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Musica

Quando Red Canzian ha incontrato se stesso

Italian Folgorati rivisita 'Io e Red', il primo album del rocker veneto tornato solista dopo la fine dei Pooh.

“Non basta essere uno dei Pooh per vendere dischi”.
Red Canzian, 1997

Sanremo è finito. Era ora. Purtroppo non per sempre, ma quest’anno si è sentito forse l’alito del canto del cigno posarsi definitivamente sulla manifestazione. Canzoni davvero inqualificabili, una ciofeca dietro l’altra, fatte quasi tutte con lo stampino.

Osserviamo il podio per avere una sintesi di questo sfacelo: al terzo posto, Annalisa. Bella voce, ma una canzone che ripete sempre le stesse cose, ovviamente d’amore, ovviamente tipica melodia da portare all’Ariston, una canzone scritta in modo volutamente classico per vincere Sanremo, e questo annulla immediatamente il suo possibile valore. Al secondo posto, Lo Stato Sociale. Gente che saltella vestita tipo Jovanotti primo periodo, ma più antipatica. Si portano dei vecchietti che ballano il r'n'r trasformandoli in casi umani da circo, con un pezzo stile disco anni Novanta nato già vecchio, infarcito da una critica pelosa alla nostra società dello spettacolo. Pelosa in quanto la domanda “perché lo fai” gliela vorremmo rivolgere noi per primi, visto il pulpito da cui parlano. E solo io penso che il ritornello sia identico a “Cassonetto differenziato" di Elio e le Storie Tese con l'aggiunta di un mix tra Carboni, Franco Fasano e qualche pezzo italo degli Ottanta a caso, quelli con i violini. A proposito di copia e incolla: come saprete la canzone vincitrice di Ermal Meta e Fabrizio Moro è un remake di "Silenzio" di Ambra Calvani, praticamente identica, cosa che per il sottoscritto avrebbe dovuto garantire l’eliminazione. Ma forse la canzone andava eliminata più che altro per il fatto di essere musicalmente nulla, una specie di scarto di fabbrica di Manu Chao: cosa che di per sé rovina un testo che avrebbe potuto essere decente se avesse evitato una certa dose di ambiguità piaciona. Ma è proprio questa a garantire i voti di chi vede con sospetto l'immigrazione quanto quelli dei "moderati" – un testo anti-terrorismo mette la musica in secondo piano.

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Ecco, in tutto questo carrozzone l’unico secondo me degno di nota è stato Red Canzian con "Ognuno ha il suo racconto". Per la prima volta da solo a Sanremo, si trova a dover gareggiare contro i suoi ex compagni dei Pooh (Facchinetti e Fogli) e li surclassa piazzandosi al 15esimo posto con un brano dal tiro epic metal, che come argomento non avrebbe sfigurato rispetto alla canzone vincitrice.

Perché se lì si rivendica una vita che va avanti superando i disastri della guerra in maniera astratta, nella canzone di Red si parla in modo autobiografico (“sopravvissuto son qui”) e si vince proprio la guerra con la vita quotidiana, pane al pane. Red mette a nudo la sua esistenza come quella di una vita al massimo, che ne ha passate di cotte e di crude: ma il ritornello recita che “ognuno ha il suo racconto” e il “suo esclusivo canto”, quindi alla fine è come se Canzian ridimensionasse la sua esperienza per fare spazio a quella degli altri, con una disarmante e inedita onestà. E allora perché non ha vinto? Beh, sicuramente a causa di una serie di pregiudizi rispetto al suo passato nei Pooh, ma anche perché il nostro sta facendo del RUOCK, unico a Sanremo, ed è quindi un pesce fuor d’acqua. Addirittura più rock dei Decibel, dai quali ci attendevamo grandi cose e invece si sono presentati con una specie di lato B. Ma soprattutto Red col rock ci è nato, non bluffa, ed è un ritorno alle radici che stupisce. La sua storia precedente all’entrata nei “Beatles italiani” parla chiarissimo.

