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droghe

Chi è più incline a diventare tossicodipendente?

Le persone sono fatte di tre cose: geni, ambiente e caratteristiche individuali. E tutte e tre possono concorrere nello spiegare la dipendenza.

Nel maggio del 1971 due parlamentari americani, Robert Steele e Morgan Murphy, tornano dal Vietnam con una notizia piuttosto destabilizzante per il governo statunitense: secondo le loro stime almeno il 15 percento dei soldati fa uso di eroina. Questo dato è molto preoccupante per Nixon, le cui promesse sono terminare il conflitto in Vietnam e contenere l'alto tasso di criminalità domestico esacerbato dal boom del consumo di eroina negli Stati Uniti negli anni Sessanta. Viene immediatamente lanciata l'operazione "Golden Flow", letteralmente "flusso dorato", che prevede l'esame delle urine per tutti i militari di ritorno dal Vietnam e la successiva disintossicazione prima del reinserimento nella società americana. L'operazione Golden Flow è solo una delle iniziative della Special Action Office on Drug Abuse Prevention, il nuovo ufficio creato da Nixon all'interno del Dipartimento della Difesa e guidato dal dottor Jerome Jaffe. Nixon stanzia 14 milioni di dollari da dedicare al processo di disintossicazione dei veterani, e al tempo stesso, insieme a Jaffe, decide di condurre uno studio volto a indagare il processo stesso. Jaffe a sua volta affida la ricerca alla dottoressa Lee N. Robins, che nel 1973 pubblica i risultati della sua indagine.

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All'epoca, la dipendenza da sostanze veniva spiegata al 100 percento dalle proprietà farmacologiche della sostanza stessa: più gli effetti della droga in questione erano potenti, più la sostanza era vista come permeata da un'aura di pericolo ineluttabile che avrebbe inevitabilmente causato la dipendenza nella persona che ne faceva uso.

Ho scritto 100 percento perché è chiaro che esiste una differenza tra eroina e marijuana, ma studiare la dipendenza partendo da presupposti così dogmatici non serve a molto. La visione delle droghe come portatrici di un livello di pericolosità intrinseco e immutabile a prescindere dal contesto è stata superata in ambito neuroscientifico e clinico, ma è ancora piuttosto frequente nelle credenze popolari, e porta con sé corollari che hanno tutti un denominatore comune: l'individuo e le sue caratteristiche psicologiche, ambientali e genetiche vengono rimosse dall'equazione. Partendo da questo presupposto le sostanze dovrebbero sortire lo stesso effetto su chiunque, la disintossicazione sarebbe pressoché impossibile, e dalle sostanze leggere si passerebbe inevitabilmente a quelle pesanti.

È per questa ragione che i dati della Robins rivoluzionano il campo della ricerca sulla dipendenza: stando alle sue ricerche solo l'1 percento dei soldati che in Vietnam fumava eroina—era questa la modalità prevalente di assunzione—continuava a esserne dipendente una volta a casa; non solo, anche coloro che una volta tornati in America l'avevano riprovata di tanto in tanto sembravano non diventarne dipendenti. Ma allora come si spiega la dipendenza?

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In psichiatria e psicologia, per capire come si sviluppano i disturbi mentali si è arrivati a definire un termine molto utile: vulnerabilità . La vulnerabilità indica la predisposizione individuale a sperimentare determinati stati emotivi, psicologici e comportamentali che a loro volta possono aumentare il rischio di sviluppare un certo tipo di disturbo, compreso quello da uso di sostanze. Ma cos'è che ci rende vulnerabili a questo determinato disturbo? La risposta è complicata e allo stesso tempo intuitiva. Le persone sono fatte di tre cose: geni, ambiente e caratteristiche personologiche individuali. È importante specificare che la relazione che intercorre tra questi tre domini è dinamica e reciproca: detta nella maniera più semplice possibile, geni e ambiente si potenziano e influenzano a vicenda dando vita alla nostra personalità.

Il grado di vulnerabilità di ognuno di noi risulta dall'intreccio di questi fattori, motivo per cui è molto difficile studiare e produrre leggi universali per i percorsi evolutivi che portano a determinati disturbi. Per cercare di fare un po' più di ordine, possiamo suddividere questi fattori in due categorie: di rischio e di protezione. Ovvero: avere genitori tossici, traumi, ambienti socio-economici svantaggiati sono fattori di rischio, così come legami affettivi saldi o resilienza personale sono fattori protettivi. Fattori di rischio e fattori di protezione modulano la nostra vulnerabilità durante tutto il corso della nostra vita. Infatti vulnerabilità, fattori di rischio e fattori di protezione non sono mai dati una volta per tutti, ma assumono pesi diversi nel corso della nostra vita a seconda delle contingenze (ad esempio lutti, depressione o eventi favorevoli).

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In questo modello, quindi, la dipendenza è l'esito di un percorso individuale, in cui i fattori di rischio hanno pesato sulla vulnerabilità della persona più di quanto non abbiano fatto quelli protettivi, portando infine alla comparsa del disturbo.

