Musica

Le sigle dei cartoni animati sono lezioni di vita

Altro che hip-hop, metal, punk o dance music, la colonna sonora della nostra vita sono le sigle dei cartoni animati: lo spiega Demented Burrocacao nel suo libro 'Si trasforma in un razzo missile' e in questa intervista.
Giacomo Stefanini
Milan, IT
demented burrocacao
Demented Burroccao e una copia del libro, fotograzia promozionale

Su Netflix c’è una serie animata intitolata F is for Family che, nella sigla iniziale, ha trovato il modo perfetto per descrivere il processo di diventare grandi. La scena è un ragazzo che, dopo aver lanciato in aria il tocco alla cerimonia del diploma, inizia a volare nel cielo. All'inizio si comporta come fosse Superman, ma improvvisamente viene investito da una pioggia di oggetti: la cartolina del servizio militare, un biberon, una torta nuziale, bollette da pagare, lavoro… Insomma, una caduta libera senza controllo e senza freni, e buona fortuna se vuoi capirci qualcosa.

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Demented Burrocacao—che se siete lettori di VICE conoscete benissimo come autore di Italian Folgorati, la rubrica che scava nel torbido più torbido della musica pop italiana—contro la pioggia di casini, dubbi e responsabilità della vita ha aperto l’ombrello della musica e dei cartoni animati. Nato Stefano Di Trapani nella selvaggia periferia romana di Primavalle a metà anni Settanta, da bambino Demented si rivolgeva alla TV per trovare un linguaggio chiaro, che gli spiegasse le cose importanti della vita: la lealtà, il coraggio, la giustizia, l’amore, la tolleranza, i sintetizzatori. Da grande, si è dato alla sperimentazione musicale in tutte le sue forme: dal punk-noise di Hiroshima Rocks Around e Maximillian I al folk-pop intimista di Trapcoustic, passando per il puro rumore di System Hardware Abnormal e la poesia sonora di Acchiappashpirt, ha anche collaborato con Calcutta per Forse… e The Sabaudian Tapes.

Il suo primo libro Si trasforma in un razzo missile, uscito poche settimane fa per Rizzoli Lizard, è proprio un mixtape per l’infanzia, che mette ordine in quel marasma e per farlo usa le sigle dei cartoni. È un libro tutto ambientato tra le 2 e le 4 del pomeriggio, tra l’uscita da scuola e l’inizio dei compiti. Anche le illustrazioni di Simone Tso riportano a quei momenti, con i colori a matita, l'urgenza espressiva e il soggetto, Demented, messo a fianco ai suoi idoli animati. Nella narrazione, però, protagonisti come Lupin, Lady Oscar, Capitan Harlock e Mazinger si fanno da parte e lasciano spazio ai grandiosi musicisti italiani che le loro avventure le hanno sonorizzate.

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ufo robot goldrake

Un fotogramma della sigla finale di UFO Robot Goldrake, cliccaci sopra per ascoltare la playlist YouTube di Rizzoli Lizard con tutte le sigle incluse in 'Si trasforma in un razzo missile'

Quando pensiamo alle sigle dei cartoni animati, infatti, non dobbiamo pensare soltanto a Cristina D’Avena: prima di lei, molte delle storie animate giapponesi che arrivavano in Italia erano musicate da band semi-anonime, ma dietro le quali si celavano nomi fondamentali della musica italiana. Parliamo di artisti che hanno suonato con Battisti, Guccini o gli Area, che nel costruire queste sigle davano sfogo alle loro perversioni pop più oscure, cucinando futuristiche pozioni a base di funk, elettronica e rock’n’roll che sono rimaste tatuate nei cervelli di almeno un paio di generazioni. Ken Il Guerriero, Jeeg Robot, Lamù, Ranma, Goldrake: a ognuna di queste sigle, nel libro, Demented dedica un capitolo, una tessera del mosaico di un’infanzia italiana, alla scoperta di se stesso e degli altri, che siano i bambini stranieri che si sono trasferiti al piano di sotto o l’ubriacone del quartiere dal quale la mamma ti mette in guardia. E, come l'autore, tutta la sua generazione ha le sue sigle preferite: per esempio, lo sapevate che il ritornello della terrificante "Nella mia mano" di Metal Carter è preso pari pari dalla sigla di La Balena Giuseppina?