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Red, all’anagrafe Bernardo Canzian, prolet figlio di camionista, si fa le ossa come chitarrista e cantante dei Prototipi, gruppo beat che nella seconda metà dei Sessanta gira per il trevigiano come molte band dell’epoca. A differenza di altri, Canzian viene notato dal produttore Pino Massara e da questo momento le cose cambieranno radicalmente. Sì, perché Pino Massara è lo storico produttore del Battiato sperimentale di Fetus e Pollution, proprietario dell’etichetta Bla Bla che ospiterà poi anche i lavori degli Aktuala e di Juri Camisasaca. In pratica Red Canzian diventa uno dei primi artisti di punta in assoluto della Bla Bla e Massara costruirà attorno alla sua carismatica figura (all’epoca Canzian aveva una bellezza particolarmente androgina) e alla sua voce personalissima una nuova band derivata dai Prototipi: i Capisicum Red (proprio dal gruppo nasce il nickname del nostro artista trevigiano).

I Capiscum sforneranno due singoli e uno, "Ocean", diverrà anche sigla di un programma Rai; nel secondo singolo, "Tarzan", c’è lo zampino di Battiato, oramai braccio destro fisso di Massara il quale non lesina in situazionismo, spingendo i Capsicum come una band anglo italiana quando di anglo non avevano che il nome. Per rendere la cosa più credibile arrivò addirittura a incidere "Tarzan" a Londra con un intero gruppo inglese, gli Stone The Crows, prodotti dal manager degli Zeppelin, la cui cantante Maggie Bell era considerata la Janis Joplin inglese e il chitarrista Les Harvey uno dei migliori della sua generazione (ahimè, il gruppo finì in tragedia: nel '73 Harvey rimase folgorato da una scarica elettrica durante una prova). Il successo dei Capsicum però non soddisfa le aspettative, che erano quelle di farli diventare un gruppo da alta classifica, mentre l’effettivo appeal del progetto è in realtà molto diverso.

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Infatti nel 1972 arriva la svolta: anche a causa delle novità d’oltremanica, i Capsicum Red diventano un gruppo prog a tutti gli effetti, con l’ingresso del bassista Paolo Steffan e del batterista Roberto Balocco, proveniente dai Panna Fredda, altro grande e misconosciuto gruppo prog dell’epoca. Con questa formazione esce Appunti per un’idea fissa, ancora oggi disco di culto soprattutto in Giappone. Appunti… è un disco che alterna momenti di prog duro ispirato ai King Crimson con un rifacimento in chiave rock di Beethoven e roba tesa e pesa come “Lo spegnifuoco”, ma anche momenti più psichedelico-intimisti come “Rabbia e poesia” (cover di un brano dei pionieri del rock israeliano Arik Einstein e Miki Gavrielov). Nel disco Battiato si fa sentire tantissimo, arrangiando con lo pseudonimo Ed De Joy ben tre brani, e nel disco si nota la stoffa del guitar hero Canzian, il quale tecnicamente non sfigura rispetto ad altri blasonati colleghi d’oltremanica. Ahimè, i Capsicum si sciolgono proprio dopo questo disco non riuscendo a fare breccia fra le maglie del music business, anche perché arrivano i classici problemi col servizio militare, e la band è costretta a fermarsi. Steffan, dopo l’esperienza country del duo Genova e Steffan, diventerà un session man ricercato (sarà l’affilata chitarra di Lamette della Rettore, fra gli altri), collaborerà con Pino Donaggio per le sue colonne sonore e disegnerà proprio il mitico logo dei Pooh.

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I Pooh sono il futuro di Red, ma lui ancora non lo sa. Una volta sciolti i Capsicum, Red per un periodo pensa persino di abbandonare la musica e di dedicarsi al cinema, partendo per Venezia e facendo un provino per Morte a Venezia di Visconti dove trova un Rosalino Cellamare (che ancora non si faceva chiamare Ron) accorso per il suo stesso ruolo. I due cominciano a parlare un po’ troppo di musica, tanto che alla fine Visconti non li prende. Non domo, Red ritorna quindi a suonare, questa volta con gli Osage Tribe, il progetto parallelo tribal free jazz di Battiato, che nel frattempo aveva deciso di lasciarli camminare con le loro gambe. Qui Red sostituiva egregiamente il grande pioniere rock Marco Zoccheddu alla chitarra. Ma improvvisamente, proprio dopo un concerto con gli Osage, arriva la telefonata dell’impresario dei Pooh.

