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A8N6: Il sesto annuale di narrativa

Il vino speziato

Ho goduto del saluto finale agli spettatori come se fosse indirizzato solo a me, che mi chiamo Jaufre Rudel, e sono l’estensore della più grande storia d’amore non consumata da che esiste l’uomo.

Foto di Ruth Van Beek

MOVIMENTO 1

Il mio vino speziato, la mia elegia duinese, la mia vergogna e il mio orgoglio, il mio passaggio in India, il mio pensiero del risveglio e la mia pigrizia mattutina, la mia quinta sinfonia diretta da Schuricht e il mio tentativo di suicidio e la mia allucinazione più violenta, il mio finale di partita e il mio desiderio struggente, il mio fraseggio ispirato e la mia fine nella quale è il mio principio si chiamano Susanna. L’unica donna che abbia mai amato, l’unica donna che mi sia vergognato d’amare, l’unica donna che sia stata donna amata. Solo ieri ho trovato un video in cui parla a un festival (odio questa parola e penso che si dovrebbe dire festa o meglio ancora l’antiquato e caldo rassegna, non festival) solo ieri ho trovato un video in cui Susanna parla a una rassegna del documentario geopolitico, Susanna ricorda una giornalista russa divenuta famosa dopo essere stata assassinata, le ho guardato bene gli occhi nel piccolo riquadro miracoloso del mio iPad, le ho visto le imperfezioni dell’arcata dentale inferiore, ho misurato l’intensità sfumatissima della sua voce, ho goduto del saluto finale agli spettatori come se fosse indirizzato solo a me, che mi chiamo Jaufre Rudel, e sono l’estensore della più grande storia d’amore non consumata da che esiste l’uomo.

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Il mio vino speziato nasce da una ricetta della mia bisnonna, Franca, di origine ginevrina, la quale l’aveva ricevuta da sua madre, che l’aveva ricevuta dalla sua bisnonna, e mia sorella Carla guida la distilleria di famiglia che produce il miglior ippocrasso o vermouth che dir si voglia che venga venduto in Italia, a volte mi rivelo a un estraneo quale produttore del famoso vino speziato e può darsi che l’estraneo non l’abbia mai bevuto, in quel caso non accade nulla, ma se l’ha bevuto può diventare perfino imbarazzante liberarsi di lui, inventare un pretesto per stringergli la mano e scappare via. A volte, scherzando con mia sorella minore Carla, ci diciamo che il nostro vino speziato dovrebbe essere messo fuori legge, ci vorrebbe un altro protezionismo, perché è evidente che stordisce le persone più di qualunque droga, perché le erbe che la bisnonna Franca ci ha tramandato nella ricetta costituiscono un filtro che solleva dalla realtà chi lo beve. Alcuni raccontano di aver veleggiato sulla nave di Ulisse, altri, vittime di quelle che nella casistica mia sorella e io chiamiamo allucinazioni astronomiche, riferiscono di aver visto un’eclisse totale di Luna quando non c’era o aver planato sulla superficie di Venere a non più di cinque chilometri dal suo infernale deserto e ci sono stati casi di acute forme di depressioni con idee suicidali annientate da un bicchiere del nostro vino speziato. E cosa dire di quanti, disperati per l’ennesimo fallimento, l’ennesima sconfitta, l’ennesima constatazione che la loro vita di merda, a quaranta, cinquant’anni suonati, non sarebbe cambiata mai più, si sarebbe rivelata di una piattezza desolante, si sono buttati sul nostro vino speziato e invece di trarne la distruzione graduale e definitiva, hanno ritrovato gusto nella vita. Nemmeno gli spot pubblicitari che i nostri pur ruffianissimi e falsissimi pubblicitari hanno escogitato negli anni per noi sono all’altezza dei reali meriti del nostro vino speziato. Per una volta tanto, quegli spot sono disonesti nel senso che sono ben al di sotto dell’effettiva bontà del prodotto, che per la sua straordinarietà non può essere reclamizzato in nessun modo, nemmeno se Lucifero stesso, come pure è avvenuto, possedesse l’anima del capo dell’agenzia pubblicitaria che si occupa del nostro vino speziato.

