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Attualità

Una mostra esamina l'evoluzione dei selfie negli ultimi 21 anni

La mostra collettiva "You Might Be A Dog" comprende le opere di 16 artisti che indagano il modo in cui costruiamo la nostra identità su internet.

Thumbnail: Teresa Dillon "ADIP" 2009

Nel 1993 Peter Steiner, vignettista del New Yorker, pubblicò una vignetta con due cani di fronte a un computer. Uno dei due diceva all'altro: "Su Internet nessuno sa che sei un cane."

Vent'anni dopo, questa vignetta è ancora una delle opere più memorabili della rete. Il drammaturgo David Perkins ha creato una pièce teatrale omonima a cui sono seguiti molti saggi, e ora una mostra collettiva la riprende.

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You Might Be a Dog, (Potresti essere un cane) che apre oggi al pubblico al LEAP di Berlino, rappresenta l'evoluzione dell'identità su internet, dall'anonimato alla pubblicazione e condivisione. Secondo la curatrice Teresa Dillon, i 16 artisti prendono il classico selfie e lo usano come punto di partenza per una miriade di ritratti contemporanei e riflessioni sulle nostre vite online. Ironicamente, l'idea della mostra collettiva è nata durante una cena in cui tra amici si mostravano autoscatti divertenti.

Le opere della mostra vanno indietro fino al 1999. Tra queste c'è anche il lavoro della Dillon (artista, oltre che curatrice), che raccoglie più di 150 autoritratti di lei seduta davanti al pc, e il primo documentario di Gordan Savičić sulla sua controversa Web 2.0 Suicide Machine, che cancella i profili online a chi desidera eliminare i propri account sui social media (l'applicazione è bloccata da Facebook).

La mostra esplora il significato del poter farsi una foto e condividerla con il resto del mondo. Dopotutto gli schermi dei nostri computer non sono specchi. Teresa Dillon ci ha parlato degli artisti partecipanti alla mostra, dell'identità condivisa e della vita oltre la vanità.

Aino el Solh "Gradual Selfie" (2014)

The Creators Project: Visto che la mostra è un richiamo ad una vecchia vignetta del New Yorker, come sono cambiati i selfie in 21 anni?

Teresa Dillon: La vignetta sottolineava come l'interazione su internet intorno alla metà degli anni Novanta fosse sostanzialmente anonima, non si sapeva con chi si stava parlando dall'altra parte del computer. Ovviamente si potevano capire alcune cose sull'interlocutore, ma a quei tempi non cerano i social network, YouTube, o album di foto condivise. Insomma, il modo in cui ci presentavamo—la nostra identità—aveva una certa forma e una certa privacy, erano gli utenti ad averne il controllo. Negli ultimi 21 anni tutto ciò è molto cambiato. Adesso il modo in cui ci presentiamo online è molto visivo, abbiamo foto profilo, album, video, etc. La condivisione di noi stessi per immagini, insieme ad altre informazioni (data di nascita, la città in cui viviamo etc.) cambia il modo in cui ci vediamo e le nostre relazioni con gli altri. La mostra si concentra su questo—la condivisione visiva dell'identità—negli ultimi 21 anni.

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Un punto chiave della mostra è il modo in cui l'autoritratto modifica la percezione che abbiamo di noi stessi. In che modo le opere sono qualcosa di più dell'espressione della vanità?

La mostra si accompagna ad un lavoro più grande che tocca l'ambito della mia formazione come psicologa sociale e formativa. Per esempio la relazione tra la costruzione dell'identità e il modo in cui questa è aggiornata dai nostri rapporti cibernetici [è vitale]. Da questo punto di vista non considero i selfie delle forme di vanità, ma delle opere contemporanee del nostro mondo tecnologico, che ci permette di scattare una foto e condividerla immediatamente. Questa azione ha poco a che fare con la vanità ed è soprattutto un'istantanea dello stato delle cose. In ogni caso l'azione di per sé porta a molteplici comportamenti, uno dei quali influenza la vanità.

Ma gli artisti non sono presenti in ogni foto, vero?

La mostra andrebbe considerata come una galleria di ritratti contemporanei, che si concentra sulla rappresentazione e sulla presentazione di noi stessi online. I lavori si focalizzano sulla comprensione poetica, critica e umoristica di queste rappresentazioni. Questo equilibrio tra l' approccio poetico, quello critico e quello umoristico, insieme alla forma delle opere, è stato essenziale. È anche molto importante sottolineare che la mostra non è sui selfie, ma più in generale sulla rappresentazione dell'"identità condivisa"—che assume più di una forma. Ecco perché abbiamo incluso il lavoro del fotografo ceco Daniel Poláček, perché racconta delle chat e di come in quegli spazi rappresentiamo noi stessi e i nostri desideri, il nostro bisogno di sesso e di intimità online. Ed ecco perchè è presente la Web 2.0 Suicide Machine di Gordan Savičić, perché fa riferimento alla nostra "morte" in rete.