Ora, la cosa strana di Red Canzian nei Pooh è che Red era un chitarrista, e che loro cercavano invece un bassista. La band e il rocker trevigiano si erano conosciuti durante un Festivalbar dei primi anni Settanta, quando i Capsicum promuovevano "Tarzan", si erano trovati in sintonia parlando di musica nel backstage e si erano scambiati i numeri di telefono. Red ricorda quegli incontri in questo modo: pensava che i Pooh fossero un gruppo all’acqua di rose, e invece appena comincia a scambiarci quattro chiacchiere si rende conto che i nostri non sono quello che sembrano, sono invece preparatissimi. Questo non significa automaticamente essere chiamato nella band, ma evidentemente i Pooh dopo 100 provinati stavano perdendo le speranze di poter sostituire Fogli, che oltre ad essere cantante era anche un muscolare bassista di stampo rock garage (nel '72 ancora suonava il basso con le dita direttamente sulla tastiera) ed era anche un bel ragazzo che aveva una grossa fanbase. Era necessario trovare qualcuno con le stesse caratteristiche e soprattutto con la stessa verve (da un certo punto di vista l’affaire di Fogli con Patty Pravo dimostra l’affinità fra i due, giacché Red farà la stessa cosa tempo dopo, tenendo però nascosta alla stampa la relazione per non mettere a repentaglio le due carriere con il gossip).

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Red sembra proprio fare al caso loro, ma all’appuntamento per i provini si nota subito l’abisso stilistico. Red si presenta con un pelliccione bianco, stivali rossi con zatteroni altri tre metri, capelli lunghi fino al culo… insomma, uno dei New York Dolls in libera uscita. I Pooh rimangono abbastanza scioccati, non tanto per il fatto che fosse così conciato, tanto per il fatto che la loro immagine aveva oramai preso una piega elegante, sicuramente più ”dandy”; il timore è che Red non si adegui allo statuto della band. Invece, durante il provino, Red si dimostra disponibilissimo, suonando davanti a un estasiato Facchinetti un suo pezzo originale. Viene subito preso nella band, e dopo solo sei giorni di prove lanciato in una tournée negli Stati Uniti.

Rimane il fatto che non fosse un vero bassista. A questo proposito, leggenda narra che Dodi Battaglia, guitar hero dei Pooh e senza dubbio uno dei chitarristi più veloci del West ai tempi, mentre lo accompagnava in macchina abbia promesso una cosa tipo “se con la chitarra sarai meglio di me, passerò io al basso”. Evidentemente Red perde la sfida, ma questo non gli impedirà di suonare la chitarra nei successivi dischi prog-oriented dei Pooh, ovvero Parsifal e Un po’ del nostro tempo migliore, esprimendosi in lick e assoli sporadici. Riguardo al basso, decide di customizzarne uno usando un manico più stretto di modo che fosse simile alla chitarra, sviluppando uno stile al contempo melodico e nervoso nei fraseggi. Quella di customizzare i bassi è una fissa di Red, che in tempi recenti svilupperà anche un modello di basso fretless a cinque corde per la Laurus assolutamente innovativo: le prime tre corde basse hanno i tasti fino all’ottava posizione per accompagnare in modo preciso, mentre le altre due sono libere per gli assolo. Leggenda vuole che sia stato proprio lui il primo a eseguire un solo di fretless in un disco pop italiano, tra l’altro dopo aver visto Jaco Pastorius in azione con i Weather Report in America. Il fretless se lo costruirà a mano staccando i tasti da un normale basso Gibson, riempiendo le fessure di vernice per barche (probabilmente la stessa che usavano Jaco e Patrick Djivas della Pfm, altro pioniere dello strumento).