Ho chiamato Demented per fare due chiacchiere, scoprire che cosa l’ha spinto a scrivere questo libro e che cosa ha imparato di sé e dei propri coetanei.

VICE: Cominciamo dalle basi: dove e come hai trascorso l’infanzia?
Demented Burrocacao: Sono nato a Torrevecchia, al confine con Primavalle, nella periferia Nord Ovest di Roma. Quando si pensa a Roma Nord vengono sempre in mente i Parioli, ma ci sono anche contesti molto più suburbani. A Primavalle l’atmosfera è inquietante, c’è anche l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà che contribuisce. Il libro parte dal 1978, quando avevo tre anni, da lì comincia il periodo che davvero mi ricordo.

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Lì hai cominciato a usare i cartoni come àncore di immaginazione per capire meglio la realtà, insomma.
Scrivendo il libro mi sono reso conto che delle trame dei cartoni mi ricordo proprio poco. La cosa principale per me erano i suoni. Gli italiani hanno un po’ sottovalutato il potere della follia giapponese, che usava la fantasia per spiegarti la situazione reale. Non era Hanna & Barbera, che aveva l’Orso Yoghi, tutto carino; era Capitan Harlock, che lasciava tutti spiazzati. Era un cavallo imbizzarrito che non si sapeva come domare, e il problema è arrivato quando questo tipo di cartoni animati hanno avuto un grande successo inaspettato.

La vera sorpresa del libro è quanto diventi appassionante seguire la tua vicenda autobiografica.
Pasquale La Forgia, editor di Rizzoli Lizard, mi aveva fatto capire che un saggio puro sulle sigle dei cartoni animati sarebbe stato un po’ una rottura di palle. Così mi sono chiesto quale fosse l’importanza di questi lavori per me, e sono giunto alla conclusione che hanno rappresentato dei pilastri nella mia crescita sia personale che culturale, perché è grazie a loro che mi sono appassionato alla musica. E mi è venuto in mente che non tutti prendono in considerazione l’importanza di queste musiche, la gente tende a trattarle un po’ come cazzate per ragazzini.

Ma infatti è interessante vedere che tante di queste sigle sono state scritte da giganti della musica, mi vengono in mente Detto Mariano, Ares Tavolazzi degli Area
E Morricone, Micalizzi, Giovanni Tommaso dei Perigeo, Agostino Marangolo dei Goblin! E soprattutto uno scatenato Nico Fidenco, di cui avevo già parlato su VICE per le sue fantastiche colonne sonore porno. In questi contesti lui ha sfogato le parti più sperimentali della sua arte, le cose che non gli facevano fare quando si occupava di musica leggera “alta” (perché c’è questo paradosso della musica leggera “alta” e quella “bassa”, cioè le sigle e le colonne sonore)—per esempio la sigla di Bem, che è uno dei migliori pezzi dark della storia d’Italia. Per molti musicisti era un laboratorio.

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È qui che entra in gioco la tua esperienza di Italian Folgorati, perché tra tutte queste sigle sei riuscito a scovare delle perle di stranezza e avanguardia considerevoli.
Per me la folgorazione è arrivata con “Shooting Star” degli Actarus, la sigla finale di UFO Robot Goldrake. Era il lato B della più famosa “UFO Robot”. Considera che ero un bambino, e non avevo mai sentito un basso che suonasse così. Manco sapevo che cosa fosse un basso fretless! Poi prendi la sigla di Ken Il Guerriero, suonata da tali Spectra: io pensavo fosse un gruppo new wave, invece si trattava di Claudio Maioli, tastierista di Lucio Battisti in Anima Latina. Spesso si trattava di session men che sfogavano le loro pulsioni da autori e tiravano fuori della roba micidiale. Ah, ecco un esempio perfetto di sigla che stava avanti anni luce: Baldios! Il Coro di Baldios, autori ufficiali della sigla, erano un progetto di Giuseppe Damele che collaborava con i Signori della Galassia, uno dei gruppi space-rock-wave più strani della storia, sempre rimasti nell’underground finché non sono stati riscoperti intorno al 2006. E poi c'erano i Band of Mara, autori della sigla di God Mars, un cartone che forse non ha visto nessuno, però praticamente loro facevano i Daft Punk in anticipo di decenni.

