Operazione Atlantide: l'assurdo esperimento subacqueo in un lago del Friuli
Gli acquanauti della Prima Fase posano per uno scatto di gruppo. Immagine: Pietro Spirito

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Operazione Atlantide: l'assurdo esperimento subacqueo in un lago del Friuli

Tra il 1969-1971 un gruppo di acquanauti friulani ha condotto un esperimento controverso per capire com'è vivere sott'acqua.

Questo è il racconto di un avvenimento fuori dal comune avvenuto nella zona del Lago di Cavazzo, nell’alto Friuli, tra il 1969 e il 1971. Sulle sponde del lago e nelle sue profondità ha avuto luogo l’Operazione Atlantide, un programma di immersione e permanenza subacquea sul lungo periodo diviso in due fasi — una nel settembre 1969 e l’altra nel settembre dell’anno successivo. Alcuni sommozzatori, chiamati acquanauti o batinauti, hanno abitato per alcune settimane la "prima città subacquea del mondo". L’impresa ha avuto grande risalto, tanto che ai tempi era stato azzardato un parallelo con gli astronauti americani che, proprio nel 1969, avevano raggiunto per primi la Luna.

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L’Operazione Atlantide è stata ideata e condotta da Luciano Mecarozzi, fondatore e presidente del Centro Italiano Soccorso Grotte – Sezione Sperimentale Ricerche Subacquee di Udine. L’operazione vedeva la partecipazione dell’Esercito Italiano, della Marina Militare, dell’Università degli Studi di Trieste e dell’Aquila, dei ministeri dell’Interno e della Difesa, dell’ENI, dell’Assessorato al Turismo della Regione Friuli Venezia Giulia, del Consiglio Tecnico Scientifico della Difesa e dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. L’interesse delle istituzioni era notevole ma è venuto improvvisamente meno al termine del programma, che si è concluso con pochi riscontri nel 1971.

I moduli riverniciati per la Seconda Fase sulle rive del lago prima di essere immersi.

La preparazione

Nel gennaio del 1969, la Sezione Sperimentale Ricerche Subacquee del Centro Italiano di Soccorso Grotte ha presentato all’Assessorato regionale al turismo il progetto per la realizzazione di un importante esperimento con scopi d’interesse scientifico internazionale. Luciano Mecarozzi aveva esposto un preventivo per “la costruzione della prima città subacquea al mondo (…), di speciali contenitori e abitacoli che consentiranno la vita subacquea a tempo indeterminato a un gruppo di 12 sommozzatori”. L’intento era di dimostrare che, in un ambiente organizzato, gli esseri umani sarebbero stati in grado di svolgere lavori subacquei vivendo per più giorni sott’acqua e, di conseguenza, abbattendo i tempi per le fasi di compressione e decompressione durante l’immersione e l’emersione. Mecarozzi ha ottenuto 20 milioni di lire di contributo da parte della Regione Friuli Venezia Giulia e il supporto di alcuni sponsor ma la maggioranza dei fondi necessari sono stati raccolti grazie all’autotassazione dei partecipanti, in gran parte già membri del CISG.

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Nella primavera del 1969 partivano i lavori preparatori all’Operazione Atlantide lungo le sponde del Lago di Cavazzo. La città subacquea si componeva di cinque grandi cilindri metallici, lunghi dieci metri e dal diametro di due. I contenitori 1, 2 e 3 avrebbero ospitato gli acquanauti, il contenitore 4 sarebbe stato il “cervello” erogatore di aria ed energia mentre il 5 sarebbe servito da magazzino. Ai moduli erano stati assegnati dei nomi curiosi, come “Cane-Topo”, “Alfa Tau” e “Drago II” ed erano tenuti a una profondità stabile, agganciati con cavi d’acciaio a dei contenitori che facevano da zavorra. Ogni modulo abitativo aveva al suo interno un dispositivo per comunicare con la terraferma attraverso le linee telefoniche nazionali, e un sistema di telecamere a circuito chiuso per il monitoraggio del personale.

Il 3 agosto l’impresa è stata presentata ufficialmente alle autorità civili, militari e religiose. A immergersi e a vivere per quasi un mese sott’acqua sarebbero stati 12 acquanauti, fra cui una ragazza di 17 anni. Da subito non mancavano elementi che facevano — e fanno — dubitare della effettiva scientificità dell'esperimento.

