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Quello che ho capito sul liceo classico frequentando uno dei licei più fighetti di Milano

Ogni volta che si parla di liceo classico, a parlarne sono sempre persone che l'hanno frequentato in altri tempi, quando era molto diverso da com'è oggi. Io ho frequentato uno dei migliori licei classici di Milano, e questo è quello che ho imparato.

​La mia classe in quarta ginnasio, nel 2004-05. Io sono l'ultimo in basso a destra, il più bello.

​Questo lunedì si sono concluse le consultazioni online sulla riforma dell'istruzione, in corso dal 15 settembre scorso su ​sito apposito. Durante le consultazioni è ricomparsa una proposta che viene avanzata ogni volta che si parla di riformare l'istruzione italiana e che tutte le volte genera un dibattito tanto lungo e tedioso quanto profondamente inutile: sto parlando dell'abolizione del liceo classico.

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Questa volta, a sollevare la questione ci ha pensato l'economista Michele Boldrin, tra i fondatori di Fare per fermare il declino, che in ​​un'intervista ha definito la cultura umanistica "un lusso" che ci si può permettere solo dopo aver ottenuto quelle competenze davvero utili nella vita pratica. Le affermazioni di Boldrin sono state accolte da un coro di critiche e sdegno, a dimostrazione del fatto che il tema sembra stare molto a cuore agli italiani. Tanto a cuore che la scorsa settimana a Torino si è persino tenuto un ​processo simbolico in cui, tanto per cambiare, a difendere il liceo dalle accuse di strumento ingannevole e "inefficiente" c'era Umberto Eco. Alla fine, il verdetto è stato di assoluzione, ma sia Eco che l'economista Andrea Ichino, che sosteneva l'accusa, si sono detti concordi sulla necessità di una riforma.

Da persona che ha frequentato uno dei licei classici più prestigiosi di Milano–un istituto noto, oltre che per la ​preoccupante ​percentuale ​di suicidi tra i suoi studenti, per aver formato alcune tra le personalità da cui prendono il nome gli altri licei classici della città–mi riesce difficile comprendere come l'argomento dell'abolizione del liceo classico possa essere tabù e come si possa polemizzare al riguardo. Al di là delle opinioni personali sull'importanza della cultura classica che "ti apre la mente" infatti, le statistiche dicono che il liceo classico si sta lentamente abolendo da solo.

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Stando a un'inchiesta pubblicata l'anno scorso su l'Espresso, nel giro di sei anni il numero delle iscrizioni ai licei classici italiani si sarebbe dimezzato, passando da più di 65 mila matricole nel 2007 a circa 31 mila nel 2013. Secondo dati del Miur, quest'anno solo il 6 percento dei nuovi iscritti alle superiori avrebbe scelto il liceo classico. A fronte di questo calo di iscrizioni, che si spostano prevalentemente verso il liceo linguistico e scientifico, in molti istituti si chiudono le classi mentre in altri–come il Parini di Milano–si affianca all'indirizzo classico anche quello scientifico.

Al di là dei freddi dati statistici, le affermazioni di Boldrin sul fatto che la cultura umanistica sia un lusso sono ovvietà. Certo che è un lusso: imparare a memoria l'incipit delle Bucoliche di Virgilio non rientra nell'idea di produttività di nessuno. Posto che si tratta di ovvietà, però, se ogni volta che qualcuno tira fuori l'argomento nel dibattito pubblico monta subito una polemica in difesa del liceo classico, dei suoi metodi di insegnamento e del tipo di cultura che incarna, forse bisognerebbe cercare di capire da dove nasca l'alta considerazione che gli italiani sembrano avere per questo indirizzo scolastico.

Per quanto mi riguarda, l'idea che il liceo classico sia una forma di legittimazione culturale per la classe dominante non è mai stata così lontana da ciò che pensavo del mio liceo negli anni in cui l'ho frequentato. Forse è per via del fatto che sono stato il primo nella storia della mia famiglia a iscrivermi a un liceo e non a un istituto tecnico; oppure perché i miei compagni di classe provenivano, in gran parte, da contesti economici migliori del mio; o magari perché nella mia scuola studiavano persone imparentate con Tolstoj o che discendevano da personaggi citati nella Divina Commedia.

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​Il Beccaria negli anni Settanta. Foto ​via

Ma al di là di tutte queste contingenze, la mia impressione che il classico–almeno quello che ho frequentato io–fosse una scuola intrinsecamente classista era rafforzata dall'atteggiamento che stava al fondo del suo metodo educativo: i professori per primi sembravano provare e tentare di trasmettere agli studenti un sentimento immotivato di superiorità; la consapevolezza che in quelle aule si formasse "la futura classe dirigente italiana" era ben presente. E mi è sempre parso che sugli studenti–i quali erano in gran parte di estrazione più o meno alto-borghese–questa retorica facesse presa molto bene. Su di me, invece, non era così: non potevo fare a meno di pensare che, in futuro, la classe dirigente italiana sarebbe stata formata dalle persone che mi stavano sul cazzo al liceo.

Persino l'argomento pretestuoso per cui il latino e il greco ti "aprano la mente" mentre la matematica e la geometria non facciano altro che insegnarti dei metodi per risolvere dei problemi sembra in fondo tornare alla legittimazione culturale. E oltre che pretestuoso, mi pare anche insensato pretendere di stabilire una gerarchia di valore tra la matematica e il greco–e lo testimonia il fatto che io entrambe queste lezioni le passassi in bagno a farmi le canne, senza fare discriminazioni di sorta.

Con questo, non trovo comunque che il classico andrebbe abolito. Anche se la mia esperienza liceale è stata lunga, frustrante e assolutamente inutile, sono certo che ci sono molti altri a cui avrà trasmesso il valore dell'impegno e della dedizione, l'importanza dell'essere metodici e scrupolosi–insegnamenti che, comunque, non sono una prerogativa della formazione classica.​

Per salvarlo dal suo destino di elitarietà forzata, però, bisogna smettere di difenderlo a spada tratta da qualsiasi critica gli venga mossa. Smettere di vederlo come l'ultimo baluardo di una cultura umanistica in declino nel mondo della tecnica: quelli che lo difendono su queste basi sono di solito persone che l'hanno fatto in altri tempi–più o meno nel periodo a cui risaliva la scritta "Reagan boia" che campeggiava sulla facciata del mio istituto. Nel frattempo è cambiato il liceo classico in sé: si è trincerato dietro alla sua idea di "cultura" respingendo ogni novità e rifiutando di adeguarsi alle nuove richieste del mondo del lavoro.

Insomma, occorre dissipare l'aura di sacralità che lo circonda e che ci porta ad avere un'immagine falsata di cosa vuol dire andare al classico: nella maggior parte dei casi, è un'esperienza normalissima, senza certamina e feste in toga. Per quanto mi riguarda poi, sette anni di liceo classico–esatto, sette–non mi hanno insegnato nulla, in termini di bagaglio culturale, che non avrei potuto imparare da solo. La colpa è in parte anche mia, che in quel periodo della mia vita non ero particolarmente ricettivo. Ma al di là della cultura personale, aver fatto il liceo classico nel modo in cui l'ho fatto mi ha insegnato a mettere sempre tutto in discussione: se non fosse stato così, sarei uguale a molti miei ex compagni di liceo. E sappiamo tutti che non c'è destino peggiore che essere uguali ai nostri ex compagni del liceo.

​Segui Mattia su Twitter: ​@mttslv