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Quanti ricordi dalla parte ginevrina, cioè materna, della mia famiglia. Le mie prime crisi depressive sulle gambe di mia nonna, quando avevo credo non più di sette o otto anni. Quando la supplicavo di soffocarmi con i suoi rossetti, di pugnalarmi negli occhi con le aste dei suoi occhiali da vista, di strangolarmi con la sua collana di perle, e le sue risposte con marcato accento francese erano sempre uguali: smettila di essere orribile, smettila di essere mostruoso. Horrible e monstrueux erano i miei nomignoli con nonna Elietta, e a volte anche uovo nero, per il modo in cui mi raggomitolavo negli angoli più sporchi della casa, o prince of death, come il personaggio di una favola che mi ero inventato e che, contro le regole, raccontavo io a nonna la sera quando mamma, che si chiama Lucia, era fuori, e Elietta mi metteva a letto. Che accadeva quando Elietta dormiva insieme a me? Non ricordo i suoi sonni, ricordo quel dolce sprofondare di un bambino accanto al suo corpo caldo e profumato di cruda età, di rovine umane. Ricordo la sclera dei suoi occhi opacizzata come da una sottile lamina di veleno, ricordo come la trovassi mostruosa e insieme affascinante, ricordo come Elietta fosse l’incarnazione della mia vita futura nonostante non fosse più molto altro che parole e sguardi. Non ho mai parlato a nessuno di nonna Elietta, nemmeno a mia sorella Carla, per un giusto pudore, ma ora sono lanciato oltre il pudore, perché entro questo mese, meravigliosamente bello maggio, ho deciso infine di dichiararmi a Susanna, ancora una volta, a più di otto anni dall’ultima dichiarazione e dall’ultimo rifiuto, e so già che Susanna mi rifiuterà ancora, perché non molto è cambiato da allora in lei, mentre io sono innamorato, lanciato oltre il pudore, nonostante sia così lontana, ora in Iran, quindi la mia dichiarazione non sarà più faccia a faccia in una birreria studentesca, sarà una mail, Jaufre Rudel ora raccogliti in te stesso, batti la tua compagna di una vita, l’insonnia; vai a letto nella tua camera dalla finestra piccola, entra in un sonno caldo di sole, dormi di giorno, fai come i bambini.

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La magione dove ho trascorso l’infanzia. Così da bambini la chiamavamo, la magione, una villetta sul litorale laziale, con il giardino davanti e dietro, con i salici che cadevano le notti di tempesta. D’inverno non c’era nessuno, solo noi. A scuola avevo già smesso di andare, non vogliono un bambino che piange e che si piscia sotto la sedia. Poiché ero il primogenito della famiglia che produce il celebre vino speziato, quella prestigiosa e severissima scuola privata cattolica insisté per tenermi nelle sue classi sotto le sue croci e tra le gonne dei suoi preti. Io non avevo nulla contro le croci e le gonne dei preti, posso anche dire che le trovassi drammaturgicamente affascinanti, ma avevo tutto contro l’aula, quello stanzone rettangolare con un pannello di legno che correva a mezz’altezza lungo le quattro pareti come un recinto. Il giorno che mi pisciai sotto, non osando chiedere di andare in bagno, fui raggiunto all’uscita da Amin, un bambino di origine araba, figlio di un facoltoso finanziere tunisino che poi, seppi, venne ucciso nel corso di una rapina nella sua villa, e Amin mi disse scusa se mi sono messo a ridere. Tutti avevano riso, com’è logico, solo Amin si scusò. Non devi scusarti, comunque me ne vado da scuola. Mi chiese dove sarei andato. In un posto bellissimo, al mare, con grandi alberi in giardino, e ho una camera tutta rossa. Addio Amin. Dissi Addio perché in classe avevamo da poco ascoltato una spiegazione sulla differenza tra ciao, arrivederci, addio.