DIPENDENZA E GENI Per un periodo durante il liceo sono andata da un simpaticissimo psichiatra. Il mio problema era che avevo dei repentini sbalzi di umore che a loro volta mi provocavano ansia e difficoltà a dormire, o forse viceversa, chissà. Comunque quando questo psichiatra ha saputo che avevo parenti affetti da disturbo bipolare mi ha dato un po' di consigli pratici che seguo tutt'ora: ritmi regolari, poca droga, dormire almeno sette ore al giorno. "Non sei bipolare, e probabilmente non lo sarai mai, ma magari sei suscettibile al disturbo a causa dei tuoi geni. Per prevenirne l'eventuale insorgenza—ipotesi forse remota, ma meglio prevenire che curare—devi regolarti e non mettere mai il tuo corpo e la tua testa in stati di iperattivazione".

Negli ultimi anni la scienza si è concentrata tantissimo per capire quale sia il peso della genetica nello sviluppo dei vari disturbi mentali, compresa la dipendenza. È stata studiata molto la familiarità per quanto riguarda l'alcol e la nicotina, sostanze legali e quindi più comuni. Negli studi sulla familiarità dei disturbi mentali, che si tratti di schizofrenia, depressione o dipendenza, quelli che hanno regalato più frutti sono quelli che hanno preso in esame i bambini adottati e i gemelli. Adozioni e studi sui gemelli offrono la possibilità di osservare che peso hanno i fattori ambientali e quelli ereditari nell'espressione di svariati comportamenti. Un bambino figlio di genitori alcolisti ma cresciuto in una famiglia sana e funzionale che probabilità ha di sviluppare una dipendenza da alcolici nonostante la protezione psicologica offerta dalla nuova famiglia? Due gemelli cresciuti in famiglie diverse e quindi sottoposti a diversi stili educativi e ambienti familiari esprimeranno le stesse caratteristiche di personalità?

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Grazie a questi studi, per quanto riguarda ad esempio l'alcol, si è arrivati alla conclusione che il peso dei geni spiega una percentuale che va dal 40 al 60 nel processo che porta alla dipendenza. La difficoltà sta nel capire come questo sia possibile. In che modo il nostro corredo genetico, una cosa che ci sembra così asettica e lontana dalla ricchezza delle nostre scelte, può farci diventare alcolisti?

In effetti ci sono due modi attraverso cui la genetica può influire sulla vulnerabilità individuale, uno diretto e uno indiretto. Quello diretto si basa sull'identificazione di caratteristiche genetiche responsabili di piccole variazioni neurobiologiche ereditarie. Queste variazioni possono avere a che fare, ad esempio, con la dopamina, un neurotrasmettitore il cui rilascio è influenzato da stimoli positivi: cibo, sesso, droga, like di Facebook. A grandi linee possiamo dire che la dopamina è legata al piacere e alla motivazione a cercare il piacere stesso. Alcuni individui possono avere meno recettori dopaminergici e quindi essere meno sensibili ai piaceri naturali che ne stimolano il rilascio; d'altro canto la droga è uno stimolo che provoca molto più piacere di un bignè e quindi un rilascio di dopamina maggiore. Questo meccanismo rende suscettibili le persone con questa carenza recettoriale a essere più inclini all'abuso di sostanze.

Il modo indiretto riguarda tratti temperamentali più ampi. Sono stati selezionati alcuni tratti caratteriali che si riscontrano spesso tra chi fa uso di sostanze, ad esempio la ricerca di novità o lo scarso controllo degli impulsi, che fanno sì che un individuo sia più predisposto alla sperimentazione da una parte, e al non sapersi fermare dall'altra. Naturalmente questi sono soltanto alcuni esempi e la realtà è molto più complessa di così. Il nostro genoma conta circa 3,2 miliardi di coppie di basi di DNA contenenti 23,000 geni. Numeri di questo genere rendono molto complicato studiare meccanismi di causa-effetto lineari perché minime variazioni di un gene possono creare effetti a cascata imprevedibili. Non solo, alcune di queste variazioni genetiche che ci rendono più o meno vulnerabili sono pesantemente influenzate dall'ambiente: il contesto in cui viviamo seleziona l'espressione genetica, la nostra biologia, e così facendo determina il nostro comportamento.

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Guarda il nostro documentario, Amore tossico in Galles:


DIPENDENZA E AMBIENTE

A un certo punto ho avuto un professore americano che divideva i suoi semestri di lezioni tra Italia e California. La prima volta che l'ho visto accendersi una sigaretta non mi sono trattenuta e gli ho chiesto come facesse a fumare anche a San Francisco, dato il forte stigma sociale esercitato sui fumatori negli Stati Uniti. Lui mi ha risposto che in California non fumava. Mai. Però, non appena messo piede sul suolo italiano comprava un pacchetto di Camel Light e lo fumava tutto in un giorno, continuando così fino al ritorno negli Stati Uniti. "Quando sono a San Francisco non mi viene neanche in mente di fumare."

