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A8N4: Il numero dello spettacolo

Monsieur Cannibal

A Ruggero Deodato, regista di Cannibal Holocaust, non dà fastidio se lo chiamate così.

Ruggero Deodato è un delizioso signore sulla settantina che da più di trent’anni viene associato all’immagine di una ragazza impalata ricoperta di sangue. Nel 1979 ha dato vita, suo malgrado, a uno dei filoni più truculenti del cinema italico, i cannibal movie, tramite un’ormai leggendaria trilogia composta da Ultimo mondo cannibale, Cannibal Holocaust e Inferno in diretta
Forse una delle pellicole più censurate della storia del cinema, Cannibal Holocaust è l’apice della trilogia cannibalesca di Deodato, talmente realistico da essere tacciato di snuff. Il film racconta la storia di quattro giovani reporter scomparsi nella foresta amazzonica durante le riprese di un documentario sulle tribù indigene. La trama—un succedersi di esecuzioni—si sviluppa attraverso una serie di filmati ritrovati dopo la morte dei quattro. L’abilità nel creare il primo film horror attraverso la tecnica del found footage e il realismo esasperato sono due dei lampi di genio di Deodato che verranno ripresi, alla fine degli anni Novanta, da The Blair Witch Project, meta-documentario sulla scomparsa di tre ragazzi in un bosco narrata attraverso i video girati dal gruppo stesso. 
Infatti, è dopo l’enorme successo di Blair Witch che si è ricominciato a parlare di lui. Ma cos’ha fatto Deodato in questi ultimi trent’anni? Alcuni film degni di nota, come La casa sperduta nel parco, altri che non è necessario ricordare, tantissimi telefilm—da I ragazzi del Muretto a Incantesimo—e una marea di pubblicità. Poi, un giorno, Tarantino si è ricordato di lui e da allora è stato un susseguirsi di proiezioni in festival come la Mostra del Cinema di Venezia, articoli che dopo tre decadi esaltano quello che era sempre stato considerato un filmetto di serie B, cammei in produzioni hollywoodiane. Da qualche tempo Deodato è considerato tra i maestri del found footage, assieme a precursori del calibro di Guy Debord, Bruce Conner e Joseph Cornell.
Il punto di quest’intervista era capire il senso della rivalutazione postmoderna di un certo tipo di cinema. Forse, Deodato, fra le righe, ci ha fornito una risposta, forse no. Sicuramente, nel corso di questa chiacchierata di due ore su Skype, ci ha raccontato moltissimi aneddoti.

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VICE: Ho letto la sua biografia e l’ho trovata molto interessante. È vero che a sette anni dirigeva un’orchestra?
Ruggero Deodato: Sì, in Danimarca [ride]. Ero andato in Danimarca da un parente lontano e ho iniziato a strimpellare il suo pianoforte, al che questo, che era un impresario, mi ha organizzato un’orchestra di una quarantina di elementi—con una di colore che suonava il violino e m’introduceva con jamme jamme jà, funiculì, funiculà. E per tre mesi ho fatto tournée dappertutto, dirigevo l’orchestra, cantavo O sole mio, suonavo un po’ il piano. Quando sono tornato a casa ho portato a mia madre un manifesto della Ruggero Deodato Orchestra e lei fa, “Ma che hai fatto? Ma allora devi andare da un maestro!” Poi mi ha mandato dal suo vecchio maestro d’infanzia che dopo tre giorni mi ha cacciato perché andavo troppo a orecchio. Questa è stata la mia carriera di pianista.

