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A8N8: Sei del deserto e non lo sai

Sono dappertutto!

La paura di diventare noi stessi zombi abita a venti metri di distanza dal terrore di venire afflitti dalla demenza e non riconoscere mai più i nostri cari. Ma di cosa parliamo quando parliamo di zombi?

Illustrazioni di Ratigher

1.
Che splendida giornata di sole, in Georgia! Cielo blu, una infinita distesa di campi che digradano dalle colline, nuvole che fendono il cielo. Il paesaggio è solcato da un’autostrada. Pulita, ben tenuta. Ecco però che arriva un’auto. A guidarla è un uomo vestito da ufficiale di polizia, ma il suo contegno è tradito da un volto esausto, sconvolto, con la barba mal fatta. Il veicolo svolta verso una stazione di servizio, si fa strada tra una massa tentacolare di auto abbandonate e ammassate. L’uomo, non riuscendo a raggiungere i distributori, ferma il motore. Esce dal veicolo. Si sentono solo il vento, lo sventolio di un’insegna con scritto “NO GAS”, e le mosche. L’uomo si guarda intorno. Vede biancheria stesa ad asciugare tra le auto, lattine vuote, tende, lenzuola incollate alle fiancate delle macchine. E i morti ammassati al loro interno. Gente morta in attesa. L’uomo si gira, ancora incapace di assimilare ciò che ha visto, ma sente un rumore, e d’istinto si butta a terra e guarda sotto le macchine. Pantofole a forma di coniglietto si muovono a passetti in direzione di un orso di peluche. La bambina lo raccoglie. L’uomo cerca di raggiungerla e la chiama; Sono della polizia, le dice, posso aiutarti. Lei si volta. Lo osserva con uno sguardo vacuo; ha la pelle tesa sul cranio, non ha labbra, ha i ferretti dell’apparecchio incrostati di carne marcia. Ed è morta. Morta nel senso che sappiamo. Lui le spara in testa.
Tutti hanno presente, bene o male, l’inizio di The walking dead, la serie trasmessa da AMC (la rete televisiva anche promotrice di quella trionfale serie sui calvi che producono metanfetamine).
Questo qui sopra è un riassunto, molto povero, della sceneggiatura a cura di Frank Darabont del primo episodio. The walking dead, basata sulla graphic novel dallo stesso titolo, si è posta—ed è stata promossa con un anticipo di mesi e mesi—come la serie tv-veicolo della consacrazione di massa del reboot zombi che abbiamo salutato con la mano e accolto con calore negli ultimi dieci anni. Peccato, perciò, un vero peccato, che il The walking dead non diretto o scritto da Darabont si sia trasformato in un paludoso agglomerato di Personaggi Che Si Lamentano e Morale Antiabortista in cui la struttura narrativa incespica in un Intreccio Non Interessante e, come si anticipava, giocare la carta della morale è bello quando si hanno 19 episodi da scrivere. 2.
Una delle caratteristiche di spicco dei prodotti zombicentrici è la prevalenza del fattore sopravvivenza sul fattore morale. Nota bene, non sempre: ci si sofferma sul perché stiamo uccidendo a fucilate in testa un nostro caro (28 giorni dopo, per dirne una), ma è proprio la sospensione di un principio morale nei confronti dell’estraneo (che non è estraneo, è me stesso, un umano, però morto) che rende i morti viventi le creature più meravigliose, e anche più inspiegabilmente e attualmente amate, nell’universo (cinematografico, fumettistico, videoludico, letterario) delle cose che vorrebbero distruggere l’umanità. Ed è ormai incontestabile la diffusione del fenomeno in senso mainstream. Esattamente in parallelo con il riscatto dei nerd da realtà di nicchia, ecco il riscatto degli zombi. Si vendono magliette di Hello Kitty nerd esattamente come si vedono tatuaggi di Hello Kitty zombie.
Nessuno è più al sicuro. I quotidiani nazionali gridano alla "droga zombi che rende le persone cannibali" e poi sono costretti a ridimensionare sostenendo che la situazione non è poi così grave.
