Cultura

Gli italiani partiti per vedere il bus di 'Into the Wild' prima che lo rimuovessero

Per questioni di sicurezza, il Magic Bus à stato portato via dallo Stampede Trail. Abbiamo parlato con uno degli ultimi italiani che è partito per vederlo.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT
bus into the wild alaska
I cinque italiani arrivati al bus a febbraio. Foto per gentile concessione dell'intervistato (non presente nella foto). 

A metà giugno in Alaska un elicottero ha agganciato e portato via il “Magic Bus”, il mezzo dove nel 1992 morì, dopo aver ingerito dei semi velenosi, un giovane della Virginia che appena laureatosi aveva lasciato tutto per vagabondare negli Stati Uniti. La storia di Christopher McCandless ha ispirato il libro del giornalista Jon Krakauer Into The Wild e l'omonimo film del 2007, ma con gli anni ha anche invogliato un sacco di gente a partire per visitare il bus, abbandonato al termine di un impervio sentiero fin dal 1961.

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Parallelamente, soprattutto nell’ultimo decennio, attorno ai pellegrinaggi si è sviluppata una narrazione giornalistica sui casi di turisti—molti, e spesso impreparati—finiti nei guai o morti lungo il percorso. Nel febbraio 2019, per esempio, la 24enne bielorussa Veranika Maikamava è annegata cercando di guadare il fiume Teklanika.

La rimozione del bus, da qualunque punto si guardi, ha quindi sancito la fine di un’epoca, o perlomeno le escursioni nel leggendario Stampede Trail per come le conoscevamo. "Comprendiamo la presa che questo autobus ha avuto sull'immaginario collettivo," ha dichiarato Corri Feige, commissario per le risorse naturali dell'Alaska. "Tuttavia, questo è un veicolo abbandonato e in via di deterioramento che richiedeva sforzi di salvataggio pericolosi e costosi. Ancora più importante, è costato la vita ad alcuni visitatori."

Il gruppo di Valerio Tauro, italiano di 32 anni, è stato tra gli ultimi a vederlo quindi nel suo "habitat". Valerio gestisce una società di servizi e con altri amici appassionati di trekking organizza viaggi immersivi piuttosto lunghi; a febbraio 2020, prima del lockdown, aveva percorso con loro lo Stampede Trail.

Di quell'escursione avevano parlato diversi articoli americani e italiani, perché un loro compagno, David, si era svegliato con un principio di congelamento, richiedendo l'intervento dei ranger. Dopo quel fatto, proprio Valerio ci aveva contattati per raccontare la sua versione. L'abbiamo risentito in questi giorni, per capire cosa spingeva la gente a recarsi al bus e se la sua rimozione cambierà tutto.

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VICE: Ciao Valerio. Il Magic Bus è stato rimosso, ma cosa ha spinto per anni un sacco di gente ad andare a vederlo?
Valerio: Più che il Magic Bus in sé, è l’esperienza nel complesso: il percorso per arrivarci, la natura che non ha eguali, le prove che devi affrontare, quello che succede nella tua testa. Molti minimizzavano l’esperienza, si chiedevano "Perché la gente parte per vedere quel rottame?,” ma magari non si sono nemmeno documentati, hanno visto mezza volta il film. Ovviamente è indubbio che alcuni l'abbiano fatto per “moda”, ma non bisogna giudicare a priori.

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La A3 che porta ad Healy.

Come vi siete preparati per l'escursione?
Noi abbiamo iniziato a progettare il viaggio all’incirca un anno prima, buttando giù un planning riguardante spese, preparazione atletica e attrezzatura da comprare prima della partenza o affittare in loco.

Ci siamo allenati anche a patire un po’ il freddo, a uscire senza giacca, a fare spesso docce gelide, e con sei mesi d’anticipo abbiamo prenotato un volo da Roma: siamo atterrati prima a Dublino e a Seattle, per poi prendere un altro volo per l’Alaska, destinazione Anchorage. Tutto il viaggio, nel complesso, ci è costato circa 1600 euro a testa.