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Durante gli inverni al mare, mentre mamma era spesso via per lavoro, il mio patrigno, malato di nervi, stava con me e Carla, la mia sorellina di tre anni più piccola che poteva andare alla materna di quella cittadina di mare. Il caso di Alberto, il mio patrigno, non era un caso grave, semplicemente aveva sviluppato un’acuta insofferenza ai rumori, in particolare ai rumori periodici, quelli che si ripetono a intervalli regolari. Certe volte si alzava da tavola a metà del pranzo lamentando un ronzio o, come lo chiamava lui, il tinnitus. A Roma questo disturbo era diventato così grave che non riusciva più a dormire e il medico gli aveva consigliato di provare a andare in campagna, e abituarsi ai suoni naturali, ritrovare confidenza col rumore di fondo dell’esistenza, per il quale invece aveva cominciato a provare panico. La cura non dev’essere il silenzio, al contrario, quello non può che peggiorare il tuo disturbo, devi ricominciare a ascoltare con serenità tutto ciò che ti circonda, senza ansie. Così gli aveva detto il medico, e Alberto sarebbe potuto andare in campagna, invece decise che sarebbe venuto a stare con me al mare, dove in precedenza mia madre aveva già deciso di mandarmi con nonna Elietta a cominciare da quell’inverno. La casa era stata preparata a accoglierci, quando aprimmo le persiane e poi le porte a vetri il suo odore non era viziato né ostile, era l’odore di un estraneo che ti mostra il tuo comodino, apre il primo cassetto, ne toglie alcuni oggetti qualunque come salviette di carta o un pacco di biscotti, e ti dice che sono tuoi.

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Quasi subito dopo il trasferimento nella borghese villa senza pretese (mia madre aveva tolto il saluto a una sua amica che aveva acquistato un’arcachonnaise  per le vacanze estive dei bambini, anche se naturalmente quello fu solo il pretesto per sbarazzarsi di una persona che, alle sue spalle, l’aveva ridicolizzata per avermi tolto da scuola solo perché frignavo) in quella cittadina all’epoca deliziosa a circa trenta chilometri da Roma, ricevemmo di mattina all’alba una telefonata della signora Dorilla che ci informò che il fratello del mio patrigno, quella stessa notte (tutte le notti sono maledette e portano morte, questo l’ho imparato attorno ai cinque sei anni) laggiù in Sicilia dove abitava in una cadente ma a suo modo signorile casa nei pressi di un antico cimitero, con i colombi che facevano colazione, pranzo e cena insieme a lui nel soggiorno, e quando era bel tempo sulla terrazza che dava sullo Stretto, ebbe una violenta colica. Ora non ricordo se con questo mio zio acquisito, che si chiamava Aroldo, fu tentata subito un’operazione e, come si dice popolarmente, aperto e richiuso quando si vuol significare che i medici si rendono conto che la malattia è in stato talmente avanzato che non c’è più niente da fare, o aperto, operato per l’operabile e richiuso, in ogni modo ricordo il giorno, poco prima di pranzo, quando uno dei due cancelli della villa venne aperto da mia madre e il mio patrigno parcheggiò nel viale lastricato in pietre di un granito tra il grigio e l’azzurro, scese dalla bmw e aiutò quest’uomo già magro, ulteriormente smangiato dal cancro al pancreas, con le orecchie appuntite da lupo, i capelli bianchi pettinati all’indietro con la lacca, a scendere e a prendere possesso dell’ala posteriore della villa, accomodarsi e restare eternamente seduto sul divano, fuso con esso come il Cristo e la madonna nella Pietà Rondanini.