Quindi troppo indisciplinato per diventare un pianista. Poi ha debuttato nel cinema a 16 anni come attore, ma in seguito a un rifiuto di Fellini ha deciso di passare alla regia, e a questo punto diventa assistente di Roberto Rossellini.
All’epoca abitavo nello stesso palazzo di Rossellini ed ero molto amico di suo figlio. Andavo sempre nella loro villa a Santa Marinella dove ho conosciuto Ingrid Bergman, e Cartier-Bresson mi ha insegnato a scattare le prime fotografie, e così sono entrato nell’ambiente. Nel frattempo Rossellini si era molto affezionato a me, che ero un ragazzino molto vivace, e mi disse, “Perché non vieni a farmi da assistente?” Allora io dissi a mio padre: “Papà, vado a fare il cinema.” E lui, che era un prefetto, uno integerrimo, della serie “Dovete studiare, prendere la laurea,” mi guardò e mi disse “Tu lo puoi fare.” Non ho mai saputo se me lo disse perché ero adatto a questo o perché non poteva fare altro.

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E cosa le è rimasto di questa esperienza?
Rossellini per me è stato un padre, un insegnante. Era una persona talmente carismatica che affascinava tutti. Un fascino che ti portava a vederlo più come persona che come regista, perché era l’uomo che ti affascinava. Io ho fatto più di 70 film come aiuto regista, ma non ho mai trovato quel tipo di personalità.

Rossellini improvvisava molto.
Improvvisava moltissimo, come faccio io adesso. Infatti quando mi chiedono da chi sono stato influenzato, io rispondo che i miei tre maestri sono stati Rossellini, che mi ha dato il realismo, che mi ha insegnato come si tratta con la gente semplice, con gli attori che non sono istrioni, che mi ha dato la naturalezza di tutto; poi Sergio Corbucci che mi ha dato la crudeltà e il piglio del regista; e poi Mauro Bolognini che mi ha dato l’eleganza che mi è servita moltissimo per fare pubblicità.

E quindi cosa intende quando si definisce un regista di genereall’americana?
Mi ha battezzato così Luigi Magni. Diceva: “E quello, quello è n’americano,” perché ho sempre cercato di spaziare, per non essere etichettato. Dopo il primo film come regista mi è venuta la depressione, mi sono detto, “E adesso come faccio a competere con altri 400 registi, tutti bravi?” Quattrocento registi di nome, capisce? E competere con quelli era molto difficile. Tant’è vero che il primo film che mi hanno offerto si chiama Donne, botte e bersaglieri con Little Tony. Io andai da Mauro Bolognini e gli dissi “E mo’ che faccio?” Da me, avendo fatto grandi film come aiuto regista, si aspettavano un film impegnato. Lui mi disse “Ma che problema c’hai? Io ho debuttato con Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo ed ecco dove sono arrivato.” Per me, fare un film musicale con Little Tony non è che fosse il massimo. Però lì avevo iniziato a usare delle tecniche speciali, degli obiettivi nuovi, tant’è vero che il produttore l’ha fatto vedere a registi come Risi, per dire “Guarda questo giovane, come usa la macchina presa.”

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Da un certo punto di vista, lei è stato anche un precursore. È stato uno dei primi ad usare il fish-eye e altri obiettivi che all’epoca in Italia—
Sì, specialmente nei primi film. In Ultimo Mondo Cannibale ho sondato come si fa la giungla, che è molto difficile da fotografare. Ci sono i piani, c’è lo sfocato. Poi invece con Cannibal Holocaust il nuovo metodo: la macchina viaggiava, gli effetti speciali che non erano combinati con i tagli cinematografici ma che erano in piano sequenza. E poi non so, usare il 16mm insieme al 35, per dare un effetto realistico sul 16mm. Insomma, tante novità che poi sono andate avanti con quelli che mi hanno copiato un po’.

Chi l’ha copiata?
Prima di tutto i tre giovani di The Blair Witch Project. E quelli mi hanno dato una mano, perché il film si era un po’ addormentato. All’estero andava molto, ma in Italia chi lo considerava più? Invece quando è uscito quel filmero, “Oddio, ma l’hanno copiato completamente! La scaletta è identica!” All’epoca molte televisioni in giro per il mondo intervistarono i giovani nei cinema e tanti risposero, “L’interessante l’ha fatto vent’anni fa un regista italiano, Ruggero Deodato.” Da quel momento casa mia si è riempita di giornalisti. Sono venuti a intervistarmi da tutto il mondo e lì è rinato il film.

