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Ho detto di sì a tutti i ragazzi che ci hanno provato con me per strada

Ho passato le ultime due settimane ad accogliere le domande e i complimenti degli uomini che ci provavano con me per strada con l'obiettivo di scoprire chi sono, che tecniche usano e se sanno che possono risultare fastidiosi.

"Ciao, dove vai? Parliamo un po'?" Sabato, ore 19. Fermata della metro République della linea 3, Parigi.

"Ok," rispondo. Il ragazzo che ho di fronte rimane per un attimo in silenzio. Mi scruta nel tentativo di capire se lo sto prendendo per il culo. "Sì, davvero?" chiede sorridente. "È che non ci sono abiutato." Nemmeno io, in effetti.

Ma ho passato le ultime due settimane ad accogliere le domande e i complimenti degli uomini che ci provavano con me per strada. Ho cercato di scoprire chi sono, che tecniche usano, se sanno che possono risultare fastidiosi.

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Il solo limite che mi sono imposta nel corso di questo esperimento è stato il mio istinto. Alle elementari la nostra maestra ci aveva spiegato che ognuno ha dentro di sé "una specie di piccolo antifurto, tipo quelli delle macchine." E anche se la persona con cui stai parlando ti dice che non c'è niente da temere, che è normalissimo, è sempre meglio dare ascolto al bip bip ogni volta che si manifesta. Nel caso specifico di quel tizio, però, il mio antifurto non ha registrato alcuna attività sospetta.

Certo, da fuori dobbiamo avere un'aria un po' sinistra. Mi fermo di scatto, dritta come un palo, a pochi centimetri da lui, che se ne sta seduto con le mani giunte. Ci presentiamo, e la prima cosa che mi dice è che gli piace il mio vestito rosa.

"Mi piace Parigi, perché le donne si mettono questi vestiti così." Poi mi spiega che è della Piccardia e che gioca a calcio. Quando mi chiede quanti anni ho e io gli rispondo 29 sembra sorpreso e un po' deluso. "Ma va', non l'avrei mai detto." Cerco di fargli qualche domanda anche io––"da che zona della Piccardia? È dura la vita dello sportivo?"––ma lui risponde a monosillabi, poi chiosa: "Judith, non voglio farti perdere tempo, avrai un ragazzo che ti aspetta." Eccolo lì. Stavolta lo dice senza ridacchiare. Per i due minuti successivi rimango in silenzio. Aspetto la metro senza dire una parola, un po' come quando ti trovi in ascensore con il super capo, e quando la metro arriva io mi metto le cuffie e lui va a sedersi dalla parte opposta.

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Foto via Flickr.

Un po' disorientata da questo primo approccio, mi preparo a fare nuove conoscenze. Non devo aspettare molto, perché di ritorno dalla corsa che mi autoinfliggo ogni domenica mattina vengo abbordata da un tizio proprio sotto casa. "Sportiva, eh?" "Ci provo," rispondo accennando un sorriso. Avrà quarant'anni, un parka beige e tutta l'aria del classico padre di famiglia. "Brava! Vedo che il materiale non manca comunque, se mi capisci…" Non rispondo. "Capito?" Per essere sicuro mima il seno e fa una smorfia. "Chiederei quasi di dare una tastatina, se non passassi per un indiscreto… posso? Posso pagare." Taglio corto e cerco di essere gentile ma risoluta: "No, grazie. Devo salire, e poi lei mi sta mettendo in difficoltà, non insista." A lui non sembra interessare, o forse non ha proprio capito, perché incalza: "Ah be', ma bastava dirlo che non ti piace il tuo corpo!". Entro nel portone e lo lascio lì.

Quando avevo tra i 14 e 18 anni mi capitavano spesso episodi del genere––uomini che mi proponevano di seguirli, che mimavano il cunnilingus con le dita e mi fissavano, soprattutto quando ero in compagnia di mia madre e lei guardava altrove. Evidentemente nella fragilità dell'adolescenza c'è qualcosa che li attira, e che col passaggio all'età adulta sembra tenerli un po' più a bada.

Ero infastidita, ma il karma mi ha mandato Yassin *. Ho riflettuto a lungo sulla possibilità di cambiare la tipologia di nome per non rischiare di alimentare una qualche forma di razzismo, ma in questo modo avrei mentito. Quando gli ho fatto notare che non era il primo "di origini arabe" a fermarmi, ha risposto, "Davvero? Be' evidentemente abbiamo dei gusti migliori degli altri!" Concluso il dibattito sociologico siamo rimasti seduti sulla panchina del parco di Belleville su cui mi aveva trovato qualche minuto prima. Dei sei uomini con cui mi sono fermata a parlare in queste due settimane, Yassin è un po' il mio preferito.

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Ha un bell'aspetto, con spalle grosse e ciglia lunghissime. Un po' il tipo di persona a cui non ti dispiacerebbe risvegliarti accanto la mattina, per farti accarezzare i capelli mentre rimanete sdraiati a letto. Sì, esatto, l'ho pensato. Mi si è avvicinato proponendomi di dividerci una canna. "No, grazie, ma fumo volentieri una sigaretta," rispondo.