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Lo zio morente, che avevo visto solo in un’altra occasione in Sicilia, quando ero molto piccolo, e di cui avevo il vago ricordo di una barba mal rasata quando mi aveva obbligato a baciarlo, e del modo del tutto peculiare in cui infletteva la voce, con un parlare basso che improvvisamente, con scarti allarmanti, si arrampicava in falsetti acutissimi, fu il primo a parlarmi senza pudore dell’amore. Dopo aver giocato un po’ a battaglia navale, un giorno in cui si sentiva un po’ meglio e non aveva rimesso la colazione, mi disse, infossato nel suo divano e avvolto in piumini e coperte che s’intricavano come una selva sopra il suo corpo esile: l’unica felicità nella vita è l’amore. È una frase che, come chiunque, ho sentito ripetere tante volte, soprattutto da sedicenti nichilisti dall’occhio spento e il discorrere biascicante, ma quella era la prima volta che la sentivo e che la sentivo da un adulto che stava per lasciarci tutti. Dunque non c’era in essa la minima traccia di rassegnata consolazione con cui viene pronunciata da gente alla quale non è stata diagnosticata una morte ineluttabile, gente che dice l’unica felicità nella vita è l’amore e che vorrebbe aggiungere perché purtroppo i soldi, che pure ho accumulato in maniera vergognosa, non mi bastano mai. Voglio dire che mio zio Aroldo disse quella frase con la felicità appropriata a chi parli della medesima con cognizione di causa. La saggezza che, come scrive Eschilo, prima o poi raggiungiamo tutti, di rado viene tramandata con altro sentimento se non una contagiosa tristezza. Mio zio avrebbe messo in scena l’Agamennone con grande gioia di vivere. Però poi mio zio aggiunse un’altra frase: ma come c’è chi non sa nuotare e al mare si annoia, c’è chi non sa amare. Quelli sono condannati, perché nella vita non c’è nient’altro da fare.

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Alberto, che mi vedeva spesso in compagnia di suo fratello, era impressionato e stupito del piacere che traevo dall’ascoltare un malato terminale. Non gli dissi mai che Aroldo aveva occhi più belli dei suoi, che i discorsi che mi faceva erano più liberi e floreali, ossigenanti, mentre i suoi erano di ferro, bruciati e sempre, per così dire, in divisa da ufficiale. Una traccia dell’esoticità siciliana, del raffinato accento, della cadente casa infestata dai colombi, permeavano la mia naturale diffidenza verso le lontananze e diventavano un’irresistibile attrazione per nuove terre. All’estate mancavano molti mesi ma mi sembrava che in tutti i discorsi di Aroldo le cose fossero sputate dal sole, come noccioli di frutti. Alberto non amava suo fratello o meglio, come accade spesso tra fratelli, l’amore era così perfettamente fuso con un odio omicida che l’amore, quando si esprimeva, doveva sempre segnalarsi come un atto d’eroismo. Certo, non c’era nulla d’eroico nell’aver trascinato via il fratello dai perniciosi e bizzarri parenti siciliani per curarlo a dovere da noi o, per meglio dire, accompagnarlo alla morte, eppure Alberto mi camminava accanto nelle lunghe passeggiate o in bicicletta quando l’accompagnavo per la spesa mantenendo un silenzio eroico. La sua ossessione per i rumori, il tinnitus o come altre volte lo chiamava quando si faceva grave il riverbero, era scomparso di colpo. Il grande rumore ora era tornato a essere ciò che era essenzialmente: il caos dell’esistenza, la vulnerabilità delle nostre difese all’invasione della degenerazione, la presa di coscienza che l’informe non ha tonalità né convenzionali squilli d’annuncio.

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MOVIMENTO 2

Oggi ho preparato una brutta copia della mail per Susanna, la mia dichiarazione. A un certo punto ho avuto persino la tentazione di rinviare ogni progetto di correzione e inviargliela così, giocarmela come un azzardo confidando nella spontaneità del momento. In effetti mi sembra molto bella, però non l’ho ancora inviata. Forse sarebbe meglio mandarla quando sarà tornata dall’Iran, di nuovo a Mosca. No, un momento, non è proprio questa considerazione psicogeografica che mi ferma. Devo essere sincero, altrimenti a che vale? Non è una bella lettera. È troppo pensata, ci sono perfino citazioni da libri che ho letto di recente, mi è scappato ancora una volta un verso di Emily Dickinson e poi prendo la tangente e espongo in un blocco compatto e ostico di righe una mia teoria sul proliferare di film sull’ideologia dell’amicizia, come questo francese che s’intitola Piccole bugie tra amici, del tutto trascurabile salvo che per la presenza di Marion Cotillard, che nello sguardo dagli occhi grandi e nei lineamenti morbidi, somiglia in effetti a Susanna. Scrivo a Susanna che questo film, il cui titolo francese, specifico, è Les petits mouchoirs, oltre a costituire una falsificazione esistenziale gravissima, con il ributtante e frusto espediente della morte finale del caro amico che riunisce i compagni sopravvissuti al suo funerale, in cui le lacrime versate diluiscono qualunque conflitto, e sommergono ogni profondità, l’unico senso di questi film, come anche Le Invasioni barbariche o Il grande freddo e certi film di Ettore Scola, sta nell’esporre con zuccheroso sentimentalismo la crudele opera della selezione naturale, che obbliga gli individui a formare gruppi per la propria autodifesa. L’amica che mi ha accompagnato al cinema mi ha fatto notare, inoltre, la natura essenzialmente misogina di questi film sull’amicizia e io ho pensato che, in fondo, i film sull’amicizia non sono che la variante pacifica dei film di guerra, con le scene di cameratismo, sacrificio, e così via. Cosa può importare a Susanna immersa in Persia di tutto questo? È semplicemente folle e autolesionistico inviarle una mail di questo genere. Quindi oggi sarà una giornata in cui cercherò di liberare la mente ascoltando un po’ di buona musica e tentando di dimenticare quell’insulso film francese. È anche ora di pranzo, mi preparerò un sandwich Sarah Kane (ovviamente nulla di esaltante: pane a cassetta spalmato con poca maionese, fette di pomodoro San Marzano e di emmenthal). Scusami Susanna.