Oltre alla scaletta, anche l’idea del finto documentario ricorda quella di Cannibal Holocaust.
Quando abbiamo girato Cannibal Holocaust stavamo in Amazzonia, in mezzo alla giungla, con poche persone e un film che era un canovaccio. C’inventavamo delle cose. Non avrei mai immaginato né tanta violenza, né che il film potesse avere il successo che ha avuto. Ad esempio: gli animali uccisi. Gli animali sono un piccolo topo, un maialino, una tartaruga e le scimmie. Il topo lo mangiavano gli indios. Il maialino è stata una nostra necessità. Un giorno la sarta mi fa, “Ruggè, stiamo sempre a mangià sto pesce dorado, che palle! Ce sta il maialino del villaggio, perché non lo ammazzate che stasera ve lo faccio per cena che è ‘no spettacolo?” E così ho chiamato Barbareschi e gli ho detto, “Domani in scena ammazza sto maialino che ce lo mangiamo per cena.” E così è stato. La tartaruga: la nostra guida colombiana ci fa, “Guarda al villaggio hanno preso sta tartaruga, che loro se la mangiano, ci fanno il brodo. La possiamo ammazzare noi che poi gliela diamo a loro.”

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E gli animalisti—
Dopo 31 anni in cui il film è stato bandito nei Paesi anglosassoni, l’anno scorso un censore inglese ha visto il film e gli è piaciuto. Mi hanno fatto vedere i tagli che sono stati fatti e sai cos’hanno tagliato? Solo la scena del topo. E finalmente, per la prima volta, ho avuto un pubblico vero, non quelli coi piercing, coi tatuaggi, con le mollette sugli occhi. C’era gente normalissima e nessuno nessuno nessuno, per la prima volta, mi ha fatto domande sugli animali. E invece qua ci sono gli animalisti che fanno storie. Che poi, rompere l’anima de che? Andate a rompere per i test sui beagle, per queste cose contemporanee. Io ti parlo di 31 anni fa in mezzo alla giungla, dove se pure te magnavi un cavallo faceva lo stesso.

E com’era fare cinema a Roma, 31 anni fa?
All’epoca l’estrazione sociale nel cinema era diversa. In una troupe trovavi almeno sette persone con pendenze giudiziarie, perché il direttore del carcere di Regina Coeli chiamava e diceva, “Fate lavorare questi che sono appena usciti.” Si fermavano per ogni sciocchezza, tant’è vero che sono diventato subito indispensabile, perché avevo studiato, avevo una presenza, avevo una certa educazione. Però se mi dicono di fare un film solo per te e per quattro scelti, non lo faccio. Penso sempre a un grande pubblico.

Però le sue non sono state quelle che si potrebbero definire scelte commerciali.
No. Se avessi pensato alla commerciabilità avrei fatto film più leggeri. Però quando ero in Amazzonia a girare Cannibal Holocaust mandavamo ogni giorno il girato al Mifed, che era il più grande mercato del mondo. Quando arrivavano i miei spezzoni, senza storia, perché arrivavano solo i pezzi, li compravano tutti come bruscolini. E allora mi chiamava il produttore e mi diceva, “Senti Ruggero, qua si vende come pazzi! Gira di tutto, ammazza chi ti pare! Poi manda perché qua comprano tutti!”

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Quindi gli spezzoni arrivavano a Milano e—
Metti, che ne so, facevo la sequenza dell’adultera, la giravo e la mandavo. E quelli dicevano “Mamma mia, che verità!” Poi a un certo punto, quando il produttore mi ha detto, “Ammazza chi te pare,” ho chiamato lo scenografo, Antonello Geleng—che era un grande creativo, ha lavorato pure con Fellini—e gli ho detto, “Domani impaliamo quella meticcia con cui abbiamo fatto la scena di ieri,” e lui “Ma come la facciamo?” e io gli ho risposto, “Inventatelo!” Insomma, alle sei del mattino questo bussa, apro la porta e mi dice, “La facciamo così: c’è un palo, attaccato al palo c’è il sellino della bicicletta saldato a una stecca di ferro. Lei sta seduta sul sellino col palo sotto, e poi in bocca un palo leggero di legno di balsa, poi la ricopriamo di sangue.” È stato eccezionale. Quando l’ho raccontato a Tarantino mi ha detto, “Fantastico! E quanto ti è costato? Dieci dollari?” Forse meno.

