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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

White Trash

Un estratto dal romanzo in uscita di Jamie Renda, direttamente dal nostro annuale di narrativa.

Illustrazione di Cristina Peral.

Non avevo intenzione di fare un bambino con Scott nello sgabuzzino, fatta d’ecstasy, il pavimento che pulsava di bassi house, le strobo che baluginavano dalla crepa sotto la porta. Incontri programmati ovunque. Un altro esperimento di morte. Ero un’opportunista. Scott non scopava se non era fatto o sbronzo. Non prendeva mai l’iniziativa col sesso. Stavo sopra. Forse volevo appiccare la scintilla della vita da una pila di cadaveri. Il suo petto è un fusto, il petto di un cavallo. Respirai a tempo con lui. Mi stordiva. Il martellare del suo cuore insanguinato dentro tutta quell’aria mi faceva impazzire. Era bello, come la morte. Era come il Prozac milioni, milioni di volte. Eravamo tutti quelli che c’erano in casa, e qualunque cosa fossimo stavamo per esplodere dalle pareti. Graffi all’intonaco scrostato. La casa cadeva a pezzi. Era svenuto sotto il suo braccio. Quando incontrai Scott per la prima volta, aveva lunghi bellissimi capelli e portava le gonne e lo smalto di sua madre. Metteva il mio rossetto. Quando mi ero presentata, aveva indietreggiato. Aveva detto che amore era una parola troppo forte. Mi piaceva guardarlo sciogliersi. Tremava. Ricaddi su di lui. Sussurrai. “Dio, voglio morire.” *** Quando rimasi incinta, divenne tutto un gran casino. Chiesi a Scott di comprarmi un test di gravidanza. Invece comprò della birra. Sedetti sul pavimento e bevvi la birra. Glielo dissi, a tutti. Scott e Chuck e tutti quelli che dormivano al Mad Hatter. Quando glielo dissi, tutti tornarono immediatamente lucidi tranne Scott, e se andarono tutti tranne lui. Una notte Scott tornò a casa con gli occhi che guardavano in direzioni diverse. Mi sollevò e mi lanciò sul divano e poi svenne sulle scale. Lo schiaffeggiai finché rinvenne abbastanza da permettermi di trascinarlo su per le scale fino a camera sua. Quando traslocai, nessuno diede da mangiare al gatto. Nessuno pulì più nulla. L’immondizia si accumulò. Cercai di dimenticare Chuck. Scott pensava di impiccarsi, ma non riuscì a trovare una trave solida. *** Tornai a casa dei miei genitori. Non gli dissi subito che ero tornata per un buon motivo. Poteva essere come le altre volte che ero tornata a casa e avevo grattato alla finestra perché mi facessero entrare, ero svenuta sul divano, avevo rubato cibo dal freezer, e poi di nuovo me ne ero andata. O comunque stavo facendo altri piani per andarmene. Le volte che mando tutto a puttane e mi vergogno di me stessa, la vergogna fa il suo corso designato da dentro di me verso l’esterno, e la vergogna è amplificata. Lo dissi a mia madre e lei pianse e imprecò. Poi mi ritirai e feci una doccia, raccolsi un po’ di cose, presi le chiavi, e aspettai il contraccolpo. Mi stavo dirigendo alla porta d’ingresso, oltre la stanza in cui sedevano e guardavano la televisione e bevevano vino la sera, quando mio padre mi chiamò per nome. “Jamie.” Sedeva solo sul sofà, fissava qualcosa proprio davanti a sé sulla parete opposta della stanza e si mangiava le unghie. Mia madre, affondata nella sua poltrona troppo imbottita, mi guardava con gli occhi spalancati, come quando sta per dirmi qualcosa di orribile. “Non hai intenzione di avere questo bambino, vero?” chiese. La domanda era più che altro un respiro quando venne fuori. Aveva detto la stessa cosa l’ultima volta che ero rimasta incinta, quando avevo 14 anni. La soluzione era stata: Prozac. Questa volta, mio padre mi fece telefonare e prendere appuntamento per un altro aborto, mentre ascoltava sull’altro telefono. Dopo che presi l’appuntamento, c’era un messaggio pre-registrato sull’aborto, e lo ascoltammo entrambi, lui sulla sua poltrona alla scrivania, io in piedi di fianco a lui. Quando riattaccammo, mi disse, “Fa’ che non succeda mai più.” Mi lasciò tornare in camera. Più tardi pensai di chiedere a mia madre perché volesse uccidere tutti i miei bambini. Come avevo potuto vivere, cresciuta da una donna che uccide bambini come stesse levando insetti da un lavandino? “Terrò questo bambino,” dissi. Lo dissi con molta calma. Iniziai ad andarmene. “Guardati. Non puoi prenderti cura di un bambino. Pensi che lo crescerò io per te? Io lavoro. Ho una vita.” Faceva ampi gesti con un bicchiere di Chardonnay. “Come fai a sapere quello che posso e non posso fare?” Mi sentivo potente. Essere incinta è così—ti fa sentire forte.

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“So che ti droghi. Me l’ha detto tua sorella. Con tutti i difetti congeniti della famiglia, e Dio solo sa che droghe. Oh Jamie.” Poi la voce le si fece arrendevole e triste. “Jamie, cosa farai se nasce ritardato?” *** La prima volta che avevo abortito, per riuscire a non sentire il bambino, feci in modo di non sentire proprio niente. Mia madre mi portò in macchina alla clinica. Poi mi portò a casa in macchina. Mi mandarono all’istituto professionale, e non ne parlammo più. “Amore, pagheremo noi. Poi potrai tornare al college. Andrà tutto bene.” Questo è quello che disse mia madre la seconda volta. Ma non cambiava nulla dai miei ricordi d’adolescenza.