I morti non solo hanno ripreso vita, ma si sono trasformati nell’alternativa hip al vampiro che, se vogliamo, è altrettanto morto e votato a un unico impulso: il sangue. Ma, nell’esserlo, è cosciente. Per come è approcciato dalla cultura popolare, lo zombi è molto più vicino al mostro, alla creatura, al trattamento sparare-per-uccidere, piuttosto che al vampiro (che tradizionalmente è sinistro, ma astuto e seducente, e santo cielo Edward tu non sei umano, sei qualcosa di più!) o all’alieno (che è esterno a noi, ed è quindi più curioso da analizzare). Gli zombi sono noi—perciò li vogliamo morti. (Di nuovo.) O meglio, gli zombi sono la cosa più vicina a noi, ma anche la più distante: sono privi di conoscenza. 3.
Nel 2008 un canadese di nome Bruce McDonalds ha diretto un film, Pontypool, sceneggiato da Tony Burgess, che l’ha basato sul proprio romanzo Pontypool changes everything. Il film è ambientato interamente in una stazione radio, e le notizie di ciò che sta avvenendo in città vengono trasmesse dall’esterno. In questo modo gli avvenimenti vengono mostrati solo marginalmente, ottenendo un risultato simile alla narrazione radiofonica de La guerra dei mondi di Orson Welles, ma al contrario: qui potrebbe essere il mondo fuori a prendersi gioco della radio. (Oppure no. Niente spoiler.) Sebbene Pontypool sia definito dallo stesso autore un prodotto inequivocabilmente zombi, per certi versi, non è tale: il virus si diffonde attraverso la parola, gli infetti sono vivi, e si intravede una potenziale cura. Eppure, parla in primo luogo dell’uomo privo di coscienza. In fondo, la nostra paura più radicata nei confronti degli zombi non è tanto quella di essere fatti a brandelli (N.B.: anche), ma quella di diventare noi stessi zombi, che abita a venti metri di distanza dal terrore di venire affl itti dalla demenza e non riconoscere mai più i nostri cari.

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4.
C’è da chiedersi come mai gli zombi siano diventati solo ora un fenomeno invece di restare un genere. Non che non se ne parlasse profusamente nei Vangeli, né è da sottovalutare che il Giudizio Universale sia la prima Apocalisse Zombi del mondo cristiano. Dello zombi haitiano che ha dato luogo alla definizione (e, perifericamente, ha creato il mito letterario e cinematografico che tutti conosciamo) parla esaustivamente Nzambi, il documentario del 2011 di VICE, e così abbiamo sistemato l’autoreferenzialità e non ci si pensa più. I primi film del genere sono strettamente legati ai miti voodoo riportati direttamente da Haiti; si pensi a L’Isola degli zombies, del 1932, comunemente ritenuto il primo film zombi della storia. Victor Halperin, il regista, trasporta poi lo scenario zombi in Cambogia (con il successivo Revolt of the zombies, 1936) ed è uno dei primi personaggi attivi a Hollywood a innescare il binomio di successo zombi-esoticità, che si arricchirà in seguito dell’insospettabilmente prolifico ramo “zombi-alieni”: in Plan 9 from outer space, gli alieni di Ed Wood vogliono distruggere l’universo riportando alla vita i morti (gli zombi vengono chiamati “ghouls”). Questa è una tendenza che proseguirà intatta fino a Romero, che arriva nel 1968 e al suo film d’esordio, una robina indipendente intitolata La notte dei morti viventi, crea il suo nuovo genere di zombi cinematografico, codificato, e in vita ancora oggi. Via via che l’horror si rifugia nel b-movie, il film di zombi si tramuta sempre più in un sottogenere. Poi, all’inizio dello scorso decennio, succede qualcosa. 5.
