Abbiamo incontrato Tim Hecker a Milano
Fotografia di Emily Berl.

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Musica

Abbiamo incontrato Tim Hecker a Milano

Tim Hecker vuole esplorare il lato doloroso e fisico del suono, rifuggire la banalità e scolpire voci umane: ci ha spiegato come prima del suo concerto al Teatro Franco Parenti.

Le risposte di Hecker sono tratte da un'intervista condotta dal nostro Federico Sardo prima del concerto al Teatro Franco Parenti di Milano del 23 maggio, nell'ambito della rassegna Electropark Exchanges.

È assurdo rendersi conto che nell'astratto della tesi di dottorato di Tim Hecker stanno molti elementi fondamentali della sua ricerca sonora. "Questa tesi esamina un interesse culturale nel suono ad alti volumi in quanto forza produttiva tra il 1880 e il 1930," comincia la dissertazione, ancora disponibile per intero sul sito della sua università. "L'interesse storiografico nei confronti del suono all'alba del ventesimo secolo ha dato una sostanziale attenzione ai movimenti dedicati all'abbattimento del rumore e ai loro sforzi per controllare lo spazio pubblico. Focalizzandoci invece su una serie di individui interessati agli aspetti generativi della potenza sonora e della sua capacità di paralizzare il corpo, svuotare la mente e persino minacciare la vita significa suggerire l'esistenza modi in cui speranze idealiste o utopistiche erano intrecciate a un'idea di azione sonora. Questa tesi esamina tre aspetti del mega-fonico: innanzitutto, la spinta verso la creazione dello strumento più rumoroso del mondo, un organo a canne; in secondo luogo, la proliferazione delle sirene atte alla segnalazione dei banchi di nebbia lungo le coste dell'America del Nord; infine, lo sviluppo della scienza delle onde d'urto e la sempre maggior comprensione del suono in quanto forza fisica e mortale" (corsivi miei). L'organo a canne, innanzitutto: lo strumento al cuore del suo capolavoro Ravedeath, 1972, registrato nella Fríkirkjan di Reykjavík con l'aiuto di Ben Frost. Un disco che Hecker stesso aveva descritto a Exclaim come "parzialmente a proposito del consumo eccessivo di musica e della sua distruzione rituale," concetto che riecheggia nella sua opera fin dall'inizio, come testimonia la presenza di un brano intitolato "The Work of Art in the Age of Cultural Overproduction" nel suo esordio Haunt Me, Haunt Me, Do It Again. Poi, la nebbia: quella cappa che riempie le sale buie dove suona ormai da qualche anno, avvolgendo interamente il pubblico e impedendo agli occhi di raggiungerlo, unite al lamento d'avvertimento delle sirene—lo stesso che un maestro come Ingram Marshall aveva reso protagonista del suo classico Fog Tropes, capolavoro di tensione ambientale. E infine il suono come esperienza fisica e pericolosa, le vibrazioni del timpano come una sorta di bestia nera al contempo affascinante e terrificante. "A un certo punto della mia vita mi sono trovato ad aver paura di dedicarmi alla musica a tempo pieno. Quindi ho mollato il lavoro che stavo facendo e ho fatto come molti fanno: sono tornato a scuola per evitare di pensare a quello che avrei voluto fare nella mia vita," spiega Hecker. "E mi sono impegnato così tanto a non pensarci che sono finito a fare un dottorato. Ho scritto una dissertazione sull'origine primordiale della musica che faccio. Andavo ai rave e vedevo persone che ficcavano la testa nelle casse per prendersi i bassi. Gente che si stava facendo male e danneggiando l'udito consciamente. Quindi mi sono chiesto perché lo stessero facendo, se fosse un fenomeno proprio degli anni Novanta o se avesse una storia." È interessante rendersi conto di quanto Hecker sia andato nel profondo della materia che maneggia già prima che iniziasse a organizzarla in una discografia. "Avevo viaggiato un sacco mentre scrivevo la tesi," dice, "per studiare questa cosa dello strumento più rumoroso del mondo. C'erano dei costruttori di organi che operavano in America all'inizio del Ventesimo secolo, e ne creavano di assurdi. Uno aveva 27.000 canne, e quindi un concorrente pensò di costruirne uno da 33.000 canne. Avevano delle turbine da jet installate in seminterrati con cui spingevano l'aria nello strumento. Credo possano essere considerati dei prodigi dell'ingegneria del secolo tanto quanto può esserlo la Torre Eiffel. Ormai stanno cadendo a pezzi, ed è una tragedia. Gli unici che se ne prendono cura sono anziani signori che cercano di metterci qualche toppa lavorandoci il fine settimana. A nessuno frega più niente, non c'è una comunità impegnata a restaurarli." Hecker tornò a vederne alcuni in New Jersey nei mesi prima di Ravedeath, 1972, per chiudere il cerchio. Ai suoi inizi, Hecker—dice—faceva "cose che potevano stare sotto il paradigma della techno, ma non è mai stata musica pensata per i club. Era head music mascherata da dance music." Fu un'esperienza specifica a fargli rendere conto che la strada adatta a ospitare il suo percorso era un'altra: "Stavo suonando a una sorta di festa sgangherata, erano tutti fatti di MD e mi chiedevano di mettere su 'qualcosa di meglio.' E la mia risposta fu 'Vaffanculo. Perché adesso non alzo la distorsione?' Dopo un po' mi sono reso conto che volevo eliminare completamente i ritmi, e quindi mi sono trovato in uno spazio mentale migliore. Credo che una delle cose che mi abbiano più aiutato a sviluppare quello che faccio fu trovarmi di fronte artisti più grandi di me—c'era questo festival, il MUTEK, a Montreal, a cui mi è capitato di suonare prima di nomi enormi come gli Autechre o Thomas Brinkmann. Il che ti obbliga ad alzare le tue ambizioni."

