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A10N4: Animaletti vivi schiacciati sotto tacchi a spillo

La strategia del patriarca

I georgiani hanno una mentalità in parte europea e in parte mediorientale, ma soprattutto russa, e se non volete sconcertarli, evitate di parlargli di religione e omosessualità.

Un manifestante anti omosessuali con un esplicito cartello davanti al Palazzo del Parlamento. La Georgia è in Asia Centrale, ma chiunque vi sia stato ha potuto avvertire il legame con l’Europa del Sud, la mentalità lontana dai vicini mediorientali e soprattutto dai russi. Uno straniero si può ritrovare con facilità invitato da uno sconosciuto a un banchetto che può durare ore, dove il capotavola vorrà sapere ogni cosa del vostro Paese, della vostra casa, dei vostri amici e pensieri sul mondo. Ci sono soltanto due argomenti che non vanno affrontati se non volete sconcertare il vostro ospite: religione e omosessualità, un tabù per l’intera nazione. Da fine aprile, in tutta la Georgia si è respirato un senso di allarme costante, come prima di una rivoluzione di violenza inaudita. Da nord a sud non si parlava d’altro che del 17 maggio e della possibilità di un gay pride a Tbilisi, e di una legge approvata dal parlamento e firmata il 9 maggio dal presidente Magvelashvili che inseriva nel codice penale il reato di discriminazione sessuale. Nonostante varie postille in cui è specificato che in nessun modo è reso legale il matrimonio tra coppie dello stesso sesso, e nonostante la legge sia inserita in un contesto più ampio che parla di tutela delle minoranze etniche e religiose, questa norma è stata letta dalla Chiesa e dalla maggioranza dell’opinione pubblica come inaccettabile e pericolosa. I giornali hanno titolato per giorni di legge per la legalizzazione dell’omosessualità, con titoli come “È per questo che sono stati eletti?”, con le foto dei pochi ragazzi dell’unico movimento LGBT georgiano che per il 17 maggio 2013 avevano organizzato un flash mob nella centrale via Rustaveli, finendo riempiti di botte e portati in centrale dalla polizia. I giornali più liberali, invece, avevano titoli più soft come “Preti contro omosessuali”, e negli articoli spiegavano che questa legge, necessaria per far rientrare la Georgia nei parametri minimi internazionali sulla tutela dei diritti umani come richiesto dall’Europa, era inconcepibile per un popolo che non aveva mai vissuto la rivoluzione sessuale come accaduto in Occidente tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Alcuni preti avevano predicato durante la messa che accettare questa legge significava spalancare le porte a una nuova Sodoma e Gomorra. Un uomo legge un giornale su di un pullmino. L’articolo titola polemico: “È per questo che vi abbiamo eletto?” con chiaro riferimento alla legge anti- discrimina- zione. Nella foto sono ritratti i componenti del gruppo LGBT IDENTOBA. Ma quello che più conta è l’ultima parola del Patriarca, che ha definitivamente sancito come inaccettabile questa legge per qualsiasi fedele georgiano. E qui, la parola del Patriarca è la vera e sola legge da ascoltare, la legge Santa. I georgiani sono cristiani da sempre. La chiesa georgiana si definisce ortodossa apostolica autocefala, cioè una chiesa indipendente dalle altre, seppure ortodossa, con un suo Patriarca e una sua liturgia. Dal 1991 in poi, dopo secoli di occupazione, la neonata Georgia indipendente ha visto nella possibilità di tornare alla propria religione un ritrovato senso di unità nazionale. Nel susseguirsi di colpi di stato, guerre civili, perdite di territori, rivoluzioni e politici più o meno carismatici, un solo uomo, il Patriarca Ilia II, è riuscito a mantenere l’unità nazionale grazie alle doti di moderatore e ai suoi svariati viaggi di pace. Il popolo vede nel Patriarca non solo un capo spirituale, ma il fautore stesso dell’unità nazionale. La sua parola vale molto più di qualsiasi legge o di qualsiasi governo. Il Patriarca ha dato ordine ai vescovi e ai preti di mantenere il silenzio stampa per non fomentare gli animi già caldi della popolazione. Ma ormai il passaparola è avvenuto e non può più essere fermato. I patrioti georgiani hanno raggiunto il tacito accordo di impedire in qualsiasi modo che il 17 maggio gli omosessuali si facciano beffe della parola di Dio organizzando la loro manifestazione blasfema. Decido di mettermi in contatto con IDENTOBA, l’unica associazione LGBT che sia riuscito a contattare dopo