Le dissi no, non l’avrei fatto di nuovo. Aprii la porta. Mentre me ne andavo sentii mio padre dire, “Proprio non capisco come sei diventata così troia.” Quando tornai a casa più tardi mi lasciarono rimanere, perché siamo legati. Ci apparteniamo. Più forte che ogni altra cosa, il bambino mi legava a loro. *** “Cosa sarà?” mi chiese un ragazzino e mi passò la palla. “Gattini,” dissi. Colpii la palla, la passai. I bambini nel cerchio risero. Un gatto si raggomitolò contro il mio ventre sformato. Scott stava a casa tra un viaggio di lavoro—nelle costruzioni—e l’altro. Doveva mantenere il bambino; doveva lavorare. Viveva nella casa di un satanista che anni prima aveva scopato la propria sorella nella stanza color lavanda. Il fratello del satanista una volta era rimasto sveglio tutta notte a bere liquore di malto e si era asportato un pezzo di pelle dal collo con un coltello da cucina, e poi le aveva dato fuoco. Le bottiglie vuote e la pelle bruciata erano rimaste sul tavolo per tutto il tempo che Scott visse lì. Le mosche ronzavano nell’aria intorno a noi. Una notte aspettai col satanista nel salotto di quella casa che Scott tornasse da una festa, perché non aveva un telefono e avevo bisogno di dirgli una cosa sul bambino. Il satanista mi disse che aveva sognato che avrei avuto una bambina, e che il suo nome sarebbe cominciato con la lettera A. Nel suo sogno, cercavo di nascondere la bambina nello sgabuzzino, ma lei continuava a gattonare fuori. Il satanista aspettava che arrivasse una donna che aveva conosciuto in internet. La donna comparve ed era vecchia e non si era lavata. Parlammo tutti e tre, poi loro due andarono al piano di sopra. Rimasi nella stanza vuota finché arrivò Scott. Poi gli dissi quello che dovevo, qualunque cosa fosse. *** All’ospedale non volevano darmi la mia bambina, all’inizio—anche se li imploravo. Una donna coi guanti spinse dentro una culla di plastica su ruote. Volevo prendere in braccio la bambina, ma non sapevo come fare. Scott lo sapeva, ma disse che pensava avesse bisogno di un pannolino nuovo, e non sapeva se sapeva come fare. Aprii il pannolino. Una sostanza nera le ricopriva la pelle. Ci guardammo. Era tranquilla. Presi le salviettine da sotto la culla e la pulii, misi le cose sporche nella spazzatura. Mi lavai le mani. Scott le mise il pannolino. Poi mise una mano sotto la sua testa e l’altra sotto il corpo e la sollevò. Poi la diede a me e mi mostrò come tenerla in quel modo. Entrò un’infermiera diversa. Mi insegnò come allattare al seno, ma la bambina non voleva. Smisi di provarci. Scott si era messo una camicia button-down per assistere all’arrivo di sua figlia. Aveva indossato gli stessi vestiti per giorni mentre mi accompagnava in ospedale, rimaneva a guardare lo spettacolo con la faccia bianca, tagliava il cordone, dormiva nella poltrona in camera, mi sosteneva mentre camminavo zoppicante fuori nella zona fumatori nel garage. Sedette nel sedile dietro con la bambina. Io guidai. A casa, dormì sul pavimento in un sacco a pelo accanto alla culla. *** Nelle settimane e nei mesi successivi sognai Chuck. Dimenticai di avere una bambina. Poi un giorno mi svegliai e avevo paura di guardare nella culla. Faceva suoni che mi facevano male. Dormivo nel mio letto tenendomi le parti intime come volessi proteggerle perché erano state tagliate e squartate e cucite. Quando feci una doccia sentii tutto quanto; vedevo alcuni dei fili neri che tenevano insieme la pelle rosa e viola intorno al lungo bianco tessuto cicatriziale. Nessuno mi aveva detto cosa fare. Decisi che non sarei tornata dalla dottoressa che avevo pregato che non mi tagliasse, anche mentre già mi incideva. Nemmeno per farmi togliere i punti. La mia camera e la camera della bambina erano la stessa camera. Stavo nel seminterrato della casa dei miei. Non sapevo molto di bambini, me ero piuttosto sicura che non dovessero vivere sottoterra. Era freddo e buio. Forse era questo che non andava bene per lei. I suoi enormi occhi blu mi guardavano mentre la cullavo fino a che si addormentava, lì. Affondai il naso nei suoi capelli. Memorizzai quell’odore. *** Quando la toccavo, credevo sentisse la mia disperazione. La mia bambina, la bambina di Scott. Quando piangevo la notte, pensavo di farlo in silenzio, ma si svegliava sempre, e allora piangevo e la cullavo e cantavo e piangevo e cullavo e cantavo. La diedi a mia mamma e me ne andai. Sentivo le braccia vuote. Pensai di far uscire di strada la macchina e farla finire nel fiume freddo, invece uscii a bere con Chuck. Era già quasi l’alba quando andammo a casa sua. C’era un divano, ma ci sdraiammo entrambi sul materasso gonfiabile. Gli davo la schiena, girata sul fianco. Dissi quello che stava aspettando. Si girò e mi mise un braccio intorno, il suo corpo contro la mia schiena. Mi baciò il dietro del collo. Sentii denti. Mi voltai e lo baciai sulla bocca. Era autoritario, anche se tenero in un modo che non mi aspettavo. Era un edonista. Era qualcosa nei suoi polpastrelli. Non ho niente di importante da dire a riguardo, se non questo.

Altro dal numero:

Candy e i suoi coltelli

Via della Devozione