Oggi posso pensare che il mio desiderio di stare vicino allo zio che lasciava questo mondo era anche dovuto al fatto che nella cittadina di mare, d’inverno, non c’erano amici e benché trovassi, come sempre, molto calorosa la presenza di nonna Elietta dovevo riconoscere che lo zio Aroldo era un soggetto di infinito interesse, come quando vomitava i pasti, dopo che l’avevo visto mangiarli, ad esempio una ciotola di mela cotta. Naturalmente mi era proibito assistere ai suoi pasti, io che già ero così sensibile all’alimentazione, che mangiavo molto poco, che ero spesso infastidito dalla masticazione altrui, che avevo appreso con orrore di una malattia mentale che portava la gente a evitare di nutrirsi e per così dire rivoltarsi come un guanto, mostrare che non erano un sacco disegnato per contenere cibo, che l’interno era incapace di contenere quanto l’epidermide, che tutto di sé era divenuto esterno assolato. Quindi io e la mia sorellina Carla mangiavamo i quattro pasti della giornata nell’ala frontale della villa, mentre lo zio sfidava le pietanze in quella posteriore. L’ala frontale era quella che dava sul mare, il cancelletto si apriva su un ponticello che superava un canale di scolo e in cinque minuti si raggiungeva la spiaggia. Carla, io e Alberto facevamo questa passeggiata quasi ogni pomeriggio, se non era troppo brutto. Carla non si rendeva conto di quanto zio Aroldo stesse male, o se ne rendeva conto in un modo confuso, nella sua percezione la vita e la morte erano ancora impastate, e ci faceva ridere quando ogni tanto se ne usciva con affermazioni chiaramente ricavate da certi insegnamenti calvinisti che provenivano dalla nostra bisnonna Franca. Era così divertente camminare verso il mare e sentire la compagnia di questa bambina di non ancora sei anni che pronunciava parole come superstizione e frasi come pregare in piedi e in silenzio. Qualche volta, durante le nostre passeggiate, chiesi a Alberto se avremmo potuto portare zio Aroldo con noi, a vedere il mare. Alberto mi rispose che il fratello il mare lo conosceva da quando era nato e non l’aveva mai amato. E che però, se si fosse sentito meglio, certo l’avremmo portato con noi, perché alzarsi da quel divano gli avrebbe fatto bene, perlomeno all’umore. Il mio patrigno, dall’arrivo di suo fratello, con la scomparsa del tinnitus e di altre piccole nevrosi compulsive, era diventato più lucido, per la prima volta non mi spaventava. Ero sempre stato così terrorizzato dall’enorme interiorità buia della sua personalità, come se potesse impazzire di colpo e abbatterci tutti. Rivelò persino un’inaspettata dolcezza, cominciò a prendermi in braccio, a baciarmi sulle guance, a indicarmi dalla riva dei punti lontani sulla costa, qualche nave o barca a vela temeraria, a chiedermi in prestito i Topolino che leggeva veramente, con l’attenzione che si presterebbe al libro di Geremia. Gli piaceva molto il personaggio di Macchia Nera.