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Fotografia di Emily Berl.

Hecker è un musicista terra-terra, poco interessato a intellettualizzare il suo lavoro seguendo forme tradizionali o già sentite. "Questionare le norme all'interno di uno specifico discorso musicale è sempre un bene," dice. "La musica ha dei cliché che non devono essere necessariamente rispettati, anche nel modo in cui è discussa." Ma soprattutto, come fanno alcuni dei suoi colleghi, rifugge le categorizzazioni più ovvie—se non le categorizzazioni in toto: "Non mi interessa pensare al suono come mobilia: è una concezione alla Brian Eno che trovo datata e non voglio difendere." Dice di avere "rispetto e amore" per molti suoi amici e colleghi che fanno musica definibile come "ambient," ma usa cura nello specificare il suo campo d'interesse: "Cose che possono essere analizzate da vicino. Suoni ostili, che confrontano l'ascoltatore. Musica che suoni bene e sia interessante sia a volume sparato sia quando è a malapena percepibile. Musica che sembri venire da un'altra stanza. Voglio che le frequenze più alte abbiano un senso, e trovo molto importante la fisicità delle onde sonore." E ancora, fedele ai principi originali della sua ricerca: "Mi piace più pensare alla mia musica ascoltata da delle casse di merda rispetto che da un preamplificatore da ventimila dollari. Mi interessa molto di più la distorsione. Tipo: come suonerebbe la mia roba se passasse per dei cavi masticati da un cane?" Probabilmente il suo nuovo lavoro Love Streams non è il più adatto per sostenere che la risposta alla domanda di cui sopra stia nei suoi album—penso più un EP ingarbugliato come il suo celebre esperimento di rilavorazione dei Van Halen, My Love Is Rotten to the Core, o alle onnipresenti distorsioni che velano le melodie dei pezzi di Harmony in Ultraviolet—ma è sicuramente un'opera perfetta per riaffermare la sua esternalità rispetto alle norme del "discorso musicale" che lui stesso cita. Il nucleo materico di Love Streams è la voce di un coro islandese, impegnato nell'esecuzione di corali del quindicesimo secolo rilavorate da Jóhann Jóhannsson assieme a Hecker stesso, che racconta così l'esperienza: "Hai un coro islandese tutto per te: se lo lasci cantare da solo verrà fuori una roba alla Sigur Rós, e non ero lì per quello. Volevo fossero il primo anello di una catena di plug-in il cui scopo fosse trasformare la voce umana." E così Hecker li ha gestiti "come materiale plastico, come fossero argilla," mettendogli di fronte degli spartiti da riprodurre ma dandogli anche bizzarre istruzioni per impedirgli di cadere nell'abitudine: "Quelle istruzioni, quei giochi—'immagina di avere bevuto 10.000 galloni di purple drank come Lil Wayne!'—li mettevano un attimo più sull'attenti, gli aprivano la mente, gli causavano un minimo di sconforto. E credo che ci siano delle ottime opportunità musicali negli incidenti e nella casualità."