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Web 2.0, Suicide Machine di Gordan Savičić'

Puoi dirci di più sulle opere in cui gli artisti non sono presenti e perché?

Kim Asdendorf presenta il suo ritratto sotto forma di font, visto che la firma è un modo in cui ci si identifica. Heath Bunting si rappresenta con un diagramma che fa riferimento a suoi vari attributi, abilità, status o opinioni. Questo ritratto fa parte dello "Status Project" di Heath, che esplora a fondo la costruzione dello "status" all'interno di uno Stato o di un luogo e come ciò influenza chi siamo e quello che possiamo fare "legalmente".

Il ritratto del 2003 di Danja Vasillev e Sofia Mavzalevskaya è nascosto all'interno di un'interfaccia, mentre l'autoritratto di Joseph De Lappe è un riferimento alla vignetta dei cani e include il suo nome nella barzelletta tra i due mouse. Quindi anche se a colpo d'occhio non sembra che gli artisti siano presenti in queste opere, non è così; solamente i loro ritratti assumono forme diverse e ci permettono di pensare all'argomento della mostra in maniera diversa. Mi interessava molto esplorare queste letture differenti, in particolare collegandole alla galleria di ritratti contemporanei, che è basata sui commenti e le riflessioni riguardo le nostre vite online.

Joseph DeLappe "Self-Portrait A Dialogue" (1999)

Rollin Leonard ha fotografato altre persone per la sua serie Cell Bodies. Cosa ci puoi dire dell'opera?

La mostra non si concentra solo sull'idea del selfie "classico". Leonard è presente nel suo lavoro Arm Ball Rollin, che è esposto. Ero interessata anche a raccontare come avevamo trovato i soggetti per la sua serie Cell Bodies. Di solito attraverso una chiamata online, attraverso i forum in cui invitava sconoscuti a partecipare all'opera. Questi inviti a partecipare e le risposte introducono l'interessante aspetto dell'offrirsi agli altri, dando a qualcuno la propria immagine con cui giocare, e vedere cosa ne esce.

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Rollin Leonard "Panty and Stocking" 2013 

Cosa ci dici di Summer GIF di Olia Lialina?

È una grande opera d'arte "di rete", e per me c'entra molto con il concetto di costruzione della propria identità in rete e di come questa venga formata dai network. Essenzialmente la GIF non esiste a meno che non siano online tutte e 24 le persone che la compongono. La cosa meravigliosa di questa idea è che fa riflettere su come viene percepita l'identità. L'immagine non può esistere nè muoversi a meno che tutti non siano presenti. Questo si collega a vari concetti della psicologia sulla percezione di noi stessi, su come la nostra identità sia formata e costruita attraverso i rapporti sociali e le interazioni: sono ciò che sono grazie al mio network, alle persone con cui sono connessa. Non so dire se questa fosse l'intenzione di LiaLina quando ha creato l'opera, ma mi piace molto questo modo di interpretarla.

Gordan Savičić ripresenta la sua Web 2.0 Suicide Machine, che aveva scatenato molte polemiche nel 2009. Giusto per essere chiari: non c'entra con il suicidio ma con l'eliminazione della propria presenza nei social. In che modo è diversa questa volta?

Nel tempo si è perso molto di quest'opera, quindi quello che sarà presentato sarà un video che in parte documenta il progetto e anche gli elementi che sono spariti. Questo è ciò che ne rimane. Ho scelto appositamente opere di momenti diversi di questi ultimi 21 anni che rappresentano varie opinioni sul tema—e il discorso di Gordan tocca il tema di come "uccidiamo" le nostre identità online. È un'opera molto potente, ma come succede per alcuni lavori, a causa della loro stessa natura e di come sono preservati, ora ne resta solo qualche elemento.

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Ormai si può dire qualcosa di nuovo sui selfie? E se si può, puoi riassumercelo?

Vorrei davvero puntualizzare che la mostra non è solo sui selfie—altrimenti se ne perderebbe il senso. I selfie sono uno dei modi (quello più in voga) in cui ci rappresentiamo online.

Kim Asendorf TTF via

You Might Be A Dog apre oggi al LEAP, Leipziger Strasse 63, Berlin, Germany. Prr avere più informazioni sugli artisti e le loro opere visita: http://ymbad.hotglue.me/