La sera a volte, prima di andare a dormire, nell’ala posteriore della villa, mi sembrava che zio Aroldo fosse un mostro marino. I suoi occhi aperti erano vitrei, strani rumori si sentivano nella stanza e un odore salmastro invadeva il salone. Mamma era lontana per lavoro, Alberto fumava la pipa in giardino, allora poteva capitare, come quella tarda sera di febbraio, che apparisse all’improvviso nonna Elietta con una coppa di vino speziato caldo. Non era la stessa bevanda che usciva dalle nostre distillerie, era una variante elaborata da una mia prozia che per il suo effetto euforizzante dovuto all’elevato tasso alcolico e a certe particolari erbe non era mai stata prodotta industrialmente. Nonna ne beveva una coppa ogni tanto, forse una o due volte in un mese, prima di dormire, e ci fu una sera in cui zio Aroldo le chiese cosa stava bevendo allora nonna Elietta gliene offrì un sorso, e dopo aver bevuto zio si alzò in piedi, per la prima volta. Si slacciò da quelle liane invisibili che lo trattenevano al divano, infilò i piedi nudi dalla pelle come scorza d’arancio nei mocassini marroni e mi prese per mano e raggiungemmo Alberto in giardino. Senza dire una parola, uscì fuori accompagnata da un soffio di vento stranamente caldo anche nonna Elietta, come un indistruttibile albatro antartico, come se lei stessa riscaldasse la sera d’inverno, e passò la coppa a Alberto che staccò la pipa dalle labbra e bevve due sorsi. Quindi decidemmo, ancora senza parlare, di uscire, anche se era quasi mezzanotte, e andare al mare. E quando fummo davanti al mare d’argento, tempestoso, sconvolto dal vento, con la sabbia che sollevata in mulinelli ci sporcava la faccia, seguimmo una via luminosa di luna lungo la riva fino alla casamatta sul promontorio. Quella vecchia casamatta in calce e brecciolino da cui sporgevano travi arrugginite come lance infilzate nel suo corpo duro, mi aveva raccontato Alberto in una delle nostre passeggiate, aveva ospitato i soldati tedeschi di vedetta contro gli sbarchi degli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Era stata costruita anche spogliando materiali da una villa romana del primo secolo avanti Cristo i cui resti si trovavano poco distante, una villa forse abitata da Pompeo. La feritoia buia della casamatta che, più propriamente, era una torre d’avvistamento, mi aveva spaventato e irresistibilmente attratto dal primo giorno in cui l’avevo vista, e ogni volta che avevo tentato di avvicinarmi per guardare all’interno della casamatta una singolare ripulsione mi aveva allontanato, come se al suo interno potessero esserci le ossa dei tedeschi. Ma non appena mi allontanavo e la osservavo da una rassicurante distanza, provavo il misterioso desiderio di impossessarmi della casamatta, di conquistarla balzandoci sopra come un animale e di farne il mio nido, immaginavo di reimpiegarne a sua volta le spoglie e le ossa dei tedeschi così da ricavarne un’abitazione, una tana come quella che i nipotini in Topolino si facevano sopra i rami di un albero nella loro casa di Paperopoli, benché considerevolmente più macabra e tutta rigorosamente bianca. Quella notte sul promontorio, affaticati ma in preda a una memorabile esaltazione, io stesso avevo bevuto un po’ di vino speziato dalla coppa di nonna Elietta durante il cammino sulla spiaggia, chiedendolo insistentemente fino a spazientire tutti, Zio Aroldo cadde o scivolò a terra di schiena producendo un forte tonfo sulla terra soda che ci allarmò, aveva battuto l’osso sacro e emise un gemito, un urlo animale, lo soccorremmo ma lui non ci lasciò avvicinare, di colpo era felice, un piccolo dolore l’aveva liberato da uno più grande, gridò che non era così orribile vivere quella notte, lo gridò al vento e al mare, puntò alla casamatta un indice scuro, che sembrava intinto in un inchiostro nero, la mia tomba, disse, ora l’ho vista.