  1. Gli acquanauti della Prima Fase all'interno di uno dei contenitori. Immagine: Pietro Spirito.

Operazione Atlantide / Prima Fase
Dal 3 al 28 settembre 1969

La procedura con cui venivano preparate le persone che avrebbero operato nelle acque del Lago di Cavazzo lascia perplessi. Quasi tutti, inoltre, non esitano a definire l’intera operazione come svolta alla buona. Dino Barro è stato uno dei primi 12. “Ai tempi avevo 23 anni. Durante l’estate abbiamo trasportato i contenitori e li abbiamo sistemati. Ci sono stati subito problemi. Il 4 settembre stavo per immergermi e raggiungere il contenitore ‘ALFA-TAU’ ma improvvisamente ho visto una gigantesca bolla d’aria: il contenitore si è alzato di scatto ed è piombato subito giù sul fondo. Per fortuna nostra l’incidente è successo senza nessuno all‘interno del contenitore.”

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Durante le settimane dell’esperimento, gli acquanauti passavano le giornate coltivando un passatempo particolare: la raccolta di bombe sul fondale. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, venne abbandonata una grande quantità di esplosivi sul fondo del lago e compito degli acquanauti era di raccoglierli e portarli fuori dall’acqua. “Uscivamo dai moduli e andavamo a cercare le bombe. Una volta recuperate chiamavamo gli artificieri e le facevamo scoppiare,” racconta Dino Barro, “e poi la sera uscivamo in superficie e andavamo al bar.”

Fu così, tra responsabilità e incoscienza, che ha avuto luogo questa prima fase dell’Operazione Atlantide. Tuttavia, gli organi ufficiali continuavano a sostenere il progetto. Il ricordo che meglio fa capire la realtà in cui si è svolta l’operazione è quello di Barro, quando descrive il momento in cui, il 28 settembre, è riemerso definitivamente: “Mentre risalivo, ho visto uno degli organizzatori a riva che pregava in ginocchio. Me lo ricorderò sempre. Non sapevano che cosa mi sarebbe successo e temevano il peggio. In Italia, a ripensarci, era stata un’impresa unica nel suo genere ma nessuno immaginava come era stata organizzata.”

Ad attendere gli acquanauti era presente anche la televisione svizzera, che ha girato un servizio in cui veniva posta la domanda all’organizzatore capo, Luciano Mecarozzi, a proposito del fatto che l’esperimento non fosse stato molto seguito dagli ambienti specializzati italiani. Mecarozzi in quell’occasione ha affermato che "non è stato seguito dagli ambienti specializzati italiani, ma in quelli francesi, americani e tedeschi.” In che modo si sia manifestato questo interesse, non è mai stato esplicitato.

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  1. Pietro Spirito osserva l'ultimo contenutore di zavorra rimasto sul fondo del lago.

Operazione Atlantide – Seconda Fase
Dal 24 settembre al 25 ottobre 1970

La prima fase dell’Operazione Atlantide aveva mostrato tutti i limiti di un esperimento condotto in maniera poco più che amatoriale, ma questo aspetto non era stato ancora colto né dal pubblico né dalle istituzioni. L’anno successivo è stato impiegato per preparare la seconda fase dell’esperimento, con l’intenzione di produrre risultati scientifici di valore. Mecarozzi, già a suo modo inserito negli ambienti militari, è andato a Roma alla fine del 1969 assieme al collaboratore Renzo Dentesano, per incontrare alcuni funzionari del Ministero della Difesa e chiedere un nuovo supporto all’operazione, in particolare, una camera iperbarica mobile.

All’apparenza, la seconda fase dell’operazione si è svolta in tutt’altro contesto, con un dispiegamento di mezzi ben più articolato. I protagonisti erano sette acquanauti. Renato De Piero, Franco Molinari, Andrea Candoni avrebbero passato 15 giorni nei moduli abitativi mentre un quarto, Antonio Solero, sarebbe stato l’unico a passare sott’acqua l’intero periodo della seconda fase. A metà dell’esperimento i primi tre acquanauti sarebbero stati sostituiti da un secondo gruppo, composto da Valentino Bozza, Gianfranco Galiazzo e Paolo Dal Bo. Nonostante i buoni propositi, sono molti che oggi ricordano la seconda fase come svolta “alla bell’e meglio”, anche in questo caso a partire dalle fasi di preparazione.

