelli che ci conducono dentro l'esistenza.

E insomma, quest'anno in Italia, in quella zuppa di cui sopra, nessuno ha fatto niente di simile. Ne abbiamo parlato un po'.

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Fotografia di Luca La Barbera

Noisey: Voi altre interviste ne avete già fatte?
Pietro: Solo una telefonica con il giornale di Brescia! Il tipo è stato un grande, mi fa "nel mio streaming si sentiva un po' male, poi immagino che nella versione definitiva si sentirà bene."

Come ti fa sentire un commento del genere, da parte di una persona non abituata a questo sound?
Fabio: Era quello che ci eravamo prefissati di fare. Pietro voleva registrare il disco con GarageBand dall'iPhone, poi per fortuna ci siamo ci siamo messi d'accordo per registrarlo decentemente in uno studio e poi rovinarlo. Ma sai, quelli che mi hanno fatto inquadrare il suono sono i Teen Suicide, e un commento così a me soddisfa. Forse però la persona non appassionata a queste cose non è prontissima.
Pietro: A livello di streaming il disco è andato meglio di quanto ci aspettassimo. Sono pochissimi, ma per la roba marcia che facciamo è assurdo. Ci sono persino gli amici di mia sorella che si prendono bene, gente a cui non frega un cazzo di 'sta roba. C'era un po' l'idea di provocare, dato che viviamo un tempo fatto di pop e rock perfetto, modaiolo, da Scuola Indie.

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"Il nostro è un disco così marcio che ti obbliga ad ascoltare davvero le canzoni. Non hai nient'altro se non le canzoni."

Scuola Indie, playlist di Spotify in cui tra l'altro siete stati inseriti.
Fabio: Siamo la pecora nera!
Pietro: Ci hanno già relegato in basso… comunque, dopo aver finito il disco mi sono reso conto di aver fatto questa cosa. Un disco così marcio che ti obbliga ad ascoltare davvero le canzoni. Non hai nient'altro se non le canzoni. E persone che hanno meno paranoie musicali e vanno a meno concerti punk di me hanno apprezzato proprio questa cosa. Mio cognato, ad esempio.

Il fatto che un disco così venga inserito in quel contesto è una bomba. C'è un potenziale di sorpresa per l'ascoltatore non abituato a quel sound, è una porta aperta verso nuovi suoni.
Fabio: Per il cultore di turno può essere una bella sorpresa trovare un disco come questo in un calderone come Scuola Indie, certo. E invece l'orecchio non esperto ci riconosce qualcosa di diverso.
Marco: Per me è comunque un disco molto coerente: è così marcio che crea una sorta di isola attorno ai personaggi che raccontiamo. Questo è un concept sull'isolazionismo, sulla solitudine, sulla cupezza.
Pietro: A me gasa un botto il fatto che in Scuola Indie sia uscita anche "Raffreddore" di Maggio, e c'è dietro Ste che fa screamo e urla peso. Abbiamo un po' messo un baco nel sistema.

pietro raimondi giallorenzo

Fotografia di Marco Previdi

Secondo voi, come mai solo nel 2019 in Italia siamo arrivati a fare un disco indie che suona come il vostro?
Pietro: Io ho il mito degli americani, ma più che gli Elvis Depressedly mi trovo a imitare un Babalot, che ha fatto dischi che hanno da insegnare anche in America, o un Francesco De Leo degli inizi. Ce l'abbiamo un indie pop lo-fi italiano, e già dal 2001. E noi ce ne appropriamo in modo violento.
Giovanni: Mettiamoci anche il primo Caso, tutte urla e chitarre.

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Però è un valore, in questo caso, appropriarsene. Nel rap si fa spesso critica a chi copia gli americani, ma qua siamo in un campo di gioco diverso.
Pietro: Magari in Italia il lo-fi è sempre stato pop, o punk. Noi abbiamo cercato di prendere un'estetica punk, ma fare un disco pop.

"Ce l'abbiamo un indie pop lo-fi italiano, e già dal 2001. E noi ce ne appropriamo in modo violento."