una lunghissima ricerca che ha smosso tutti i miei contatti georgiani. Le notizie sono diverse e contraddittorie. Ci sarà una manifestazione LGBT da una parte della città e una cristiana dall’altra. Poi una nuova notizia è quella che non ci sarà alcuna manifestazione. Infine, l’unica notizia sicura è che il Patriarca ha istituito per il 17 maggio una nuova festa per il calendario georgiano: “La festa dell’unità familiare”. Decisione presa sette giorni prima, l’11 maggio. Scacco matto. Beatificare una giornata significa bloccare qualsiasi possibilità di altra manifestazione. Dalla fitta nebbia che avvolge l’ambiente gay georgiano mi appare Andrea, l’office manager di IDENTOBA. Mi dà appuntamento nell’unico locale gay friendly aperto in quei giorni, il Cafe Gallery, un locale molto occidentale. C’è una forte aria di clandestinità in questo incontro. Lo aspetto con la mia amica Tako per un’ora. Finalmente mi si presenta questo ragazzone sulla ventina, tatuato, con l’aria melanconica e triste. IDENTOBA, mi dice, nasce due anni fa come associazione per il supporto psicologico della comunità LGBT di Tbilisi. Dei trenta membri iniziali, sono rimasti in Georgia soltanto in dodici. Dopo le botte del 17 maggio 2013, molti si sono rifugiati in Europa. I manifestanti corrono dopo la messa del Patriarca alla manifestazione davanti al palazzo del Parlamento. Sono loro che l’anno scorso hanno organizzato un flash mob per la Giornata mondiale contro l’omofobia, finito nel sangue. Gli chiedo cosa faranno quest’anno. “Ci hanno rubato la festa”, mi dice, “hanno tolto qualcosa al mondo, questi preti nazisti. Se è una giornata santa sarebbe una bestemmia e una provocazione scendere in piazza, significherebbe che ce la siamo cercata”. Gli chiedo di incontrare altri membri di IDENTOBA. Proviamo a fare un giro nel quartiere, tra gli stencil sui muri di matrice anarcoide che ritraggono il Patriarca con la Tiara a forma di dollaro e un significativo Pink Stalin. Nessuno in giro. Sono tutti fuori Tbilisi, o nascosti in casa. Troppa paura degli eventi per restare in città. All’Università mi presenta due ragazzi che non hanno problemi a farsi fotografare, e a dichiarare di essere orgogliosi dell’omosessualità dei propri amici. Sono i primi georgiani che incontro così espliciti sul tema, anche tra i miei conoscenti più intellettuali e occidentalizzati di Tbilisi. Mi faccio tradurre uno dei discorsi del Patriarca. Rimango colpito: in un momento così delicato con gli animi del popolo in attesa di una scintilla per esplodere, parla loro dicendo che il 17 è una giornata d’amore e che non accetta alcuna provocazione, atteggiamento di violenza o pensiero che non sia di pace. Parole dal peso enorme in quest’atmosfera plumbea. La mattina del 17 mi ritrovo a seguire una fila di fedeli capeggiati da un prete che benedice la strada , colpendo i fedeli come con una frusta di acqua santa. Saliamo nella ripida stradina che porta alla cattedrale di Sameba, sotto un sole cocente. Attorno a noi, mendicanti, fedeli, gente comune, vestita a festa, monaci dalle barbe lunghe e preti in automobile, mentre una schiera di poliziotti blocca il traffico. Non vedo nessuna traccia di fanatici religiosi, ancora. Non riesco neanche ad entrare nella cattedrale, perché sarà il Patriarca in persona, venerato come un santo, a celebrare la messa. I fedeli sono lì dal primo mattino. Resto fuori, in mezzo a gente vestita in abiti tradizionali, che sembra uscita da un medioevo remoto e famiglie che fotografano i propri bambini davanti ai cartelli che inneggiano alla giornata dell’Unità familiare. Comincio a vedere i primi fanatici. Un gruppo di ragazzi indossa magliette nere con cavalieri medioevali stampati che inneggiano alla patria e all’onore. Nostalgici con vecchie bandiere della Prima Repubblica—quella del 1991, prima del colpo di stato di Shevarnadze—tengono banco su come i propri antenati avrebbero passato a fil di spada chi avesse proposto una legge del genere. Ma la vera festa comincia quando arriva il Patriarca. Quando scende dall’auto, i fedeli si inchinano tutti, le ragazze piangono, la piazza di fronte la chiesa tace. Comincia la messa. Non una sola parola omofoba o di monito viene pronunciata, ma soltanto messaggi di pace. Per le circa tre ore di cori e di liturgia, la gente attorno a me resta in estati ascoltando le parole del Patriarca provenienti dagli altoparlanti montati fuori dall’edificio. Alla fine della messa, un