Mi dicevi che per questi tipi di viaggi è meglio affidarsi a qualcuno con esperienza. Tu la prima volta, nel 2018, ti sei affidato al tuo amico e youtuber Mente Nomade, ma arrivati quasi all'inizio del percorso avete dovuto rinunciare.
Sì, ce lo hanno confermato i cacciatori del posto che abbiamo incrociato al tempo: quel settembre era stato più piovoso del solito. Ci sono stati punti del percorso in cui l’acqua mi è arrivata all’ombelico, e arrivati a sette chilometri dall'inizio siamo dovuti tornare indietro.

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Una foto dello Stampede Trail allagato. Settembre 2018.

A febbraio di quest'anno invece con un gruppo diverso abbiamo noleggiato una macchina e fatto tappa ad Healy. Lì abbiamo preso un appartamento per tre notti, sia per lasciare pesi inutili che per dare la possibilità a chi non se la fosse sentita di tornare.

Siamo partiti con panini, barrette energetiche, fagioli, termos con tè caldo e abbiamo affittato tenda, tappetini, slitte, sacchi a pelo e un repellente per orsi. Avevamo un Gps con un telefono satellitare, e due sos—infine, abbiamo avvisato i ranger della nostra presenza e delle tempistiche della nostra escursione. Ogni dettaglio era fondamentale.

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I sette ragazzi sulla macchina appena noleggiata.

Quale era il programma per lo Stampede Trail?
L'idea era di farlo in due giorni sfruttando le ore di luce. Ci volevano 32 km per arrivare al bus, e altrettanti per tornare. Alla prima sera siamo arrivati tra i due fiumi del tracciato—il primo, quello piccolo, è il Savage, il secondo invece è il Teklanika. Il giorno dopo, però, mi sono svegliato con uno stiramento all’inguine che mi ero causato tirando la slitta.

Dato che in questi casi la prudenza non è mai troppa, ho deciso di ritirarmi. Lo stesso ha fatto un altro del gruppo. Sono rimasti in cinque. Hanno continuato, superato il Taklanika, liberato dalla neve un’area accanto al percorso, montato il campo e raggiunto il Magic Bus.

Ed è lì che poi sono dovuti intervenire i soccorsi.
In pratica il nostro amico David, nonostante fosse stato molto attento, si è svegliato con l’alluce gonfio a causa di un gelone. Non riusciva a mettere lo scarpone. Il resto del gruppo avrebbe potuto metterlo su una slitta e riportarlo indietro. Però sarebbero passate altre 30 ore, quindi perché rischiare? Hanno chiamato i ranger, che sapendo fossimo partiti in tanti, sono arrivati con diverse motoslitte e hanno dato un passaggio a tutti.

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La nostra storia è stata fortemente esagerata dalla stampa—hanno detto che ce l'eravamo vista brutta o che ci eravamo persi. Ma riprova che tutto fosse sotto controllo, prima di tornare in Italia siamo andati a visitare il ghiacciaio Matanuska, che dista cinque ore da Healy.

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David e il resto del gruppo all'interno del bus.

Come hai preso la notizia della rimozione del bus?
Cerco sempre di dare un senso ai miei viaggi e i due fatti in Alaska mi sono serviti a capire i messaggi che Chris McCandless ha voluto trasmettere: in primis l'importanza della libertà, che ho avuto modo di respirare profondamente lungo quel sentiero e che spero di rivivere pur senza la presenza fisica del Magic Bus; secondo, la necessità di avere delle persone importanti con le quali condividere la "felicità". Io ho affrontato entrambi i viaggi con amici di avventura, persone con cui condivido interessi e sentimenti; proprio per questo la notizia della rimozione è stata presa da tutti con rammarico.

Credi che, data la rimozione del bus, alcuni saranno disincentivati nell’organizzare un viaggio in quelle zone?
Non credo, innanzitutto perché quel luogo, anche senza Magic bus, ricorda gli ultimi istanti di vita di Cristopher e potrebbe continuare a essere considerato una sorta di "pellegrinaggio" per rendergli omaggio. Inoltre, lo Stampede Trail, il Denali Park e tutto ciò che l'Alaska offre valgono il prezzo del biglietto.

È un'esperienza che fa riflettere sulla vita e pensare alle sfide che dovrai affrontare al ritorno e che lo stress e il trambusto non ti permettevano di comprendere. È, per ricondurmi al libro, pura necessità di evadere.

L'intervista è stata editata per questioni di spazio.