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A tutti gli effetti l’entrata di Red nei Pooh è stata fondamentale per la svolta sinfonica. Svolta che già era in lavorazione con Fogli, ma se osservate i video di repertorio del periodo noterete che i brani erano molto pesanti, quasi indigeribili. Il che, per un gruppo con i piedi nel mainstream, avrebbe significato un immediato suicidio commerciale e l’impossibilità di essere accettati sia in ambito underground che di classifica. Invece Red in qualche modo aiuta a equilibrare la faccenda e a creare un nuovo tipo di musica, che in qualche modo supera il prog pur mantenendone gli elementi (e i Radiohead ringrazieranno). Nonostante questo, e nonostante in sede di arrangiamento sia (insieme a Dodi) l’elemento che fa la differenza, Red come compositore nei Pooh verrà allo scoperto solo nel 1977, con la struggente “Il suo tempo e noi” da Rotolando respirando. Da questo momento i suoi brani nei dischi della band saranno uno per album e non di più: solo negli anni Novanta riuscirà a spezzare l’egemonia di Facchinetti, a tutti gli effetti autore principale delle musiche del gruppo. Durante gli anni ottanta comunque Red non è rimasto a guardare, anzi: covava la sua rivincita come autore, conservando nel cassetto bozze di brani che, nel 1986, comporranno il suo primo disco solista, Io e Red. Italian Folgorati ha deciso di approfondire questo lavoro ingiustamente sottovalutato che contiene invece degli autentici gioiellini di pop biancorossoeverde.

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Io e Red nasce in un particolare momento storico: il passaggio dai Morning Studios di Carimate agli ex studi Sugar di Caterina Caselli a Milano. Nel 1983 infatti Red aveva acquistato insieme a Renato Cantele gli Stone Castle Studios di Carimate, ribattezzandoli e potenziandoli con strumentazioni all’epoca innovative per l’Italia, tanto da diventare un punto di riferimento per quasi tutte le produzioni della penisola. La nuova sede milanese diventa ancora più potente e fucina di sperimentazioni applicate proprio a Io e Red.

Il titolo è ispirato a Io, album di Delia Gualtiero, cantante pop compagna di Red e da Red prodotta, come a sottolineare una continuità fra i due progetti. La cosa interessante è che il disco pullula di ospiti illustri: a parte la suddetta Delia si passa da Paolo Conte a Roberto Vecchioni, da Loredana Bertè a Mauro Spina, da Enrico Ruggeri a Mitch Foreman della Mahavishnu Orchestra e Bill Evans, storico sassofonista di Miles Davis. Ci sono anche due amici storici: il braccio destro di sempre Marco Tansini, già chitarrista su Ivan il Terribile di Ivan Cattaneo e per svariate produzioni italo disco come Valerie Dore, e Nunzio Fava, batterista degli Osage Tribe. E, ovviamente, gli altri Pooh partecipano in massa alle session, firmando anche i testi (Negrini e D’Orazio nella maggioranza dei casi). Nonostante quest’ultimo particolare, per lo stile dei Pooh in questo disco non c’è grande spazio, anzi: il melting pot di musicisti di diverse estrazioni produrrà un risultato unico.

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Si capisce subito che l’aria è diversa col primo brano, "D’Artagnan", un missile di pop digitale con venature hair metal e funk tipo Cosmetic, che vede ai testi un Paolo Conte particolarmente ispirato nel narrare una storia di seduzione femminile a base di “tè bollenti molto piacevoli” che sottintendono pozioni magiche, droghe orientali, tresche nascoste, una sensualità stordita che si adatta perfettamente alla musica di un Red che sembra lanciato nella modernità (in questo molto vicino a Battaglia, il cui disco solista di stampo rock era uscito proprio l’anno prima). Pochi fronzoli, insomma. Red si presenta dal vivo con il piglio di un Brian Ferry italiano, camicia e cravatta nera stile Knack o in alternativa giacca, t shirt bianca e blue jeans alla Men At Work. Uno di noi insomma.

Il secondo brano del lotto è un altro momento magico e ispirato che vede insieme per la prima volta Canzian e Ruggeri, il quale veste la musica di Red con un testo quasi da “cinema verità”, descrivendo la malinconia di un musicista continuamente on the road che alla fine si trova semplicemente… solo. “Capita a volte che ci si trovi soli” è una confessione di fragilità, fra avventure di sesso che durano un minuto, frane psicologiche in avvicinamento, e anche bad trip che non scendono – “capita a volte che poi si rimanga fuori”, letteralmente. L’unico modo per sopportare tutto questo è l’accelerazionismo in tempi non sospetti: “se la vita è veloce/basta correre un po’”. Forse una delle più belle canzoni di Red, sembra uscita dal repertorio degli A Flock Of Seagulls per chitarroni liquide e atmosfere new romantic.