Nel libro infatti citi molte sigle secondo te fondamentali per un certo suono ma legate a cartoni che non hanno avuto alcun successo…
Eh sì, perché le due cose non sono per forza legate. Per esempio Daitarn, ok, è un bel funkettone, ma è più facilotto. Altre sigle invece erano più complicate, più profonde, e io mi affezionavo subito a quelle: poi se mi piaceva la sigla, automaticamente mi piaceva anche il cartone animato.

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si trasforma in un razzo missile cover demented burrocacao rizzoli lizard

La copertina di 'Si trasforma in un razzo missile', cliccaci sopra per acquistare una copia del libro

A livello personale, hai riscoperto dei ricordi che erano rimasti sepolti grazie a questo lavoro?
Certo, è successo eccome. Ho iniziato pensando alle prime sigle che mi venivano in mente e creando una specie di mappa dei ricordi con situazioni, età, luoghi, persone. È stato un po’ un flusso di coscienza. Lo spartiacque è proprio “Marameo” di Stefania Rotolo, che introduceva la parte per bambini di Tilt, il programma Rai. “Le favole di un tempo sono roba da museo / e se tu me le propini io ti faccio marameo!” voleva proprio dire che noi bambini con quelli della generazione precedente non riuscivamo a comunicarci, e invece i cartoni (dopo quella sigla di solito andava in onda Capitan Harlock) ci dicevano le cose come stavano. Niente principe azzurro, niente fatina: era il momento di riprenderci il nostro spazio nella storia.

Il tuo libro parla perlopiù delle sigle storiche degli anni Settanta e Ottanta, come ti sembra che sia cambiato il panorama della musica nell’animazione oggi?
Anche oggi escono sigle interessanti, molto virate sull’elettronica tirata o sul pop lisergico. Però negli ultimi anni il problema è che si è messo l’accento sulla quantità invece che sulla qualità. Se dovessi fare una mappatura dei cartoni animati recenti, c’è tanta roba che mi esalta, però è roba originale giapponese. Non si è più disposti a investire per trovare musicisti italiani che spacchino e far fare le sigle a loro, al massimo si mette una voce italiana sull’originale giapponese, come era già stato fatto per Ranma. Il motivo, oltre alla questione economica, è che a livello tecnico e musicale, anche pop, i giapponesi al momento sono a un livello assolutamente irraggiungibile dagli italiani, anche se qua forse non ce ne rendiamo del tutto conto. Ma le loro sigle sono insuperabili.

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Ma parliamo di Cristina D’Avena, che per gente della mia età è sinonimo di sigle dei cartoni. Nel libro non compare poi così tanto, descrivi un mondo molto più grande di lei.
Il motivo, banalmente, è che parlo di una fascia temporale in cui lei non era ancora la regina indiscussa. A un certo punto poi il suo successo ha asfaltato praticamente tutti, lei compresa, perché si è ritrovata a fare sigle dozzinali. Prendi “Siamo fatti così”: certo, è famosissima, l’ha scritta il figlio di Mina, Massimiliano Pani, però non è che l’ascolti e dici “wow, che pezzone” [ride]. A un certo punto è diventata una questione meramente commerciale. Per questo nel libro non occupa una posizione predominante, perché all’epoca di cui parlo era ancora così. Era una fra le tanti cantanti di sigle.

Tu parli con grande leggerezza delle sigle dei cartoni come influenza fondamentali per molta musica italiana, ma è una nozione davvero assurda a pensarci. Credi che sia vero?
Beh, ti ricordi quando i Decibel avevano beccato la stessa melodia di “Robin Hood” di Cristina D’Avena? Poi, se ci pensi, moltissimo itpop è chiaramente influenzato dalle sigle dei cartoni anni Novanta. Calcutta stesso faceva delle feste a Latina in cui metteva anche le sigle dei cartoni. Per questa generazione, è un po’ come per noi risentire le vecchie canzoni italiane anni Sessanta, quelle di Edoardo Vianello: “La tremarella”, “Abbronzatissima”, “I Watussi”. Resti di un tempo spensierato che non c’è più—ma con un suono che spacca ancora oggi.

Se vuoi leggere altre cose di Demented, da' un'occhiata alla sua rubrica su VICE Italian Folgorati e seguilo su Instagram, Facebook e Twitter.

L'illustrazione di Lupin è di Simone Tso, per gentile concessione di Rizzoli Lizard.

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