L'ambiente è una delle caratteristiche chiave della dipendenza. Prima di tutto c'è la questione della disponibilità della sostanza: è evidente che se passi tutta la vita circondato da gente che ti offre cocaina, eroina o erba, le probabilità che una volta accetti di provare qualcosa sale vertiginosamente. In Vietnam l'uso di eroina era talmente diffuso che un militare racconta di averne ricevuta una dose non appena sceso dall'aereo in cambio di un barattolo di urina pulita.

Dopodiché bisogna pensare all'influenza culturale e alle norme che regolano la società in cui si vive. Il mio professore non fumava negli Stati Uniti perché non lì non era accettabile, e in quel caso la motivazione a non essere giudicati o stigmatizzati era più forte della nicotina. Infine c'è un altro fattore, quello dell'apprendimento. Molti studi hanno accertato che le sostanze assuefacenti giocano un ruolo chiave nel rinforzo della memoria associativa. Quando andavo al liceo mi accendevo regolarmente una sigaretta arrivata a un certo semaforo, non prima, non dopo. Ogni giorno per cinque anni. E ogni volta che torno nella mia città natale e sono ferma quel semaforo mi accendo una sigaretta. Le droghe sono molto efficaci nel creare e mantenere la connessione tra uno stimolo neutro—il semaforo—e l'assunzione della sostanza stessa.

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DIPENDENZA E FATTORI PSICOLOGICI E PSICOPATOLOGICI In psichiatria, per indicare la compresenza di due disturbi si usa il termine "comorbidità". La comorbidità, quando si tratta di salute mentale, è più la regola che l'eccezione. Secondo l'EMCCDDA (European Monitoring Centre for Drug and Drug Addiction) il tasso di comorbidità tra depressione e dipendenza da sostanze oscilla tra il 15 e l'80 percento, per i disturbi ansiosi si aggira attorno al 35, per i disturbi psicotici e bipolari tocca punte del 60. La relazione che lega disturbi mentali e droga è abbastanza intricata. Molto spesso non si capisce cosa sia venuto prima e cosa dopo, visto che le sostanze stesse hanno il potere di modellare il nostro cervello e di conseguenza i nostri stati emotivi e psicologici. In generale però, una svolta importante è stata rappresentata dal graduale cambiamento di ottica da cui osservare e studiare le tossicodipendenze e i tossicodipendenti stessi.

Per molto tempo l'assunzione di sostanze è stata associata a concetti quali la scarsa volontà, il carattere debole e la pigrizia da una parte, e la potenza stessa della sostanza (come abbiamo visto prima della Robins) dall'altra. Nel 1985 compare sul Journal of American Psychiatry l'articolo del dottor Dr. Khantzian dal titolo "The self-medication hypothesis of addictive disorders: focus on heroin and cocaine dependence." In questa pubblicazione l'autore espone l'ipotesi secondo cui l'abuso di sostanze può dipendere da un motivo molto semplice: la sofferenza, e il conseguente tentativo di alleviare il dolore da parte del tossico.
Questa ipotesi si sposa bene con alcuni dati che mostrano che nella maggior parte dei casi i tossicodipendenti si affezionano una determinata sostanza che tampona i tratti psicopatologici che provocano sofferenza: gli ansiosi prediligono gli oppiacei, i depressi l'alcol, e così via.

Ma in che modo le droghe possono tamponare gli stati emotivi? Da bambini, e poi da adulti, ci viene insegnato a gestire le emozioni negative e positive, ossia a regolarci. La regolazione consiste nel tollerare e modulare gli stati psichici e affettivi sia positivi che negativi.
A insegnarci questa abilità cruciale di cui tutti abbiamo bisogno—anche se mi rendo conto possa apparire piuttosto impalpabile—è l'ambiente in cui viviamo, l'accudimento genitoriale, il rapporto con i pari. Chi si prende cura di noi ci insegna a gestire l'eccitazione e la tristezza, a modularla e a tollerarla. Per chi non ha ricevuto questo tipo di esperienza la droga diventa proprio questo: uno strumento che aiuta a regolare i propri stati affettivi, a sentirli più o meno intensamente, a eliminare il dolore che non si riesce a tamponare da soli.

Per concludere, la dipendenza non è un fenomeno immobile e fisso nel tempo. Non si nasce con il destino segnato dalla genetica, ma si può essere vulnerabili a sviluppare una dipendenza, vulnerabilità che può essere modulata da fattori di varia origine.

I veterani della Robins assumevano eroina perché il tasso di disponibilità della sostanza era alto e il contesto nel quale vivevano era, ovviamente, stressantissimo. Una volta tornati negli Stati Uniti l'automedicazione non era più necessaria, la loro vita non era più appesa a un filo, l'eroina era meno reperibile e non c'erano più gli stimoli ambientali associati all'assunzione. Insomma, una volta a casa non erano più tossici.

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