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Intervista a mia nonna partigiana

I miei moti di ribellione non sono nulla in confronto a quelli di mia nonna, che nel 1943, appena ventenne, decise di unirsi alle brigate partigiane e riuscì a scappare dopo essere stata arrestata dai fascisti, rapata a zero e aver rischiato la...

Anche se a volte piango per i film, ho sempre pensato di essere una dura che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Devo ammettere però che i miei moti di ribellione sono abbastanza deludenti, soprattutto se paragonati a quelli di mia nonna: Margherita Mo, nome di battaglia Megghi, classe 1923, che alla mia età aveva già contribuito a liberare l'Italia da un movimento nazionalista, autoritario e totalitario. È in momenti come questi che spero che tutta quella storia delle costellazioni familiari di Hellinger sia vera, o forse no.

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Chiuso il breve paragrafo psicoterapia, apro il lungo capitolo nonna. Megghi viveva nelle Langhe, precisamente a Lequio Berria, un piccolo paesino di 500 anime a 500 metri di altezza in una zona collinare tra i fiumi Tanaro, Belbo e Bormida. Nel 1943, appena ventenne, decise di unirsi alle brigate partigiane; fu una delle ribelli che conquistò la città di Alba il 10 ottobre e una delle duecento che la persero 23 giorni dopo, il 2 novembre. Nonostante questo lei e i suoi compagni non si arresero e ritiratisi sulle colline intorno alla città combatterono in ogni modo.

Personalmente, ho sempre pensato che mia nonna sia un esempio di come dovrebbero essere tutte le donne: forti, testarde, indipendenti e amanti dei gioielli. Più per questo che per l'Anniversario della Liberazione, che come dice la Megghi si dovrebbe festeggiare ogni giorno, ho deciso di intervistarla. Quello che leggerete qua sotto è il risultato di una chiacchierata fatta al telefono, in cui ho chiesto a mia nonna come diamine ha fatto a fare quello che ha fatto quando aveva vent'anni.

VICE: Ciao nonna, com'è iniziata la tua giornata oggi?
Megghi: Oggi è iniziata bene, mi sono svegliata alle otto per sentire il telegiornale e sono molto delusa di come è oggi l'Italia, vorrei dimezzare tutti quelli che sono laggiù che comandano, che nervoso… comunque poi ho bevuto il tè con mezzo chilo di biscotti, ho dato da mangiare ai gatti—quella bianca è incinta—poi ho rassettato un po' la casa e fatto le solite cose.

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Megghi oggi mentre mette a posto i fiori del suo giardino.

Com'era la tua giornata di settant'anni fa?
Dormivo con mia mamma e mia sorella, mi alzavo alle sette e bevevo il latte della nostra mucca con i grissini che faceva la mia mamma. Pensa che andava a cuocerli fino al forno in paese. Dopo colazione preparavo il lavoro per le ragazze che venivano a cucire da me, ero una sarta.

Cosa facevano i tuoi coetanei in paese? A cosa si interessavano?
I miei coetanei lavoravano la terra e si alzavano anche alle cinque del mattino. Venivano da manovali a lavorare la nostra terra, si interessavano a ingrassare i vitelli e soprattutto a prendere i soldi. Alla domenica si vestivano tutti bene con la camicia e andavano in festa a ballare con le morose. Eravamo tutti felici perché sembrava non ci mancasse niente.

E invece, come mai hai deciso di diventare una staffetta partigiana, cosa avevi percepito che non ti andava giù?
Ero molto arrabbiata perché dopo l'8 settembre [giornata in cui venne proclamato l'armistizio con gli Alleati] arrivarono i ragazzi della quarta armata. Erano sbandati, cercavano indumenti civili, buttavano via le armi e volevano solo tornare a casa. Tutti noi volevamo aiutarli perché pensavamo che la guerra fosse finita, e invece era appena iniziata. L'Italia venne occupata, alcuni soldati italiani finirono nei lager, altri scapparono nella campagne. Poco dopo si formarono delle bande di ragazzi che invece di presentarsi al Distretto si erano dati alla macchia.

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Siccome la pensavo come loro, mi sono messa a informarli di ciò che accadeva. Quando i fascisti insieme ai tedeschi venivano su nelle mie Langhe per prenderli, io li informavo e li nascondevo, dicendo quando arrivavano e quando se ne andavano. Loro ci minacciavano di bruciare le nostre case. Non mi facevano paura, perché ero più furba di loro.

Megghi con la sua bicicletta (la foto era un regalo per il marito Mario, come si legge nella dedica).

Conoscendo il tuo carattere da comandina non mi sembra strano definirti una lottatrice, ma come è stato per te scoprire di poterlo essere? Ti ha fatto paura smettere di fare la sarta e diventare una staffetta o ti ha esaltato l'idea di fregarli tutti andando in bici da Murazzano a Torino piena di informazioni nascoste?
Non avevo paura, le mie armi erano la bicicletta per portare ordini e per tenere i collegamenti e gli scarponcini perché mettevo i bigliettini dentro sotto la suola. Quelle erano le mie armi, delle scarpe e una bici. Economico no? Alla fine da Ceva a Torino sono 100 chilometri, io la facevo avanti e indietro in un giorno solo. A ripensarci ho fatto più strada io di Bartali! Proprio di più!