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“Tu no” vede al testo il compagno di sempre Negrini, per una storia di disagio sentimentale, un amore finito di cui si aspetta un ritorno improvviso, perché la vita che si vive è “un assegno scoperto”. Qui vediamo il feat. di Loredana Bertè, che divide vocalmente il ritornello con Red e una volta ne divideva anche il letto, essendo stata la sua compagna per un certo periodo (il caro Red si è sempre distinto per essere un amante silenzioso; oltre a Patty Pravo e la Bertè contiamo anche Mia Martini, Serena Grandi e Marcella Bella… non male). Il pezzo quindi assume una certa valenza autobiografica nella frase “siamo scuciti e non strappati via”. Andazzo a metà fra i Police e gli Yes periodo “Owner of a Lonely Heart” che non disdegna bassi slappati alla Stanley Clarke, uno dei miti musicali di Red di sempre. Il rock quindi sembra un punto di riferimento fisso, ma non solo.

Ed infatti ecco che Red cambia atmosfera, infilandosi nel cool jazz con fumose suggestioni alla Sade. ”Con gli occhi chiusi” prevede un cabaret di sassofoni e il fretless caratteristico di Red che aprono a una storia d’amore che sta per iniziare, un incontro a due in cui ci si studia e che forse non porterà a nulla. Stavolta Canzian cambia ruolo e si concentra sul testo, mentre la musica è di Tansini. Non è la prima volta, poiché come produttore di Genova e Steffan nel 1976 il nostro Red scrisse il testo di “Dimmi”. Il quadretto è elegantissimo e incorniciato dalla voce di Betty Vittori, ovvero la cantante dei Flying Foxes, band jazzwave italiana che la Polygram tentò di lanciare sul mercato inglese negli anni Ottanta (il loro batterista, Beppe Gemelli, tra l’altro, suona anche in alcuni brani di Io e Red). Conclude il tutto un finale impro jazz che ricorda i momenti dello Sting periodo “Englishman in New York” (Bill Evans docet).

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Il pezzo successivo vede invece al testo Roberto Vecchioni, onestamente non proprio ispirato: svolge il compitino e nulla più, forse non si trovava a suo agio con questo reggae leggero come una piuma, in cui spicca un coro di bambini. Questo particolare, nel 90 percento dei casi, implica che il pezzo è una merda (è riuscito solo ai Pink Floyd di poterlo inserire in una traccia senza sfigurare). Però se pensate che i Daft Punk l’hanno fatto pure loro… Forse la cosa più rilevante del brano è che a un certo punto tutto si trasforma in un pezzo fusion che ricorda proprio il Pastorius di Word of Mouth e si nota l’uso dei fiati, che poi diverrà una costante nei successivi due dischi dei Pooh (ovvero Giorni Infiniti e Il colore dei pensieri). Per il resto trattasi di un piccolo scivolone.

Ma ripartiamo di slancio: l'apertura di "Canzoni per mestiere" ricorda gli Ultravox, con tanto di early reflection sui cori, poi a un certo punto diventa un rockaccio stile Survivor/Europe e nel ritornello invece appare lo spettro dei Visage. Allargamento sonoro con batterie a pad elettroniche e momenti Style Council. Il testo parla appunto della vita musicale di Red, autobiografico ma senza dubbio universale nello spirito poiché l'autore è D’Orazio, sempre attento a muoversi con i piedi per terra. È una sorta di “Ognuno ha il suo racconto” ante litteram, anche se più complesso a livello di cambi di stile in una sola traccia. Il finale vede addirittura un assolo di piano che riporta a certi esperimenti di Bowie, assolutamente storto (e lo suona Facchinetti, mica Mike Garson).

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Ed eccoci a una delle migliori canzoni del disco, probabilmente (oso) una delle più belle della canzone italiana. “Una stagione di un giorno” è una perfetta simbiosi fra Red e Negrini, il quale dipinge a tinte pastello un amore consumato in fretta fra i fumi di un’Italia industriale e sensazioni “oltre le strade della mia anima”. Con un meraviglioso intro di violoncello e una batteria elettronica TR808 in primo piano, il pezzo è una specie di versione wave di “What a wonderful world” di Sam Cooke, un picco poetico in cui il pop diventa d’autore in maniera commovente.