Se la produzione di film e, soprattutto, di videogiochi a tema zombi era sempre stata costante, dal 2002 in poi la produzione di film a medio e alto budget quintuplica. Saranno stati Resident evil, o 28 giorni dopo—con i suoi zombi veloci—a rianimare il survival horror nel cinema? Di certo uno dei fattori cruciali è la popolarizzazione di un genere di nicchia attraverso registi non necessariamente specializzati nel genere (o autori, si pensi al recente Zone One, romanzo di Colson Whitehead), ma che dieci, vent’anni fa guardavano e studiavano questi film. È lo stesso meccanismo per cui ora testate nazionali titolano i propri articoli “La rivincita dei nerd secchioni al potere” (cit.): un regista che, da ragazzino, è stato esposto a un certo tipo di prodotto, specialmente se è un prodotto con propri codici specifici (es.: il film coi morti viventi), sarà tentato dal provare a rifarlo lui stesso. E che si tratti di film serissimi o che si tratti di commedie (poniamo: Danny Boyle, con 28 giorni dopo, ed Edgar Wright, con L’alba dei morti dementi, due esempi non esattamente ad alto costo), l’estetica dei film è andata incontro a un mutamento, si è fatta più realistico-immersiva con l’aiuto di budget più elevati e un maggior debito nei confronti dei videogiochi. Gli horror, più in generale, sono diventati uno dei più grandi richiami di pubblico nelle sale cinematografiche. Sarà, poi, che ogni volta che i fanboy hanno internet in mano, non capiscono più niente: per fare un esempio che non c’entra nulla, Il cavaliere oscuro – il ritorno è diventato il diciottesimo film migliore della storia perché quando un uomo con il fucile incontra un entusiasta con il mouse, l’uomo con il fucile è un uomo morto. Gli utenti di internet sono dei piagnoni molto attaccati al proprio periodo storico, e hanno il potere di decuplicare il fanatismo e la disponibilità di informazioni su un fenomeno. Pertanto, bisogna tenere presente che nei decenni scorsi la mania zombi fosse già ben presente, ma è altrettanto necessario considerare che quella di questi anni non è soltanto un’illusione dovuta a internet, è una realtà resa concreta da internet.
C’è anche chi, come Nick Pearce, ricercatore all’università di Durham, sostiene che gli zombi moderni, molto diversi da quelli de L’isola degli zombies, non hanno il potere di liberarsi da un maestro voodoo che li controlli, e rappresentano la fine della speranza nel futuro. La fama degli zombi, oggigiorno, deriva dal fatto che il tema è percorso dallo stesso sentimento di impotenza di molti membri della nostra società. Che è un po’ come la teoria di dieci anni fa secondo cui i fan del Signore degli anelli avrebbero cercato, nella fantasia, un rifugio dal nostro mondo: affascinante, ma no.

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6.
Ogni prodotto ben costruito si accompagna a una sovrastruttura ben salda—Romero, oltre a essere considerato il padre dello zombi moderno, ha avuto l’intelligenza di fornire i suoi film di un sottotesto sociopolitico ed è stato immediatamente consacrato come il padre della critica al consumismo grazie all’ambientazione in un centro commerciale di Zombi (in originale Dawn of the Dead, 1978) e, ancor prima, come il maestro delle analogie con il Vietnam grazie all’uso di materiale di repertorio in La città verrà distrutta all’alba (1973), uno dei suoi film senza i morti viventi. Che prenda o meno spunto da Romero, l’interpretazione sociologica del fenomeno zombi è tenuta in alta considerazione dai diretti coinvolti.
Ho domandato a Megan Aileen Williams, una degli organizzatori dello World Zombie Day di Londra, come si spiegasse il tuffo nel mainstream dei morti viventi, e lei mi ha dato una risposta simile nella sua impostazione, eppure opposta: “Sembra che, in tempi di instabilità civile, i film zombi abbiano più popolarità. La fine degli anni Sessanta, i primi anni Ottanta, gli anni Duemila in particolare sono stati periodi in cui si è sentito il desiderio di opporsi al sistema. Gli zombi sembrano riflettere quest’urgenza di agire compattamente, come gruppo, e contemporaneamente parlano del bisogno che le persone hanno di combattere le orde prive di coscienza. È un po’ l’opposto dell’isolamento degli anni Novanta, quando furoreggiavano vampiri e streghe.”
