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"Cosa ci dice quella carezza"? Che una certa narrazione sullo sgombero di piazza Indipendenza fa schifo

La foto virale del poliziotto che accarezza una rifugiata durante lo sgombero a Roma non può bastare a nascondere le violenze.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Screenshot via Corriere.it

A volte, in occasione di manifestazioni di piazza o di particolari eventi sociali e politici, spunta una foto-icona che i media fagocitano all'istante e su cui si imbastiscono determinate narrazioni. Negli ultimi anni—restando sull'Italia—mi vengono in mente due episodi specifici: l'abbraccio tra due manifestanti sull'asfalto durante gli scontri a Roma del 12 aprile 2014, e il "bacio" tra una No Tav e un poliziotto nel 2013.

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Probabilmente le ricorderete anche voi. La prima foto (che è diventata persino una statua) era stata rimasticata ed eretta a simbolo della giornata, con tutto l'immaginario annesso dell'"amore in mezzo alla battaglia" e cose di questo genere. Tuttavia, sia Yara Nardi—la fotografa che ha catturato quel momento—che la manifestante ritratta hanno rifiutato l'uso che è stato fatto di quell'immagine. Nardi, infatti, ha spiegato che "ci hanno costruito sopra una storia romanzata," e che "la tenerezza suscitata dallo scatto" ha costituito una "scorciatoia giornalistica per dividere i buoni dai cattivi."

Un meccanismo analogo si è innescato in relazione all'altra foto che ho menzionato. La cornice è quella di una manifestazione in Val di Susa tenutasi il 16 novembre 2013. Nina De Chiffre—questo il nome della manifestante—si avvicina a un poliziotto in assetto antisommossa e lo bacia sulla visiera del casco. La Stampa commenta subito quell'immagine con una retorica così stucchevole che, al confronto, Susanna Tamaro può essere scambiata per il marchese De Sade:

Lei è una brunetta, un volto da francesina, una disadorna frangetta di capelli, gli occhiali, un orecchino punk, le mani sottili con cui accarezza il casco dell'agente di polizia, che bacia sporgendo le labbra. Lui ha un volto tenero, e socchiude gli occhi ancor più teneramente, come se credesse davvero a quel bacio. Anche noi ci crediamo.

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In realtà quel "bacio" non era un vero bacio, né tantomeno la prova della pacificazione tra No Tav e polizia. Tutt'altro: era una provocazione, un "gesto di disprezzo" che all'autrice è costato una demenziale denuncia per "violenza sessuale." Ma la foto-simbolo, appunto è rimasta così, sospesa in una dimensione tutta sua. E questo, come ricorda Michele Smargiassi nel suo blog Fotocrazia, è precisamente il problema delle icone: "Distruggono il contesto e lasciano solo generici sentimenti universali, innocui e senza storia, trasformano il documento in monumento."

La valutazione di Smargiassi si applica perfettamente anche a un'altra foto: la famigerata "carezza" dell'agente alla rifugiata eritrea, a margine del violento sgombero di piazza Indipendenza a Roma. L'abbiamo vista tutti, perché da ieri rimbalza follemente su televisioni, giornali, siti e bacheche Facebook.

Ecco: io quella foto non riesco a vederla. Non ce la faccio più. Sono quasi arrivato a un livello di repulsione fisica.

Ora, sulla foto in sé e per sé non c'è nulla da dire: è scattata al momento giusto, è potente, è evocativa. Il problema non è la foto, né il fotografo che ha svolto egregiamente il suo lavoro; i problemi sono intorno a questa foto, e sono diversi. Il principale è il frame che si è costruito sopra a questo scatto, ben esemplificato da questo passaggio contenuto in un articolo su Repubblica: "Un momento di luce nel buio di Roma nel pieno degli scontri."

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Un commento apparso sul Corriere della Sera si spinge oltre, arrivando sostanzialmente a equiparare i due soggetti: una donna disperata per essere stata sgomberata insieme ad altri rifugiati; e il poliziotto che, "finito il suo lavoro che non si discute, si rende conto di tutto questo e non trova altro mezzo che stabilire un contatto fisico, una carezza, un tentativo di consolazione." Una struggente scena di umanità, su cui svetta il buon Freud: "c'è stata un'aggressione, ora occorre un segno d'amore."

