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salute mentale

Cosa pensano gli analisti dei loro pazienti peggiori

"Il mio paziente più frustrante era talmente narcisista che mi irritava. Se la credeva tantissimo."
Illustrazione di Enzo Lo Re.

Chi non è un professionista nel campo della salute spesso si immagina l'analista come una persona disponibile e calorosa, che offre incondizionatamente il suo supporto emotivo e chiede costantemente ai suoi pazienti, "come ti senti?" Se molti psicoterapeuti e psichiatri scelgono il campo della salute mentale in quanto individui empatici e compassionevoli, non è detto che tutti abbiano un buon giudizio dei loro pazienti. Dopotutto sono esseri umani. Io stessa sono psicologa da 14 anni, e mi sono trovata di fronte a interazioni difficili con alcuni pazienti. E alle volte ho fatto fatica a comprendere le ragioni dei loro comportamenti e a essere professionale.

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È per questo che i pazienti difficili possono scatenare nell'analista a emozioni forti quali rabbia, frustrazione e ansia. E al contrario di quanto avviene nella vita reale, un analista non può esattamente chiudere il rapporto quando vuole. Sigmund Freud chiamava questo fenomeno proiezione. La proiezione è una specie di contagio emotivo. Avviene quando un paziente trasmette sentimenti indesiderati, e spesso negativi, all'analista. Per esempio, se il paziente è estremamente agitato o pessimista, a sessione conclusa l'analista può finire per sentirsi nella stesso modo.

Quando gli analisti provano questi sentimenti, devono capire come rispondere in modo professionale. Ho chiesto a quattro di loro—che hanno preferito rimanere anonimi—come si sono comportati con i pazienti più difficili. Alcuni tratti identificativi dei pazienti sono stati cambiati.

Brian, Portland

Avevo un paziente, un poliziotto in pensione, con un carattere particolarmente sgradevole. Non veniva alle sedute perché voleva che lo aiutassi dal punto di vista psicologico. Voleva che firmassi un documento ne attestasse la disabilità, dato che aveva dei deficit di memoria che credeva derivassero da un precedente infortunio. Ma i test neuropsicologici rivelavano un grave abuso di alcol, che spiegava i problemi cognitivi. Ho avuto la sensazione che mi stesse usando per fregare il sistema. Non sopporto il fatto di essere manipolato.

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Poi le cose si sono messe male. Mentre prendevo appunti sulla sua storia psicologica, ho chiesto al paziente se aveva mai assunto antidepressivi. Ha tirato in mezzo un suo vecchio analista, chiamandolo "un ebreo di New York che doveva morire nei forni a Auschwitz." Quella frase mi ha scioccato. Stava confermando gli stereotipi del poliziotto razzista.

Alle volte, venivo preso da fantasie particolarmente intense. Immaginavo di buttarlo fuori dal mio studio dicendogli che mia moglie era ebrea, e che avevo dei parenti morti nell'Olocausto. Anche se non mi sentivo in vena di aiutarlo, mi sono ricordato uno dei capisaldi del mestiere: i pazienti che mostrano personalità sgradevoli possono essere persone per bene che manifestano in modo particolare il loro dolore.

Anche se questo mi ha aiutato a trovare una certa dose di pazienza nei confronti di questa persona, nell'attestato di disabilità ho detto la verità. Il deficit di memoria del paziente non derivava in alcun modo dall'infortunio. Quando gli ho dato la sua copia, era furioso. Mi ha accusato di impedirgli di accedere al sussidio. La sua reazione mi ha dato un minimo di soddisfazione, ma mi ha anche fatto piacere il fatto che il mio disgusto verso la persona non avesse influenzato l'opinione clinica.

Denise, New Orleans

Il mio paziente più frustrante era talmente narcisista che mi irritava. Se la credeva tantissimo. Frequentava l'università, ma per qualche ragione ha dovuto smettere perché non aveva pagato qualcosa. Poi gli hanno dato la possibilità di finire e di ottenere la laurea. Gli bastava un ultimo esame. Non lo faceva.

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È entrato in terapia perché era depresso. E il narcisismo e la depressione si combattevano tra loro, perché da una parte sentiva di non essere motivato, dall'altra sentiva che non ne valesse la pena—come se non ne avesse bisogno. Da me, voleva che mi comportassi come sua madre.

Ho provato ad aiutarlo a rimettersi in sesto, perché passava intere giornate su Facebook o a giocare al cellulare. Non lavorava, non aveva introiti, quindi cercavo di convincerlo a mandare almeno due CV al giorno. Facevamo una lista insieme, a ogni seduta, delle cose che avrebbe dovuto fare. La settimana dopo veniva e non aveva fatto assolutamente nulla.