MOVIMENTO 3

E non so se già il giorno dopo quella notturna escursione fino alla casamatta zio Aroldo cominciò a raccontarmi le visioni che aveva, sia da sveglio che nel sonno, della sua compagna, Dora (o signora Dorilla), da morta. Non voglio toccare il suo corpo freddo, mi diceva, e tutti eravamo stupiti di quella singolare inversione di paure, perché Dora che da Messina chiamava ogni giorno non era affatto spaventata né preoccupata della malattia di zio Aroldo, o nascondeva le sue emozioni oppure si era rassegnata, ben conoscendo il decorso segnato da quel genere di patologie, perché di un cancro all’esofago era morto suo padre. Una volta, al telefono, zio Aroldo le disse Dora amore mio non voglio toccare il tuo corpo freddo e continuò a parlarle di come l’aveva vista da morta, distesa nel letto, bianca come una statua di Canova. La cosa più stupefacente fu quando, qualche mese dopo il ricovero di zio Aroldo in una clinica privata a Roma, Dora si ammalò a nel giro di tre giorni morì. Non glielo dicemmo mai, zio Aroldo se ne andò alcune settimane dopo, incapace di intendere e volere, con la pelle insolitamente chiara per un meridionale interamente coperta di macchie color caffellatte. Sembrava un felino. Era magrissimo, la carne poco più che una carta stampata sopra lo scheletro. Quando morì io piansi e mi ricordai, come ricorderò per sempre, quelle sue parole al suo amore, alla signora Dora, di poco più grande di lui, con la quale aveva convissuto senza sposarsi per venticinque anni, in un rapporto sempre molto chiacchierato, perché si diceva che Dora, in realtà, fosse come una madre incestuosa, e che non fosse di poco più grande di lui, ma sotto la pesante maschera cosmetica che portava sempre, una poltiglia bianca sulla pelle del viso e le orbite e le labbra color prugna come una contessa al crepuscolo dell’Ancien Régime, si sarebbe celata una donna di trent’anni più vecchia di lui. Addio zio Aroldo. Non hai toccato il corpo freddo di Dora né lei il tuo.

Prima di partire per sempre, e prima di essere trasportato dalla nostra villa di mare alla clinica, zio Aroldo, nelle ultime settimane sul divano, divenne come un giocattolo per me e per se stesso. Facevamo ancora le partite a battaglia navale, le parole crociate, poche partite a scacchi e a dama perché quei giochi di riflessioni lo spazientivano, così come poche partite a carte, che consistevano nell’unico gioco che diceva di conoscere, un gioco che aveva un nome siciliano, ti vitti, ti ho visto. Un gioco di cui non ricordo più le regole, le ho dimenticate subito dopo che zio si è allontanato dalla mia vista. Ma il gioco che aveva inventato e che preferiva era il cielo, zio Aroldo diceva che poteva toccare il cielo e alzava insieme le mani, seguendone le punte della dita con gli occhi, e arrivato poco sopra la testa diceva, ecco, lo sto toccando, e mi raccontava di quali stelle, quali pianeti orbitassero attorno alle sue dita come anelli. Poi improvvisamente faceva schizzare le mani di lato, a destra o a sinistra, proiettandole in un altro sistema solare o addirittura un’altra galassia. Percorreva milioni e forse miliardi di anni luce con le mani. Non si stancava di quei movimenti immensi, perché mi diceva che passava attraverso fonti di energia così potenti che lo tenevano sempre caldo e forte. In fondo anche nel gioco del cielo ciò che importava era attraversare fonti di calore, passare nel calore, stare nel calore, essere nel calore, evitare il freddo. Il gioco del cielo mi affascinava anche se intuivo che c’era qualcosa di assurdo perché non si vinceva né si perdeva, non c’era sfida, c’era solo un movimento che doveva assicurarsi quanto più calore possibile. Non mi sfuggirono, in seguito, i sottintesi sessuali, ne parlai anche con Susanna, quando finalmente la nostra conoscenza divenne, dopo anni che ci eravamo incontrati, un’amicizia confidenziale. Naturalmente nessuno potrebbe mai giocare il gioco del cielo bene come zio Aroldo, che prima di essere portato a Roma dall’autista di mamma, attraversò corpi incandescenti e riuscì anche a estinguersi insieme a loro senza provare né felicità né infelicità.