Cannibal Holocaust è un film che fa sicuramente riflettere sulla rappresentazione della violenza. Michael Haneke, a tal proposito, ha dichiarato che il suo intento nel girare Funny Games—che tra l’altro, nella trama ricorda un suo film, La casa sperduta nel parco—era di testare la resistenza dello spettatore ad atti di violenza gratuita, vedere quanto il pubblico potesse resistere prima di abbandonare la sala. Qual era il suo intento? Se ne aveva uno.
Allora, La casa sperduta nel parco è venuto subito dopo Cannibal Holocaust. L’idea era quella di fare un film sul massacro del Circeo, cioè sulla buona società che si accanisce contro la gente di borgata. All’epoca succedeva spesso. A me interessava moltissimo perché in molti di questi casi, come in quello della Montesi, erano incriminati i ragazzi dei Parioli. Però, il riscatto: nel film poi vai contro questa gente, stai col borgataro. La casa sperduta nel parco è molto più violento di Cannibal Holocaust. Cannibal Holocaust l’ho ambientato nella giungla, e nella giungla poteva succedere di tutto. Dopo il processo per Cannibal Holocaust avevo il terrore. La casa sperduta nel parco è stato vietato ai minori di 18 anni, volevano bruciare anche quello. Adesso però è un film che amo perché continua a reggere il tempo. Tornando al suo discorso, non ho mai visto il pubblico di Cannibal Holocaust uscire dalla sala. Anzi, quando nel finale il produttore decide di buttare via il materiale, gli spettatori in sala tirano un sospiro di sollievo. Ho sempre trovato quel sospiro molto educativo.

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Ha voglia di parlare dei guai giudiziari che le ha causato Cannibal Holocaust? C’è stato un processo, no?
[ride] Sì, è stato un errore della produzione, che scelse di farlo uscire in una grande città come Milano. In genere questi film si facevano uscire nei paesetti, dove i magistrati erano molto più teneri. Poi quando ti davano l’OK non avevi più problemi. Invece la United Artists ha scelto di uscire alla grande, a Milano, dove c’era questo giudice, Cerrato, che me lo sequestrò dopo dieci giorni dall’uscita. A quel punto, sequestrato il film, la United Artists mandò a Milano cinque o sei avvocati, i migliori. Secondo l’accusa avevo ucciso gli attori.

Ma la scomparsa degli attori era una clausola del contratto.
Sì. Avevo preso quattro attori all’Actors Studio e avevo detto loro di sparire per un anno. Purtroppo accettarono e questo fu il mio capestro. Io non volevo mettere in circolazione questi attori, allora continuai a non fare nomi. A quel punto feci resuscitare Barbareschi, che era a disposizione. La ragazza non la potevo toccare perché era fidanzata con un giornalista della RAI molto importante. Allora chiamai Barbareschi e quando videro che era vivo cercarono altre motivazioni per condannarmi. Rispolverarono una vecchia legge di pubblica sicurezza del ‘34 che vietava la corrida in Italia perché implicava l’uccisione dell’animale, e quella fu la ragione per darmi quattro mesi con la condizionale.
Quando hanno visionato il film in via Moscova c’erano due donne ai lati del presidente che dopo le prime immagini hanno cominciato a gridare. Io ero seduto tra il presidente e queste due donne che gridavano di spavento, mi sono detto, “Va bè, mi daranno l’ergastolo.” Era proprio una comica [ride]. Però mi sono spaventato, tant’è vero che poi sono sparito dalla circolazione e ho fatto solo pubblicità per due anni.