Lo World Zombie Day è un’altra delle iniziative diffusesi grazie al Supremo Potere di Internet nella seconda metà degli anni Duemila. Scusate la metafora spicciola, ma, nata al Monroeville Mall di Pittsburgh (lo stesso centro commerciale in cui Romero aveva diretto Zombi) nel 2006, l’infezione si è trasmessa a New York, Parigi, Hong Kong, Tokyo, e anche in città con meno di sette milioni di abitanti. C’è una gara, tra le varie città partecipanti, per raccogliere il maggior numero di zombi. Lo World Zombie Day di Londra non è certo il più antico (compirà quattro anni il 13 ottobre), ma ha anche un risvolto di beneficenza e ha potuto vantare una Audrey Hepburn zombi, uno Spock zombi, degli zombi mariachi, e una certa inclinazione a uscire dai ranghi del flash mob: “Lo World Zombie Day di Londra è un mix abbastanza curioso tra un flash mob e un giro di pub in pub. L’atteggiamento da pub agevola l’elemento sociale dell’evento, mentre l’elemento processionale del flash mob ci permette di mescolarci con il pubblico, di interagire con il mondo ‘reale’. La maggior parte delle persone partecipano per divertirsi, ma cerchiamo di trasmettere un messaggio di fondo. Mostrare a turisti e passanti l’inatteso li risveglia dalla quotidianità. Che li spaventi, che li sorprenda, che li diverta, può comunque mostrar loro qualcosa di nuovo.”

7.
Se lo si osserva a livello strutturale, il prodotto zombi fonda il proprio successo su una riconoscibile, e vincente, intelaiatura narrativa. La storia ruota intorno a un gruppo di sopravvissuti, e al loro isolamento; per questo Seth Grahame-Smith ha potuto servirsi (non troppo intelligentemente, ne parliamo più avanti) del già isolato microcosmo di Orgoglio e pregiudizio per creare Orgoglio e pregiudizio e zombie. Una delle attrattive principali nello sviluppo narrativo, in attesa della sequenza di azione, è la dinamica del gruppo. E quale territorio è più fertile di uno in cui l’umanità compare solo a sprazzi, spesso mangiata viva? The walking dead, lo si diceva prima, trabocca di tale dinamica e ne abusa: il Leader, l’Aiutante, l’Elemento Disturbante, la Damigella in Pericolo, il Tale Incline allo Scherzo, l’Anziano Onorevole, il Goffo ma Nobile. Come in ogni coppia insoddisfatta, la tensione inerente al gruppo crea un potenziale per il conflitto quando all’orizzonte non pare profilarsi il problema principale: i morti viventi.
L’altro punto di forza narrativo del racconto zombi è la sua biunivocità: che prenda la direzione serissima, e venga quindi sviluppato attraverso la costruzione della tensione, o che imbocchi la strada della zombie comedy, la narrazione riesce a svolgersi senza troppi tempi (ah-ha) morti. Il legame a filo doppio con i b-movie, il sangue fluorescente dei film di Romero e, in generale, i trucchi prostetici sopra le righe, oltre al fatto che stiamo parlando di esseri umani morti, hanno sviluppato una tendenza a trattare il genere con umorismo.
La zom com è a pieno titolo diventata una sottocategoria del genere. Il problema principale, in questo caso, è che la deriva semplificata della zom com divenga quello che mi piace chiamare Il Pretesto per il LOL®, ovvero la strumentalizzazione del fenomeno in una serie di prodotti senza una propria struttura narrativa. Orgoglio e pregiudizio e zombie, una lettura gradevole, è un’inoffensiva serie di aggiunte gore all’intoccato romanzo di Jane Austen. Il romanzo è una sorta di meme, divertente perché Oh! Queste donne del primo Ottocento dal carattere forte combattono gli zombi! La spiacevolezza di questo prodotto e di svariate immagini che circolano su Facebook e di Hello Kitty zombi non è che non facciano ridere (spesso fanno ridere; di certo non il gatto), bensì che si approprino di un nome e di certe caratteristiche (es.: gli zombi che mangiano le cervella) per creare qualcosa di non originale.