Vittorio Sgarbi, con la lucidità che lo contraddistingue, ha parlato di "carezza" che sembra un quadro ma che in realtà è uno "schiaffo ai buonisti anti polizia." Su Twitter, invece, un esponente del Partito Democratico ha accompagnato la foto con una canzone di Giorgio Gaber e l'invito a ripartire "da questo incontro."

Tutti uguali, tutti messi sullo stesso piano. Dopotutto, non siamo umani? Se qualcosa va male basta discuterne, e basta un semplice gesto per ritrovare la nostra umanità.

Giusto, no? Be', no. Neanche per il cazzo.

E qui arrivo a un altro problema che si trascina dietro la narrazione su questa foto. Essendo stata elevata a unico simbolo visivo della giornata—o almeno, a quello più spendibile mediaticamente—l'effetto è di occultare e rimuovere tutto il contesto di violenze poliziesche che si è visto in piazza Indipendenza: idranti sparati contro gente che dormiva a terra, manganellate che hanno causato decine di feriti, un'autentica caccia all'uomo intorno a Termini, intimidazioni a giornalisti, e frasi come "Devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio."

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Stranamente, infatti, foto come questa qui sotto non sono assurte a simboli della giornata—a meno che non si riesca a scorgere la poesia dell'arcobaleno sulla sinistra.

Sgomberato il campo delle violenze, dunque, la storia costruita intorno a questa foto si appiattisce sul "gigante buono che accarezza una donna africana in lacrime" (non me lo sto inventando, l'ha scritto sul serio il Corriere della Sera). Una formula che suggerisce come da un lato ci sia l'angelo in divisa che rincuora ("servire e proteggere", no?), e dall'altro una povera vittima che trova conforto tra le braccia di chi—e qui non può sfuggire a nessuno il grottesco paradosso—ne ha determinato la condizione.

La "vittimizzazione" costante di rifugiati e migranti—un atteggiamento che accomuna un po' tutti, anche a sinistra—è un altro aspetto che trovo odioso. Vista sotto questo aspetto, la foto-simbolo spoliticizza tutto quello che è successo dal 19 agosto a oggi.

Quella di via Curtatone, infatti, era un'occupazione interamente autogestita da rifugiati—per la maggior parte eritrei ed etiopi—che vivono in Italia da molti anni. Loro avevano occupato; e sempre loro, di fronte allo sgombero, hanno resistito per giorni, valutando le alternative (ridicole e inefficaci) proposte dalle istituzioni, decidendo autonomamente il da farsi, e prefigurandosi anche uno scenario di scontri.

E questo perché, appunto, non si tratta di figurine manovrate o infiltrate da chissà chi; ma di soggetti che agiscono politicamente. Come ha detto uno degli occupanti a Internazionale, "Abbiamo fatto la guerra d'indipendenza, siamo scappati da una dittatura, abbiamo attraversato il Mediterraneo, resistiamo e andiamo avanti."

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La stessa donna ritratta ne esce come una specie di figurina, un archetipo dal sapore colonialista (la donna nera accudita dal "gigante" bianco, appunto). Peccato che Genet—rifugiata eritrea di 40 anni—abbia rifiutato quella caricatura, e affrontato i veri nodi che sottostavano ai fatti di piazza Indipendenza.

In un'intervista all' Huffington Post ha messo in chiaro che la trattativa non ha portato a nulla perché non ci sono mai state soluzioni praticabili sul tavolo, e poi ha parlato dell'elefante nella stanza—ossia il rimosso coloniale: "Per 55 anni gli italiani sono stati in Eritrea, ma non gli abbiamo fatto fatto quello che ci state facendo voi italiani. Non abbiamo neanche lo spazio per seppellirci."

Genet ha infine smontato del tutto il carico simbolico di quella foto: "La usano per mostrare la faccia bella di questa storia, ma la verità è che la polizia ci ha spruzzato l'acqua addosso. Siamo stati buttati via come una scarpa vecchia."

Insomma: la melassa che gronda dalla narrazione su quella foto non può e non deve ricoprire le violenza fisiche, nascondere le responsabilità politiche, e farci sentire meglio perché—in mezzo al caos e alla vergogna—un essere umano ha toccato un altro essere umano.

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