Intorno a noi c'è un sacco di gente, inclusi bambini che giocano e turisti, e mi sento al sicuro. Yassin abita un po' fuori Parigi e lavora in un negozio di telefonia a Saint-Lazare. "Passa a farmi un saluto qualche volta," mi dice prima di aggiungere che non gli capita mai di provarci con una così, per strada, "tranne in casi eccezionali, tipo con una bellissima ragazza." Eppure, mi spiega, è un tipo "serissimo. Voglio farmi una famigliola, un villino come i miei… è normale, sto invecchiando. Ho 30 anni, sai." Ovviamente non crede che incontrerà la donna della sua vita per strada, ma la cosa lo diverte. A volte funziona, a volte si fa mandare al diavolo.

"Ma capisco che per una ragazza possa essere fastidioso. Ci sono persone che non hanno proprio rispetto, zero. Però anche voi donne, io a volte non vi capisco. Tipo la mia ex, si lamentava quando la gente le faceva commenti per strada, e poi si lamentava quando non gliene facevano. Diceva che le sembrava di essere invisibile. Cioè, ti pare?" Lo ascolto e di tanto in tanto rispondo alle sue domande. Si interessa brevemente al mio lavoro di giornalista per poi passare subito a piccoli dettagli––se non fanno male i piedi a camminare coi tacchi, che sport faccio. Parliamo per una quarantina di minuti, ci scambiamo un bacio sulla guancia e accetto di lasciargli il mio numero. Mi fa subito uno squillo per controllare che non me lo sia inventato. Con tutti gli altri, il particolare del mio lavoro ha rappresentato un punto di rottura piuttosto forte.

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Come è successo a République il martedì sera successivo. Sono lì che aspetto una mia amica, seduta su una panchina di fianco a un bar-ristorante, e passa un ragazzo con una busta verde sottobraccio. "Dimmi che non aspetti il tuo ragazzo, ti prego." Quella frase mi fa ridere, ed è così che conosco Abdelkarim, di 23 anni. Non so molto sul suo conto perché la nostra conversazione si interrompe non appena mi chiede che faccio "di bello nella vita." Alla risposta "giornalista", passa alla carica: "La giornalista? Ah, bene. Allora sei una massona? O tu o tuo padre." Poi si mette a parlare di teorie del complotto, stampa criminale e attacchi di Charlie Hebdo voluti da Hollande per racimolare voti. "Secondo te uno va a fare un attentato portandosi dietro la carta d'indentità? E perché i telegiornali non dicono niente quando è Israele che ammazza i bambini a Gaza? I giornalisti, gente di cui non ti puoi proprio fidare," continua.

Non è la prima volta che sento queste cose, e in tutta tranquillità cerco di rispondere alle critiche più costruttive. "Ti sembrerà cinico, e lo è, ma è la verità, la pura e semplice verità," gli dico mentre parlo della regola non scritta della "morte al chilometro," per la quale il valore di una morte nell'economia dell'informazione è tanto maggiore quanto questa è più vicina alla realtà del pubblico. Cerco un terreno comune, ma lui non ne vuole sapere, e finiamo a parlare di me quando il mio obiettivo era capire qualcosa di più su di lui.

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Il giorno dopo è il turno di due studenti che incontro di fianco alla Sorbona. Mi propongono di unirmi al loro tavolo per una birra. Frequentano storia e scienze politiche, e quando accetto mi guardano con aria sorpresa. Ma la conversazione prende immeditamente un'altra piega. "Stai scrivendo un articolo per VICE? Ah. Guarda, io leggo solo la stampa estera, quella francese manco la guardo. Le Monde ormai è di destra, e Libération, lasciamo stare," mi dice uno dei due. Che subito dopo aggiunge di voler lavorare nella "dipolomazia o fare il lobbista, magari entrambe le cose."

Qualche minuto più tardi il suo amico, più silenzioso, va via e mi lascia con Matthieu, che mi rifila una banalità dopo l'altra sul sistema dei media e la "dittatura delle emozioni." Non ho più voglia di starlo ad ascoltare, e mentre ci allontaniamo dal bar tenta il tutto per tutto. "Dai, passa da me. Abito qua dietro. Possiamo…" poi si ferma. Siamo per strada, in pieno giorno, nessuno dei due è brillo. Gli riconosco una certa dose di coraggio, ma resto in silenzio in attesa che completi la frase.

Potrei fargli capire che so cosa intende o declinare direttamente l'invito senza lasciagli completare la frase, o anche solo fingere di essere in ritardo e andarmene. Aspetto, finché non dice, "Possiamo andare da me per stare un po' più tranquilli." Rifiuto, e lui, ancora più sorpreso del mio primo sì, ribatte, "Allora perché ti sei seduta a bere con noi, scusa?" Sembra infastidito, e per rimarcarlo aggiunge: "Che poi Judith è un nome da zoccola." E da qui capisco che Matthieu non è ancora pronto per la diplomazia.

*Tutti i nomi sono stati modificati. Thumbnail via Flickr

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