fiume di gente si riversa in città dalla collina su cui è costruita Sameba. Chiedo ai ragazzi con le magliette nere e i cavalieri dove vadano. “Ad assaltare il Palazzo del Parlamento, in Via Rustaveli”, mi dicono. Seguo un gruppetto fino al luogo dell’appuntamento. Di fronte al palazzo mi si presenta uno spettacolo molto diverso da quello lasciato appena mezz’ora prima. Nessuna famiglia felice, ma schiere di disoccupati, giovani dalle facce stanche e violente. Veterani di guerra, monaci esaltati, fanatici religiosi e nostalgici monarchici attendono per ore il susseguirsi delle personalità che dal palco si scagliano contro questa legge. La tesi che va per la maggiore ha del surreale: la Georgia non è indipendente. Satana sta lavorando attraverso il governo e l’Europa al suo progetto di debosciamento della gioventù georgiana. Addirittura lo farebbe attraverso i microchip che sono presenti nelle nuove carte di identità georgiane, installate segretamente nella pelle dei ragazzi, che li renderebbe omosessuali. Un ragazzo mi dà un volantino con delle immagini esaustive: una coppia gay, un microchip installato nel collo di qualcuno, e una siringa, presumibilmente droga. Una fedele con le icone di Santo Gabrieli davanti al Palazzo del Parlamento. È la teoria del complotto in salsa ortodossa. Tra i tanti cartelli, icone e bandiere, due banchetti raccolgono le firme per abrogare la legge. Tutto è così lontano dalla messa del Patriarca: folclore e fanatismo sono parte integrante di un disagio sociale diffuso, di una voglia diffusa di violenza e rivalsa, che vede nell’omosessuale il capro espiatorio. Dopo circa quattro ore di discorsi esaltati, si cerca di menare le mani. Un gruppetto segnala la presenza di un gay in una strada vicina. Ci vuole poco prima che il gruppetto diventi una folla e scatti la caccia all’uomo. In centinaia si riversano lungo la scalinata accanto alla metropolitana per fare giustizia. Ragazzoni muscolosi e ubriachi mi dicono: “Tieni pronta la macchina fotografica che ti facciamo fare delle belle foto,” e mimano il gesto internazionale della gola tagliata. Ma arrivati in cima alle scale in una piazza, la folla resta delusa: non c’è nessuno, e i gruppetti cominciano a scontrarsi fra di loro, per sfogare la violenza. Mezz’ora dopo, il corteo finisce e i ragazzi ubriachi e violenti si disperdono nelle strade e nei locali, fischiando e cercando di attirare l’attenzione delle ragazze. Quando arrivo a casa cerco di decifrare la strategia del Patriarca. Istituire una festa santa in questa giornata significava capire esattamente la volontà del popolo georgiano, non ancora pronto a un cambiamento epocale. Incanalare e indirizzare in una strada comune questa volontà di violenza significava in qualche modo spegnere l’ardore degli animi, nel nome di una decisione unica, a discapito di omosessuali e fanatici, in una sorta di compromesso storico. La sera ricevo una telefonata. È un mio amico giornalista. Mi chiede se ho voglia di incontrare una coppia gay georgiana. Mi incontro con Beka e Giovanni in una strada buia. Sono due ragazzi vestiti alla moda, titubanti e diffidenti. Decidiamo di entrare in un bar. La cameriera quasi rifiuta di servirci. Ma Beka è indifferente. Mi racconta di essere fidanzato da un anno, di convivere con Giovanni da molti mesi e di averlo detto alla madre, ma non al padre. “Chi se ne frega del gay pride,” mi dice. “Io non ho niente da dimostrare, se non a me stesso e al mio compagno.” Mi racconta del suo quotidiano, del suo “face control” per non apparire troppo ambiguo quando va a fare la spesa, ma di non avere alcuna paura di vivere a Tbilisi. Eppure si guarda attorno mentre mi parla. I ragazzi dai tavoli accanto cominciano ad interessarsi di noi e a ridere e scambiarsi parole all’orecchio. “Non so cosa sia il vizio,” mi dice Giovanni. “Noi siamo una coppia che si ama, non facciamo marchette, non andiamo in giro la notte, come gli ipocriti georgiani. Non frequentiamo nemmeno locali gay. Perché cercare il ghetto?” Eppure decidiamo di pagare in fretta quando dagli altri tavoli la curiosità comincia a trasformarsi in sguardi sospettosi. Qualcuno fa un commento che non capisco, Beka lo fulmina con lo sguardo. È pronto a fare a botte per difendere il suo orgoglio. Prima di riaccompagnarli a casa, ci fermiamo a comprare un pacchetto di sigarette. Scende Giovanni. Quando torna, Beka gli chiede: “Superato il face control?” “Superato,” gli risponde, e ridono.