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Mario Ordiner era uno dei collaboratori della seconda fase. Ricorda che “la prima prova per vedere se eravamo abili consisteva nel buttarci in acqua di notte e stazionare a una profondità di 2-3 metri per circa 15 minuti. Era inverno, l’acqua era gelida e nevicava. Il lago era illuminato con un grande faro. Durante la prova di uno di noi, il faro si è spento improvvisamente e lui è emerso gridando 'Mamma! Aiuto! Embolia!'. Poi il nostro addestramento si è perfezionato. Durante le fasi vive dell’Operazione, i protocolli di sicurezza erano molto labili e le cose sono state fatte alla carlona. Mi ero documentato su tutti gli esperimenti fatti in precedenza e vedevo la differenza sia di mezzi, di preparazione e che di obiettivi. Il confronto con ciò che aveva fatto Jacques-Yves Cousteau durante i progetti Prècontinent I e II del 1962-63, ad esempio, non si può proprio fare. Dobbiamo essere onesti e dire quello che è stato: un'avventura.”

Ripresa interna di un contenitore. Immagine tratta da Luciano Mecarozzi, "Programma Atlantide", Prima Fase. Rapporto edito a cura della Società Sperimentale Ricerche Subacquee e del Circolo Filatelico e Numismatico Friulano, 1969.

Gli acquanauti hanno trascorso le giornate in immersione sottoponendosi al monitoraggio degli operatori sanitari e a estenuanti turni di lavoro, il tutto inframezzato dal solito passatempo di collezionare bombe inesplose. Racconta Renato De Piero: “avevamo una enorme gru che ci calava il materiale da lavoro. Il compito quotidiano era di lavorare su una testa pozzo per l’estrazione del petrolio [lo strumento che viene agganciato al fondale marino in prossimità di un giacimento di gas o di petrolio, NdR] che avevamo montato sul fondale. La testa di pozzo pesava 18 quintali e aveva tre rubinetti da 75 chili l’uno. Noi dovevamo smontarli e rimontarli mentre venivamo cronometrati. So che c’era l’ENI che era interessata a questi tempi di lavoro e seguiva con interesse l’esperimento. Però non ho mai approfondito, a me interessava solo andare sott’acqua.” Gli incidenti non sono mancati. Gli acquanauti descrivono come l’operatore della gru aveva fatto male il nodo che teneva i tre rubinetti metallici, che sono caduti improvvisamente in acqua a pochi centimetri dai sommozzatori.

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Ancor più significativo è il racconto di Antonio Solero, che ha trascorso l’intero periodo in immersione. “Avevo 25 anni e sono stato reclutato casualmente: stavo facendo l'autostop. Mi ha dato un passaggio uno che faceva parte del gruppo che mi ha invitato a visitare il centro a Cavazzo. Ricordo di aver fatto presente che non sapevo nuotare, ma Mecarozzi mi ha risposto che in acqua le mani servono per lavorare e non per nuotare. Nel primo gruppo c'era anche un venezuelano di origini friulane, Andrea Candoni. Era una persona molto interessante, amava molto la musica. Viveva in un suo mondo e si rifugiava nelle fantasie mentre eravamo immersi.

Utilizzava delle simbologie prese dagli indiani d'America. Noi, difatti, lo chiamavamo Manitù. Lui ogni tanto si bloccava. Rimaneva catatonico, ricordo che stava nella sua cuccetta con un grosso coltello affianco, immobile. Non rispondeva più alle nostre domande. Restava ore così. Bloccato. In trance.” L’aneddoto viene confermato da Franco Molinari, “Teneva un pugnale sul fianco e aveva detto che c'erano gli spiriti durante la notte. Lui li captava. Era in contatto con una tribù di qualche tipo."

Un gruppo di acquanauti con le bombe recuperate sui fondali. Immagine: Renato De Piero.

