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#Ciaone e bullismo renziano: un giudizio finale sul referendum sulle trivelle

Già prima del voto, questo referendum era stato trasformato in qualcos'altro. E questo non solo ha risucchiato completamente il dibattito, ma ha mostrato il vero livello della classe dirigente.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Diciamoci la verità: con un quesito "debole" su un tema collaterale, un'informazione limitata e la campagna astensionista del governo, era davvero difficile che il cosiddetto "referendum sulle trivelle" raggiungesse il quorum. E infatti, ieri solamente il 32,15 percento degli elettori è andato a votare.

Al di là dei possibili motivi specifici di questa sconfitta—perché è innegabile che si sia trattato di una sconfitta—l'aspetto cruciale nel determinare un esito del genere è stato indubbiamente uno: quello di aver "politicizzato" troppo la campagna, dall'una e dall'altra parte.

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Già prima del voto, infatti, il referendum era stato trasformato in qualcos'altro—non in una decisione sulle concessioni per estrarre gli idrocarburi entro le 12 miglia nautiche dalle coste italiane, ma in una specie di plebiscito pro o contro Matteo Renzi. E questo fattore non solo ha risucchiato completamente il dibattito intorno alla consultazione, ma si è riverberato anche nelle recriminazioni degli sconfitti e il bullismo spinto dei vincitori.

In un comunicato stampa, ad esempio, il coordinamento nazionale No Triv ha duramente criticato l'atteggiamento del premier e della maggioranza del Partito Democratico, dicendo che "il quorum non è stato raggiunto grazie ai reiterati attacchi del Governo alla democrazia," e che "la libertà di scelta e di voto sono state schiacciate dalla campagna di disinformazione di un Governo strumento delle lobby del petrolio."

Nonostante il fallimento del referendum, la campagna per il Sì ha comunque rivendicato il raggiungimento di qualche risultato, tra cui l'aver messo al centro del dibattito italiano la politica ambientale e l'aver comunque portato alle urne—su temi di cui in Italia non si parla così tanto—14 milioni e mezzo di persone.

Matteo Renzi, dal canto suo, si è presentato di fronte alle telecamere a Palazzo Chigi per commentare l'esito del referendum in maniera solo apparentemente neutrale. "Ci sono vincitori e sconfitti, il Governo non si annovera fra i vincitori," ha subito messo le mani in avanti il premier, salvo poi esultare per i risultati ("levo calici […] alla vittoria dell'astensione").

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Il premier, tuttavia, non si è fermato qui: prima ha parlato di uno spreco di "300 milioni di euro"; poi ha sbeffeggiato i "grandi esperti" che avevano previsto il raggiungimento del quorum; e infine ha detto che un "grande paese" come l'Italia non può permettersi "l'odio sconsiderato" delle campagne elettorali.

Risultati ottimi. I lavoratori hanno vinto, qualche consigliere regionale ha perso. Adesso al lavoro per un'Italia più forte — Matteo Renzi (@matteorenzi)April 17, 2016

Più che il commento istituzionale di un presidente del consiglio su una mobilitazione democratica, per certi versi il discorso di Renzi mi è sembrato più affine a quello di un troll—come se si dovesse infierire sugli oppositori a tutti i costi, nonché esibire uno sconfinato sentimento di rivalsa nei loro confronti.

Il punto è che quell'"odio sconsiderato" non è venuto solo dalla parte avversa al premier, ma è venuto anche e soprattuto da Renzi e dalla cerchia degli hooligan renziani che—molto più dei "grandi esperti"—presidiano militarmente Facebook e Twitter.

L'esempio più noto è quello del deputato e membro delle segreteria nazionale del PD Ernesto Carbone. Ieri pomeriggio, a urne aperte, Carbone si è messo a ridicolizzare i referendari con questo tweet:

Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l'importante è partecipare — Ernesto Carbone (@ernestocarbone)April 17, 2016

La tracotanza dei renziani non si è limitata agli hashtag: ha colpito anche gli stessi esponenti del Partito Democratico. Francesco Nicodemo—membro dello staff renziano—se l'è presa a più riprese con Michele Emiliano, sostanzialmente accusandolo di "infedeltà" al partito.

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— Francesco Nicodemo (@fnicodemo)April 17, 2016

Quel che è certo, è che il voto di ieri ha cristallizzato almeno due dinamiche che si erano messe in moto da diverso tempo. La prima l'ha rilevata Alessandro Gilioli sul suo blog, e riguarda "la distanza tra favorevoli e contrari al premier" che è diventata "probabilmente incolmabile, definitiva, irrecuperabile." Insomma: la "berlusconizzazione" del consenso—e del dissenso—intorno a Renzi sembra ormai essersi compiuta.

La seconda ha a che fare con la qualità della classe dirigente renziana. "Il referendum è servito per mettere in luce la modestia di una certa classe dirigente, incapace di pensare ad altro che a regolare i conti con gli avversari interni di partito," ha scritto su Repubblica Stefano Folli, che di solito non è un editorialista antirenziano. "Ed è, purtroppo, una modestia intellettuale e politica che si mescola a una spontanea tendenza all'arroganza."

Questa definizione della classe dirigente renziana—unita all'atteggiamento tenuto in questi giorni—mi ha fatto ripensare a una frase di Kurt Vonnegut. "Il vero terrore," diceva lo scrittore americano, "lo provi quando ti svegli una mattina e scopri che a governare il paese c'è la tua classe delle superiori." Ecco: ho il timore che il referendum di ieri ci abbia fatto svegliare in uno scenario del genere.

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