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E poi?
Poi sono andato a Bogotá da un’amica, una hostess della Avianca, che mi fa: “Vieni a Bogotà che qui c’è una fila chilometrica per vedere il tuo film.” Andai e lei mi portò subito a un party dell’intellighenzia di Bogotá e quando mi presentò come il regista di Cannibal Holocaust fui spintonato, tacciato di maltrattamenti agli indios, mi dissero che l’indomani mi sarebbero venuti a prendere in albergo per portarmi in televisione. Io mi sono spaventato. Vado in albergo e per riposare accendo il televisore e vedo il mio fonico colombiano, che era un amico: “Eh sì, claro que sì, el director es loco, los mató a todos, los niños…” A quel punto mi sono spaventato così tanto che chiamai il mio aiuto regista, che era italiano ma viveva a Cartagena, e gli dissi: “Salvo! Salvami te! Domani mattina non voglio essere in questo albergo.” Lui mi mandò a prendere da uno, chissà chi, che arrivò con una camionetta blindata e mi portò alle Isole del Rosario, che sono degli isolotti piccolissimi e pensa, mi portavano da mangiare con una teleferica da un’altra isola. Sono stato lì una settimana, poi mi hanno preso un aereo per Miami e sono andato via.

Quindi era spaventato.
Abbastanza. Se fossi stato uno alla Jacopetti, uno di quelli col callo, avrei approfittato di questo film, invece no, ero spaventatissimo, e ne ho subito le conseguenze. Se ne approfittavo diventavo miliardario.

Infatti è quello che volevo chiederle. Alla fine del film l’antropologo si chiede, “I wonder who the cannibals are,”e questo è un chiaro riferimento alla troupe del film. È un metafilm sulla violenza nei media in cui i produttori scelgono di non distribuire il documentario e quindi di non trarne profitto. Non è assolutamente un finale scontato. Da questo punto di vista, considerando che il suo capolavoro è diventato un cult per le scene di violenza—

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Non soltanto per le scene di violenza, ma anche per lo stile. È un reality, in fondo ho inventato un reality.

Si è documentato prima di partire o si è documentato sul luogo?
Per alcune scene, come quella dell’adultera, o la nascita del bambino, mi sono documentato prima. Altre sono nate lì. Ma poi la violenza c’è. Questi indos, quando tu li sfrugoli—una volta ammazzi il niño, poi gli bruci il villaggio—alla fine ti fanno la festa, no? Però io stavo dalla parte degli indios, chiaramente.

Secondo lei qual è la scena più cruenta del film?
Forse quella che più mi dà pena—perché poi c’ho messo questa musica ruffiana, bellissima sopra—è la morte di Shandra. Nella scena dell’impalata c’è una cosa che mi fa impazzire, forse la cosa più bella che ho fatto come regista. Quando i ragazzi vanno a vedere l’impalata, uno di loro sorride, poi c’è quello che urla fuori campo, “Guarda che stiamo girando,” allora lui si rattrista e finge. Quello per me è un primo piano d’oro.

Cannibal Holocaust vanta una bellissima colonna sonora di Riz Ortolani. Che ruolo ha la musica in un film volutamente realistico? Dev’essere difficile da gestire.
La cosa che odiavo nei film di genere, nei film d’avventura, nei film violenti, era la musica forte in sottofondo. Così ho scelto di accoppiare le scene di violenza a musica dolce, perché se in un film violento c’è anche la musica violenta, non sai se seguire la musica o l’azione. Ho fatto una prova mettendo una musica dolce e ho visto che funzionava. All’epoca gli specialisti erano due, Ortolani e Morricone, che, nel finale di C’era una volta in America, ha scelto una musica dolce per una scena in cui uno viene tritato nell’immondizia. Allora ho deciso di chiamare Ortolani, che aveva fatto Mondo Cane, che aveva scelto per quel documentario terribile la musica struggente di “More”, e allora ho chiamato lui, temendo che non volesse fare un filmetto, perché il mio lo consideravo tale.