Tutti gli acquanauti descrivono la stessa quotidianità fatta di lavoro, prelievi del sangue, delle urine, elettrocardiogrammi. Tuttavia quei giorni di fine estate del 1970 hanno riservato anche dei momenti piacevoli e inaspettati risultati “scientifici”. Solero racconta: “avevamo organizzato delle feste sottacqua. Gli amici scendevano e portavano spumante, polenta e uccelli. La cosa interessante che abbiamo scoperto è che lo spumante a quella profondità risulta un vino fermo perché la pressione dell'aria impedisce che si formino le bolle. Nella risalita i nostri amici hanno notato che, diminuendo la pressione, il prosecco liberava l'anidride carbonica. Quindi, durante la risalita hanno ruttato continuamente.”

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Sui risultati scientifici dell’operazione i pareri sono discordanti. Da una parte c’è chi, visto il quadro appena descritto, nega ogni valenza dei risultati, mentre altri sottolineano la loro potenziale utilità. Il medico più coinvolto nell’esperimento è stato Giorgio Maisano, primario di cardiologia all’Ospedale Gervasutta di Udine, oggi in pensione. “La mia presenza comportava due ruoli: uno assistenziale e l’altro scientifico," racconta. "Eseguivamo prelievi di sangue a orari regolari, due volte al giorno, misuravamo l’attività cardiaca e il ritmo sonno-veglia degli acquanauti. Ne vennero fuori tre pubblicazioni: 'Desincronizzazione sperimentale del ritmo cortisolemico in sommozzatori', 'Il sonno e la veglia e la luce e il buio nel determinismo del ritmo surrenalico del cortisolo' e 'Studio Sperimentale in sommozzatori sottoposti ad un ritmo anormale di sonno-veglia e luce-buio'. I risultati erano interessanti, il tutto si è concluso per mancanza di fondi e non abbiamo proseguito con indagini ulteriori.”

La fine

Sul finire della seconda fase dell’Operazione Atlantide, l’interesse da parte delle istituzioni viene meno, e Mecarozzi e i partecipanti si ritrovano di colpo a dover fronteggiare da soli gli ingenti costi dell’esperimento. Il perché rimane un mistero. Da una parte c’è chi sostiene che la colpa sia da imputare a un nuovo clima politico sfavorevole nei confronti dell’appartenenza di una parte degli organizzatori. Altri invece affermano che tutti si fossero resi conto che una città subacquea avrebbe fatto sì risparmiare tempo ma avrebbe esposto il personale a rischi troppo gravi. Uno scenario futuro in cui l’essere umano avrebbe operato in tali strutture appariva irrealizzabile già ai tempi.

Negli ultimi giorni dell’operazione, il malcontento di alcuni partecipanti era aumentato, sia per il mancato interesse delle istituzioni che per la prospettiva di una perdita economica. Alcuni degli intervistati riportano vari episodi sgradevoli, in cui si sarebbero scatenate delle risse tra operatori. Altri, invece, riferiscono alcuni aspetti controversi sulla figura di Luciano Mecarozzi, dipinto come un leader nato, capace di inserirsi in una rete di contatti contraddistinti da una chiara appartenenza politica a destra. Alcuni acquanauti raccontano come il suo mostrarsi impavido e coraggioso spesso non avesse un riscontro concreto: si immergeva per visitare gli acquanauti in rarissime occasioni, sempre scortato, e una volta all’interno dei contenitori era “spaventato e a disagio.”

A Operazione Atlantide conclusa, Mecarozzi ha intrapreso l’esperienza di Radio EFFE, un’emittente radio privata che ha avuto un ruolo nei soccorsi all’indomani del terremoto che ha colpito il Friuli nel 1976. Nel 1990 è partito per l’Ecuador, dove è rimasto fino al 2005. In Sud America ha fondato e coordinato le attività della Società ecuadoriana de Espeleologia. Rientrato in Italia, si è dedicato alla scrittura di un’enciclopedia di Musica per la scena con più di 42mila voci. Nel 2012 è apparso per l’ultima volta in pubblico in occasione della presentazione del trailer di un documentario sull’Operazione Atlantide che non è ancora stato terminato. Non è stato possibile intervistarlo perché da alcuni anni versa in condizioni di salute non ottimali.

Alcuni considerano l’Operazione Atlantide un evento rappresentativo del clima che si respirava in Italia in quel periodo denso di ambiguità politiche sulle quali non è mai stata fatta completamente luce. Anche per questo, le vicende e le relazioni che hanno portato alla realizzazione dell’Operazione nella piccola cornice di un lago tra i monti del Friuli meritano assolutamente di essere approfondite.