Cosa significava allora resistenza, cosa potrebbe significare oggi?
Resistenza vuol dire libertà, allora ce l'avevano rubata e noi ce la siamo ripresa, e ora dico ai giovani, quando vado nelle scuole, di stare attenti perché se la potrebbero riprendere di nuovo, perché niente è per sempre, e di farsi furbi. Nessun uomo può sopprimere la libertà di un altro uomo, che lo sappiano.

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Che rilevanza ha avuto la politica nella tua scelta di diventare partigiana? Ti sentivi affine a qualche partito?
Io non facevo parte di nessun partito, la nostra formazione era autonoma e non dipendeva da nessun partito. Scrivi che non ero un'anarchica però.

Mi racconti di quella volta che ti hanno rapato a zero?
Ero in missione, durante un rastrellamento, mi hanno presa a San Michele di Mondovì, ero in bicicletta. Mi hanno portato in caserma, mi hanno schiaffeggiata e hanno frugato da tutte le parti: ma non ha trovato niente, cretini. Mi hanno detto che otto fucili sarebbero stati puntati contro di me, se non avessi parlato. Mi hanno fatto girare tutto il paese con una pattuglia di sette soldati, mi hanno portato da un barbiere e mi hanno fatto tagliare i capelli a zero. Io gli ho detto: "Se dovete ammazzarmi, lasciatemi i capelli!" e loro mi han detto: "Morirai brutta!" Che porci.

Poi mi han portato sulla piazza per fucilarmi ed è arrivato l'ordine di non fucilarmi, perché mi avrebbero portato dal Colonnello Languasco, che era il famigerato Capo dei Cacciatori degli Appennini. Arrivata lì, lui voleva che io gli spifferassi tutto. Io mi son fatta vedere una bella contadinotta ignorante e stupida, ho fatto la civetta e gli ho detto che mi ero innamorata di un partigiano che cercavo durante il rastrellamento e che non avevo niente da che fare con i partigiani.

E poi ti hanno offerto di lavorare per loro, giusto?
Lui mi ha minacciata, mi ha detto che non avessi lavorato per loro, mi avrebbe "passato per le armi" ed io da ignorante gli ho detto che non sapevo passare per le armi. Poi ho fatto finta di accettare la sua proposta di lavorare per loro portando informazioni sui nascondigli dei partigiani: per ogni combattente preso mi avrebbe dato mille lire, che all'epoca erano proprio un bel po'. Inoltre alla fine della guerra il Duce mi avrebbe dato un bel posto in cui stare e tanti soldi se gli avessi fatto catturare qualche comandante.

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Il mattino successivo mi hanno mandato in missione, dandomi una bicicletta e minacciando che se non avessi rispettato gli accordi avrebbero bruciato la mia casa, messo in prigione mia madre e fucilato mio fratello che poverino era già morto in Germania. Io ovviamente avevo dato loro informazioni false come lo erano i miei documenti. Ignoranti. Così me ne sono andata schizzando come una saetta con la mia bicicletta nelle stradine dei boschi. Loro pensavano che senza capelli non avrei più potuto far nulla, ma io li ho fregati con la parrucca che mi son comprata a Torino.

Nella foto che tutti i miei amici amano sei sul ponte di Cuneo con in mano uno sten. Escluso il momento in cui è stata scattata quella foto, hai mai impugnato un'arma?
Il ponte è quello di Torino, non di Cuneo, la foto è stata scattata il giorno della parata quando abbiamo liberato Torino. La parata in cui un proiettile sparato in aria ha colpito Adriano [uno dei partigiani più giovani al tempo, sopravvissuto all'evento] nella mascella. Io non ho mai impugnato armi, solo bicicletta e scarpe. Una volta ho provato a guidare un sidecar con Nano [migliore amico di mia nonna da settant'anni], ma son finita in un fosso. Comunque hai visto che bei capelli che ho nella foto? Quella è la famosa parrucca. Mi stava proprio bene, sembravan miei. Alla fine mi han fatto un piacere a rasarmi a zero, i capelli mi son ricresciuti belli lucidi e forti e non li ho mai persi.

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Megghi e Nano, il suo migliore amico.

Che sensazioni provi oggi quando ripensi a quelle cose?
Sono orgogliosa, molto, di averlo fatto e se capitasse lo rifarei ancora. La mia divisione era comandata da Piero Balbo, detto Poli, uno splendido ufficiale della marina. Era partito con dieci uomini, a fine guerra eravamo 1500 partigiani. Su Poli ci han fatto pure un film, Il partigiano Johnny, lui è Nord. Ma lui era più bello di quell'attore lì [Claudio Amendola].

Una volta mi hai confessato che al referendum del '45 avevi votato Monarchia. Ora che sono passati settant'anni sei ancora per la Monarchia o hai trovato del fascino nella Repubblica?
No, monarchica non lo sono più da tanto tempo, quanto alla Repubblica non posso parlarne bene, perché c'è un Parlamento che non mi piace e troppi giovani non hanno lavoro.

Ciao nonna, ora ti saluto, cosa farai questa sera?
Prima mangerò latte e biscotti, poi un po' di cioccolato e prima di dormire farò la Settimana Enigmistica che allena la mente. A proposito, sabato vado a ricordare a Valdivilla (CN) tutti i partigiani che hanno combattuto per la libertà e poi vado a fare un bel pranzo con tutti quelli che sono avanzati. Se volete venire siete tutti invitati, ma bisogna prenotare.

Segui Lupita su Twitter: @Lupita_Palomera