“Le strade vuote e qualche luce qua e là, anime accelerate, è un grande schermo la città”: inizio alla Blade Runner, per un pezzo tirato pieno di shred chitarristici e chitarre synth (opera di Dodi) e giri simil cyberpunk, la cui ispirazione mischia gli Yes di Drama ad arrangiamenti di fiati rhythm and blues. Un po’ Eurythmics se vogliamo in questa commistione di nero e bianco, prevede un testo che è un’ode al Messico e al Sud del mondo, scritta da Miki Porru: per il suo andazzo sonoro sarà scelta da Gianni Minà come sigla di Una vita da goal (e d’altronde era tempo di mondiali messicani..). Da notare il cameo di Cucciolo aka il solito Nunzio Fava, che ricordiamo anche come batterista dei Dik Dik, alla batteria elettronica Simmons. Un pop digitale schizzato verso il futuro perché il rock non si può fermare, figuriamoci lui.

E ovviamente non poteva mancare il ballatone romantico all’americana, che vede protagonisti Delia Gualtiero e Red Canzian. La coppia, aiutata dai testi di Negrini, narra la propria vita privata mettendosi a nudo di fronte al pubblico. Un brano che potrebbe ricordare certi periodi Eighties di Stevie Wonder, è pervaso dal fretless di Red. Un momento “city pop” che avrebbe potuto sbancare in Giappone (d’altronde l’anno prima i Pooh se ne uscivano con Asia non Asia e le influenze nipponiche sono evidenti).

Ma ecco il gran finale: "Frontiere" è un pezzone in cui ancora una volta la sinergia Canzian-Negrini funziona alla grandissima. Negrini disegna uno spaccato poetico contro le frontiere, che vanno spalancate anche e soprattutto perché viaggiare vuol dire ritornare, prima o poi. L’argomento per Negrini non è nuovo (molte tracce dei Pooh approfondiscono questo discorso della frontiera come limite da superare a tutti i costi), ma qui sembra girare con una leggerezza che paradossalmente suona epica: “Occhi d'ombra, di tango e mari / ho visto stanze da una rupia / la gente stanca, come tamburi / ho visto il samba e la polizia le bandiere nell'alba dell'Est / io lontano da dove da chi / Frontiere su frontiere il corpo nasce e va / fra l'innocenza e il mondo i sogni e le città / Frontiere su frontiere che cosa c'è più in là”. Un pezzo che suona quasi kraftwerkiano nelle melodie (ma strizza anche l’occhio ai Pink Floyd di “The Hero’s Return”), con un Mauro Spina in formissima alla batteria riempita di eco, sequencer che rotolano, la voce della Gualtiero campionata, finale impro afrofuturista con un Red al basso più funky che mai e accenni orientali nei sintetizzatori maneggiati da un Mitchell Forman in grande spolvero (evidenti i rimandi ad Asia non Asia). Red come Herbie Hancock in pratica, altro che Sound-System.

Io e Red non raggiunse all’epoca buone posizioni di classifica, fermandosi al 69° posto fra i più venduti dell’anno, sotto a Paul Young e sopra ai Beehive di Kiss Me Licia (!). I Pooh, invece, nello stesso anno arrivarono al 16° posto, ragion per cui Red deciderà di lasciare questo episodio come un caso isolato, concentrandosi sulla band e sulle produzioni conto terzi. Il secondo disco solista, “L’istinto e le stelle” verrà, infatti, alla luce solo nel 2013, quando la band è alla fine della sua storia. Anche qui ci sono ospiti speciali come Ivano Fossati e Paul Manners, ovvero l’uomo che svecchiò i Cugini di Campagna portandoli verso una NWOBHM versione pop.

Ma il vero rock di Canzian deve ancora arrivare e speriamo che il nuovo album Testimone del Tempo, uscito oggi, ci veda appunto testimoni di un Red pronto a sfidare i Green Day (che sono uno dei suoi gruppi preferiti, tra l’altro). In effetti un musical tipo "Italian Idiot", con a capo il nostro eroe, potrebbe essere una gran ficata. D’altronde “Ne han dette di balle gli specchi / Ne han visti di imbrogli i miei occhi / Bruciati dal vento“.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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