Il terreno, è vero, è stato talmente battuto che il miscuglio di generi è inevitabile, e l’umorismo, sì, può funzionare anche soltanto quanto a modi buffi di ammazzare persone (vive o morte; lo ha dimostrato Romero con il suo recente Survival of the dead, 2010); ma può essere anche inerente alla struttura stessa. Dead Set, la miniserie in cinque episodi ideata da Charlie Brooker nel 2008 per E4, racconta la diffusione di un virus zombi all’esterno e all’interno della casa del Grande Fratello. La serie e la mano di Charlie Brooker danno, ovviamente, adito a spunti di satira nei confronti della televisione, ma Brooker riesce a non renderlo un pamphlet di critica sociale e sa far convivere struttura, dinamiche del gruppo (a doppio livello, se consideriamo che i concorrenti del gioco sono già esclusi dal mondo), e membri del vero Grande Fratello inglese che si massacrano a vicenda.
Dead Set, è vero, fa il marginale errore di molti: non contempla gli zombi all’interno del proprio universo. Niente meta, siamo inglesi: i protagonisti non sanno cosa sta accadendo, non capiscono da cosa sono circondati, eppure immediatamente reagiscono e si trasformano in cecchini. E, se è vero che un personaggio che continua a ricordare “Ehi, è come in quei film di zombi” è un potenziale FASTIDIO ATROCE, altrettanto presente e rumorosa è la totale mancanza di autoironia nel non inserire alcun riferimento al fatto che queste cose che ci attaccano somigliano proprio agli zombi.

8.
Forse ciò che distingue il prodotto zombi originale dal prodotto zombi derivativo è l’assenza della parola “zombi”. Lo ha chiarito Tony Burgess, l’autore di Pontypool, parlando della sceneggiatura per il film in un’intervista su Twitch, il portale dei film indipendenti e di culto: “Nei film zombi, [la parola con la Z] è una parola del pubblico. I personaggi nei film zombi non dicono, in genere, ‘Penso che quello sia uno zombi’, il pubblico lo fa. Perciò, anche nel caso che non stessimo sfuggendo il nostro genere di riferimento (Ooops!) non penso avremmo usato la parola con la Z. Ma naturalmente non possiamo né vogliamo impedire al pubblico di usarla. Orde di automi insanguinati e balbettanti! Dai, su, non sono gli orsetti del cuore.” 9.
L’uscita di World War Z, il film zombi più atteso del 2012, è stata spostata al 2013. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Max Brooks, che con gli zombi ha solidificato la sua carriera di autore. World War Z è, oggi, uno dei prodotti migliori della categoria, e lo è nella maniera più subdola e inventiva possibile, se si considera il genere di riferimento. La tensione è centellinata. I momenti di suspense pura sono vigorosi eppure rarissimi. Il romanzo avanza senza soffermarsi sui dettagli scabrosi, ed è il libro di zombi più privo di zombi mai letto. Brooks, sin dalla prima pagina, firma un contratto con il lettore: questa è una raccolta scritta di racconti orali di persone che si sono trovate ad affrontare la guerra mondiale contro gli zombi. Ciò che ne deriva è un affresco geopolitico del mondo intero, che studia i contrattacchi dei governi e dei singoli individui. Brooks è sistematico e metodico come lo era nel Manuale per sopravvivere agli zombi: prende in esame ogni caso, non se ne innamora troppo, ci lascia con una serie di racconti di cui inevitabilmente vorremmo sapere di più ma non sapremo mai nulla. È un caso unico, ma funziona a prescindere dal gore, come del resto faceva Pontypool. Ottenere una versione cinematografica di tale analiticità potrebbe rivelarsi un fallimento atroce che si sofferma troppo sul dettaglio, oppure un trionfo. Non scollerebbe definitivamente gli zombi dal gore, ma li farebbe avanzare—lentamente e incespicando, come l’armata di non-morti che in effetti sono—verso una nuova conformazione del loro genere di partenza.