MILANO POSTO DI MERDA è un concept album, no?
Pietro: Un concept accidentale. Io mi sono accorto progressivamente di questo feel, all'inizio volevo solo fare un disco che suonasse come gli Elvis Depressedly. Poi mi sono beccato con Enrico Molteni al basso e Clara Romita alla batteria e volevamo fare gli Snail Mail. Alla fine loro non avevamo minimamente tempo di stare dietro a me, quindi ho chiamato i miei amici… e sono passati due anni. In tutto questo tempo mi sono reso conto che c'era qualcosa che accomunava i pezzi, e non solo la città di Milano ma degli squilibrati della città di Milano. Poi tutto ha fatto il giro ed è diventato io che parlo dei matti di Milano per parlare, alla fine, di me.

Il punto è che ti accorgi che è un concept solo se leggi la fanzine che avete creato, in cui più o meno raccontate una storia. "Giallorenzo" è il nome di un signore che è stato trovato morto in cima al palazzo dove vivete.
Giovanni: Sì, noi un giorno siamo tornati a casa e c'era chiunque: polizia, pompieri, ambulanze. Abbiamo scoperto che avevamo un quinto piano nel condominio, e io vivevo lì da quattro anni. E lì c'era una persona morta da due mesi e mezzo, che abbiamo scoperto essere questo Claudio Giallorenzo, che era un figlio di puttana odiato da tutto il mondo.

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Fotografia di Marco Previdi

Ok, quindi chi è il signor Giallorenzo?
Giovanni: Lavorava nell'aeronautica militare lì accanto e ha passato la sua vita a rendere la vita difficile alle altre persone del condominio, cercando di truffarli in qualunque modo. Aveva cagato sullo zerbino dell'inquilina del primo piano, le aveva lasciato un biglietto con scritto "Spero ti venga un cancro al buco del culo". In quattro anni nessuno di noi lo ha mai visto, è questa la roba assurda. Ed è stata proprio la tipa del primo piano a chiamare la polizia, perché la tipa della lavanderia le ha detto che aveva le camicie del Giallorenzo da tre mesi.
Pietro: C'è pure quest'elemento romantico, l'unica che si è ricordata di lui è stata la sua nemica.

Ma come avete fatto a sapere tutte queste cose di lui?
Pietro: Lui era uno che denunciava tutti, ha fatto spendere un sacco di soldi a un sacco di persone per le cause che intentava. Ed era un accumulatore seriale, è stato trovato morto circondato dai suoi rifiuti.
Giovanni: E "118", il primo pezzo, parla proprio di questo.
Marco: Tre settimane fa abbiamo rinnovato il contratto e il padrone di casa ci ha tirato fuori proprio Giallorenzo. E non ha la minima idea che ci chiamiamo così e che abbiamo fatto un disco.

"Un giorno siamo tornati a casa e c'erano polizia, pompieri, ambulanze. Al quinto c'era una persona morta da due mesi e mezzo, che abbiamo scoperto essere questo Claudio Giallorenzo, che era un figlio di puttana."

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Com'è che "Giallorenzo" è diventato poi il vostro nome?
Pietro: Prima sapevo solo che avevo dei pezzi che parlavano dei pazzi di Milano, alcuni veri e alcuni inventati. Poi però mi sono reso conto che non volevo fare un disco sociologico, una Spoon River. Volevo parlare di me, e quindi ho collegato tutto, e questo Giallorenzo serve in ultima istanza per dire: sono io. Non è un altro che guardo da fuori. Quindi chiamarci "Giallorenzo" è stata la scelta più facile del mondo. Ce l'hai sopra la testa, non l'hai mai visto ma sai che è esistito, e in ultima analisi sei tu.
Marco: È l'ennesimo pazzo di Milano, forse quello più vicino a noi—escludendo Bonti, che è il migliore amico di Pietro, a cui è dedicato un altro pezzo.

I vostri riferimenti sono completamente diversi rispetto a quelli dell'indie italiano da Calcutta in poi, no? Sono curioso di vedere come il mondo itpop vi possa comprendere.
Pietro: Per trovare una cosa positiva, ora è tutto più divertente. Negli ultimi dieci anni abbiamo smesso di essere tristi, prima c'era l'idea che per fare la musica alternativa dovevi essere un cazzo di preso male e vivere un vita di merda.

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Hey, ma quello è Generic Animal! Fotografia di Marco Previdi

C'è della presa male in ciò che fate, ma non è distruttiva. È una presa male presa bene.
Giovanni: Noi veniamo da quell'emo lì, quella nostalgia continua ed eterna.
Pietro: Il più grande riferimento su questa cosa sono i Cosmetic. Una roba sincera, spontanea, dolorosa, che ha a che fare con il mondo hardcore, ma in cui se devi essere sincero fino in fondo finisci con l'accordo maggiore e non quello devastante. C'è sempre, invincibile dentro di te, una cosa che resiste al nichilismo.