A proposito di Mondo Cane, si è ispirato in qualche modo a quello stile documentaristico?
Ecco, i mondo movie mi sono piaciuti da morire: Mondo Cane, La donna nel mondo, Addio zio Tom, Africa addio. Da morire. Avevano una cosa che amavo ma che non volevo usare nei miei film. Sono stati i primi film con una fotografia fantastica, con dei teleobiettivi che venivano usati per la prima volta. Le inquadrature dall’alto, con la carovana di negri che emigravano, gli animali, questi teleobiettivi al ralenti. Eccezionali, fotograficamente fantastici. Io non potevo fare Cannibal Holocaust con questo tipo di riprese, dovevano essere molto più sciatte, perché dovevo creare un documentario fatto da quattro ragazzetti che non masticavano queste cose. Quindi mi sono detto “Oddio, adesso che faccio? Faccio le belle inquadrature o faccio le inquadrature vere?” E quello è stato il mio primo dilemma. Allora ho optato per le inquadrature sciatte, come avrebbe fatto un qualsiasi dilettante. Questa è stata la formula giusta.

Prima mi ha parlato di Tarantino. Mi ha detto che vi siete incontrati a Los Angeles o sbaglio?
L’avevo incontrato a Venezia nel 2004, quando ha voluto proiettare Cannibal Holocaust e invece di andare a una cena è venuto a rivedere il film con me. È stato divertente perché si spaventava a ogni scena, anche se l’aveva già visto. E poi quando è venuto a Roma con Bastardi senza gloria mi ha invitato, mi ha esaltato tantissimo.

E cosa mi può dire del sequel di Cannibal Holocaust?
C’è un progetto che si chiama Cannibals. Non è un sequel, però è un film forte. È un cannibal movie metropolitano. E poi il sequel deLa casa sperduta nel parco, che mi ha chiesto una produzione inglese, di cui ho scritto la sceneggiatura. Nel frattempo faccio tutto. [ride] Io faccio tutto!

Se sta pensando di girare un altro cannibal movie vuol dire che non ha mai rinnegato quel film. Ho letto da qualche parte che odia l’appellativo monsieur cannibal.
No! Adesso? No, anzi! All’inizio mi sembrava tutto un po’ stonato, ma adesso figurati! Ma che sei matta? Se ce sta la gente che paga per un mio autografo. No, no, adesso non più.

Un paio di anni fa mi sono imbattuta nel lavoro di un artista tedesco, Clemens Von Wedemeyer, interamente incentrato su Ultimo mondo cannibale. Adesso questo artista è stato selezionato per documenta13, forse—insieme alla Biennale di Venezia—uno degli eventi più significativi nel panorama dell’arte contemporanea. Come vive questa rielaborazione intellettuale dei suoi film? L’artista l’ha contattata?
Sì, mi ha contattato. Quando è venuto a trovarmi a Roma mi ha portato una copia del numero del National Geographic che avevo perso in Malesia durante le riprese. Ho fatto Ultimo mondo cannibale perché avevo sotto mano un articolo del National Geographic sui cannibali di Mindanao.

Quindi a lei questa rielaborazione intellettuale del suo lavoro fa solo piacere.
Assolutamente. Il primo grande riscatto l’ho avuto quando, dopo l’uscita di The Blair Witch Project, Il Manifesto—che aveva criticato pesantemente Cannibal Holocaust—mi ha dedicato due pagine a colori scrivendo che ero stato il primo a rivoltarsi contro i media dell’epoca. Il titolo dell’articolo era The Blair Witch Project l’ho fatto io. Adesso glielo cerco su iPhoto. Ah, guardi questa: sa che un mio amico è andato in un ristorante a Malaga, che si chiama Il Laboratorio, in cui oltre alla pizza Argento, pizza Pasolini, pizza Scola, fanno anche la pizza Deodato? Le mando il menu via mail.