Il video di "Black Phase," tratta da Love Streams .

Quindi: corali sacre di un passato dimenticato, copertine scattate nel Duomo di Milano, una fascinazione per gli organi. Elementi che poterebbero naturalmente a domande sul ruolo della religione nella sua vita e nella sua opera. Hecker le rifugge: "Non esprimo la mia visione del mondo tramite la mia musica. Sto solo provando a creare qualcosa di bello, qualcosa che abbia sentimento e non possa essere descritta. Un'esperienza sonora creata per essere solo un'esperienza sonora." Hecker conclude minimizzando la novità principale del suo ultimo lavoro: "Tanto quelle voci sono così lavorate che neanche sono riconoscibili." Il che, ancora, dice molto sulla sua umiltà—ma ancora di più sulla sua concretezza. Per continuare su questa via: "Mi piace tenere scarno e ordinato il mio spazio di lavoro," dice Hecker. "Capita a molti di accumulare strumentazione in modo compulsivo, ma che te ne fai di otto sintetizzatori sullo stesso muro? È un deserto tecnologico in cui è facile perdersi. È qualcosa di bello da vedere e può anche essere confortevole, ma perché non scegliere una singola cosa che ami invece di dover pensare a quale usare e come usarlo? Si perde quell'elemento di rapidità e spontaneità." E ancora: Hecker dice di tenersi lontano dalle logiche contemporanee dell'iperconnessione, e di trovare "terrificante" la necessità di doversi tenere sempre al passo con ciò che accade a livello musicale. "Non ti aiuta perché ti impone di approcciarti alla musica che fai in modo strategico. Non fai che triangolare i trend del momento." Infine, parlando della possibilità di suonare assieme ad altri musicisti: "Prendere delle poesie sonore astratte e renderle versioni per l'intrattenimento è ridicolo. Il mio strumento è il computer, è la mia tavolozza da artista. Posso fare tutto da solo, suonare espressivo, suonare assurdo. Non ho bisogno di quattro persone con me sul palco." La sera, sul palco del Teatro Franco Parenti, Hecker resta fedele alle sue parole. Si esibisce nel buio più pesto, sotto a una cappa di fumo che trapela persino nel foyer. L'aria condizionata rende la temperatura della sala simile a quella di una cella frigorifera, di un obitorio. Non è possibile definire un'interpretazione univoca del suo set, principalmente perché è lui stesso a volerlo. I pezzi che esegue—collegati da bordate taglienti di rumore, contenitrici di perle di melodia, percussioni ticchettanti imbavagliate—non vogliono rispondere a un concetto unificatore. Sono una sua mostra personale, una serie di metaforiche tele emotive contenenti l'ultimo stadio del suo percorso artistico. L'orecchio riconosce forme già sentite da Love Streams, da Virgins, ma non ha bisogno di una conoscenza approfondita di ogni anfratto dell'opera di Hecker per interiorizzarne l'effetto. Come tanti Concetti spaziali, le composizioni si susseguono unite dall'idea di base del loro creatore, differenti ma inestricabilmente unite da un filo—in questo caso, lo possiamo immaginare di ferro, a tratti arrugginito e ad altri lucente. I prossimi due concerti di Electropark Exchanges avranno come protagonisti Egyptrixx, che si esibirà martedì 13 giugno nei Bagni Misteriosi di Via Carlo Botta, e Marie Davidson, che inaugurerà la Sala Testori del Teatro Franco Parenti martedì 4 luglio. Segui Elia su Twitter: @elia_alovisi
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