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Voi venite da Bergamo e Brescia: che cosa vi fa venire voglia di chiamare Milano "un posto di merda"? Nella fanzine parli del "grande nulla agricolo" e lo contrapponi alla "città-destino".
Pietro: È una citazione di un nostro amico regista e autore teatrale, Nicolò Valandro. Ha una serie di sketch di stand-up comedy che girano attorno al concetto di "grande nulla agricolo", e lui viene da un nulla ancora più grande del nostro: la bassa bergamasca è l'inizio di quel nulla che va a finire dove sta lui, tra Ferrara e Ravenna.

"Negli ultimi dieci anni abbiamo smesso di essere tristi, prima c'era l'idea che per fare la musica alternativa dovevi essere un cazzo di preso male e vivere un vita di merda."

Detto questo, per farla più semplice: come avete vissuto il trasferimento a MIlano?
Giovanni: Credo che nessuno di noi abbia avuto un abbraccio caldo dalla città. Tutti volevamo vivere qualcosa di nuovo per l'università, ma non è mai come la vuoi il quinto anno delle superiori. Ho capito che c'era qualcosa nell'odio per Milano posto di merda solo la prima primavera che ho vissuto in città.
Fabio: Io quando sono arrivato volevo cambiare, vivere una città grande. Veniamo da Sarezzo, ai piedi di una valle, alle superiori andavamo in città a Brescia, sapevo un po' cosa aspettarmi da una metropoli. Arrivare qua è stata quasi una riscossa personale. Ed è strano, perché le persone con cui ho passato l'adolescenza odiano Milano. Non c'è parcheggio, lo smog, i palazzi, che merda… è un sentimento che non ho mai avuto.
Pietro: Non è mai una critica alla città di per sé, è… una provincia interiore. E lo dici, rovini tutto, spieghi il disco dei Giallorenzo, e non è più interessante ascoltarlo. Per me c'è stato un rapporto sinusoidale: all'inizio sei preso bene, perché pensi che quando andrai a vivere con i tuoi amici a Milano cambierà tutto. Poi succede davvero e ci rimani di merda, perché è anche un periodo della vita in cui ti succedono anche altre cose. E quindi le sovrapponi alla città in cui vivi, e la odi per quello. Poi ti abitui, ti rendi conto di stare vivendo cose fighe e ti senti a casa. Magari girando per l'Italia poi torni a dire "Milano posto di merda", ma come dicevi "Bergamo posto di merda" all'inizio. Credo sia proprio questa sinusoide a spiegare il rapporto con le cose che sono davvero "casa".

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Fotografia di Marco Previdi.

Il rap accetta il brutto della città e lo glorifica, mentre la musica con le chitarre tende a scontrarcisi.
Pietro: Banalmente perché il rap viene davvero dalla merda di Milano. Noi siamo borghesi lombardi che usano la chitarra perché è un di più. L'unica cosa che Sfera Ebbasta poteva fare era il rap. È proprio un rapporto sociologico diverso.

E invece, tornando ai personaggi che raccontate: chi è il signor Perindani?
Giovanni: È un personaggio vero e conosciuto, e il testo è pura biografia.
Pietro: Fuori dal meme, è un signore che ha studiato filosofia in Statale negli anni caldi della vita universitaria. Non si è mai laureato, ha lavorato in ATM ma si reputa un grande matematico, filosofo e storico dell'arte. La sua vita, oggi, è girare per la città a fermare ragazzi alle manifestazioni o nelle università. È un complottista e ha varie tesi sul signoraggio bancario, sul plutonio nelle cose, sulle scie chimiche… ma soprattutto è convinto di aver trovato questo metodo che correggerebbe il calcolo proporzionale del rapporto tra eletti ed elettori nel parlamento, che secondo lui è sbagliato proprio nella Costituzione, anche se nella Costituzione non c'è. Poi dice che suo nonno ha disegnato la stazione Centrale di Milano, cosa anche probabile, e fa mega ridere perché in tutti i suoi volantini ha una firma in cui si definisce "specializzato in filosofia della relatività, studioso e critico d'arte, specializzato in pittura di mare." E che cosa vuol dire? Niente, è uno di quei grandi ideologi che si trovano in giro. Era anche a Lume mentre facevamo il soundcheck prima di un concerto.
Marco: Va detto che noi sappiamo il senso del nostro lavoro, che non è quello di insultare queste persone. Però magari lui stesso no, e anche uno che ascolta il pezzo magari ci ride e basta.