Poi gli è capitato di ottenere un lavoro per un progetto di graphic design. E parte di questo lavoro è stato inserito nel booklet del cd di un rapper. Continuava a parlare di questo tizio. Le persone molto narcisiste adorano essere associate a persone famose.

Al tempo stavo facendo l'internato, e a un certo punto mi hanno chiesto di scegliere le persone con cui continuare a lavorare. Io non volevo continuare a lavorare con lui. Il motivo per cui con il paziente sono riuscita a trattenermi è che sfogavo la mia rabbia con altri. I nostri supervisor, fin dall'inizio, ci hanno detto che, sia che si tratti di proiezione negativa o positiva, ne devi sempre parlare con altre persone.

Che il paziente ti piaccia—che alle volte può essere una cosa nociva come il suo opposto—o no, devi parlarne [con il tuo supervisor]. Assicurati solo di non fare niente che non dovresti fare. Parlavo di questo paziente tutte le settimane. Mi mandava fuori di testa.

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Adam, Columbus

Di tanto intanto, io stesso ho per pazienti degli analisti. So benissimo che non sono il loro supervisor e che non devo dar loro consigli su come trattare i pazienti. Ciononostante, gli analisti che sono anche pazienti spesso parlano del lavoro durante le sedute.

Uno dei miei pazienti, Mark, mi ha detto di essere rimasto scioccato da un suo paziente, un ragazzo di colore, che lo insultava continuamente. Mark mi ha detto di aver gestito questi insulti cercando di essere molto diretto con lui. Gli ho chiesto come pensava fosse secondo lui per un adolescente di colore affrontare una conversazione diretta e autoritaria con un uomo bianco. Ero curioso di sapere se avevano parlato delle differenze razziali.

Mark mi ha risposto, "Perché dovrei parlare di razza?"

Mi è caduta la mascella. Ero arrabbiato, e sono diventato rosso in faccia. Ho detto a Mark che così facendo risultava insensibile, e lui sembrava stupito da questa considerazione. Mi sono limitato al criticare il suo commento, senza dargli del razzista o attaccarlo direttamente, perché questo lo avrebbe fatto chiudere del tutto nei miei confronti. Piuttosto, ho detto, "Credo sia un'affermazione priva di tatto nei confronti delle persone di colore, specialmente gli uomini di colore."

Mark era completamente cieco di fronte a questa mia preoccupazione. Ho continuato a cercare di capire quale fosse la sua visione in tema di razza, potere e genere. Ma lui si è chiuso andando completamente sulla difensiva. Quando si è aperto un po' è stato solo per dire che era sicuro di star facendo un buon lavoro.

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Sarah, Seattle

"HD", un ragazzo di 17 anni, veniva da me perché aveva problemi di depressione e controllo della rabbia. Era diventato aggressivo con i suoi compagni di classe. Durante la nostra seduta iniziale, ho scoperto che aveva sempre avuto difficoltà nel fare amicizia. Era anche ossessionato da alcuni argomenti, e non sapeva controllare le emozioni.

Frequentava persone nocive. Per divertirsi, lui e i suoi amici spesso si bullizzavano a vicenda. Mi ha detto che si davano soprannomi e si prendevano in giro. Alla fine, questo comportamento era diventato così estremo che avevano cominciato ad aggredirsi fisicamente. Uno degli amici della compagnia era ebreo, e dopo uno scontro, HD aveva cominciato a fissarsi con i gruppi che negavano l'Olocausto.

Anche se sapevo che si trattava solo di un adolescente, la confessione mi ha stupita. Invece di criticarlo, gli ho chiesto di parlarmi di cosa lo affascinasse di quei gruppi negazionisti. Ha aggirato la domanda, ma ha detto che passava la maggior parte delle sue giornate online, a cercare argomentazioni contro l'Olocausto.

Usava le informazioni che trovava online per discutere con i suoi amici. Ha anche cominciato a dare soprannomi razzisti ai suoi amici. Mi era difficile ascoltare queste storie. C'era cattiveria, erano piene di aggressività e odio. Alle volte, provavo disgusto nei suoi confronti. Era difficile sedermi con lui e sentirlo mettere in dubbio l'esistenza dell'Olocausto. Ho anche pensato di interrompere la terapia.

Ma poi ho avuto una epifania clinica. Ho capito che era fissato con il negazionismo perché al tempo stesso negava di avere dei problemi mentali. Aveva passato la sua vita a sentirsi escluso, e invece di parlare del suo dolore, cercava di far sentire escluso il suo compagno, accusandolo di mentire sull'Olocausto.

Sfortunatamente, non voleva saperne della mia interpretazione. Da analista, ho dovuto accettare il fatto che alle volte non possiamo aiutare i pazienti, specialmente quando non vogliono essere aiutati. Alla fine è stato espulso dalla scuola.

Questo articolo è tratto da Tonic