"Credo che la cosa più vicina al senso della vita che conosco sia l'essere amati. Ed è un riassunto di quello che vuol dire l'emo: non essere nostri fidanzati a vicenda, ma mettere in circolo le cose."

Chiudi la fanzine con una precisazione: "Se dall’incontro con questo documento doveste trarre una visione del mondo incentrata sull’esigenza affettiva, va tutto bene, è così che funziona. Siamo disponibili a condividere le nostre esigenze affettive, consapevoli che l’obbiettivo è vederle salvate, non risolte."
Pietro: Ho scritto quella fanzine che ero stato lasciato al telefono due giorni prima. L'unica attività che riuscivo a fare in biblioteca non era studiare o scrivere canzoni ma scrivere la fanzine, che quindi è nata in un momento di particolare sensibilità affettiva. Il momento magico in cui tutta la vita ti sembra collegata al fatto di essere voluto da una persona sola. Poi sai che non è vero, ma ci sono momenti in cui pensi che il senso della tua esistenza sia dato dal fatto che tu mi conosci. Credo che la cosa più vicina al senso della vita che conosco sia l'essere amati. Ed è un riassunto di quello che vuol dire l'emo: non essere nostri fidanzati a vicenda, ma mettere in circolo le cose. Perché è l'unico modo per guardarle in faccia per quelle che davvero sono. Cose che nessuno può risolvere, ma che posso condividere con tutti.

Chiunque abbia girato a Milano ha visto i graffiti su Kevin Ragazzo Superdotato, ma forse non tutti hanno avuto la fortuna di incontrare il Rasta che fa le foto.
Giovanni: Abbiamo anche una foto con il rasta che fa le foto, ma l'abbiamo pubblicata senza il suo viso.
Fabio: Io una volta me lo sono visto davanti, ai Tre Allegri Ragazzi Morti al Carroponte. È mega lento nelle cose che fa, ma è superdisponibile. Lui sapeva di essere conosciuto su Facebook, gli ho chiesto perché faceva le fotografie e lui mi ha risposto semplicemente "Massì, ogni tanto me le guardo". E la cosa bellissima è che dopo che gli abbiamo chiesto la foto, lui ha tirato fuori il suo cellulare in un sacchetto di juta e ha voluto fotografare la foto dal nostro cellulare.
Pietro: Immaginati l'archivio del rasta che fa le foto, se esistesse. Sarebbe l'opera d'arte più incredibile degli ultimi dieci anni di Milano. Credo ci sia tutta la mia vita da quando sono arrivato qua, in quelle foto.

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Fotografia di Marco Previdi

Parli di Milano come "La città più figa d’Italia”, ma la prima cosa che dici all'inizio della fanzine è “Siamo ragazzi sfigati”: ma davvero? Perché?

Pietro: I miei vecchi capi mi prendevano in giro sul nome "Milano posto di merda", tipo "il classico titolo da uno che non ce la vuole fare, pieno di risentimenti…" ma per me è proprio questo è il contenuto. Metterlo bianco su nero era un po' una paraculata, dire "Hey, persona che sta leggendo la fanzine, non guardare a questo titolo in modo provinciale. Leggilo con il distacco di chi sa bene che scrivere MILANO POSTO DI MERDA è solo un modo per affermare di essere sfigato tu. Non che tu sei superiore.
Giovanni: Un incipit umile, insomma. È che questo titolo per me ha un valore. Ti prende dentro, tutto in caps, con un luogo comune dell'indie italiano—la presa male, la metropoli, il piangersi addosso. Però quando lo apri non ti trovi una banalità, ti trovi una mina. È un po' come un titolo di VICE.
Pietro: A parte che è una scritta vera, nella stazione di Dateo. E la vediamo ogni giorno.
Giovanni: Non è stato tanto fare il titolo provocatorio, è stata una cosa che ci ha colpiti subito. Molti ci avevano scoraggiato, dicendoci che saremmo sembrati la band finta punk che dice "merda", gli adolescenti. Noi abbiamo subito insistito, perché dietro a quella scritta c'era un mondo accidentale che si è riflesso nel disco. Elia è su Instagram . Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.