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Non possiamo più stare zitti di fronte al massacro israeliano a Gaza

Da più di dieci anni i palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza subiscono un assedio brutale.
Proteste a est di Khuza'ah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza. Foto di Muhammad Sabah, 6 aprile 2018.

Sono più di dieci anni che la Striscia di Gaza è soggetta a un assedio brutale. Imposto da Israele dopo l'elezione del governo Hamas nel 2006, il suo obiettivo annunciato era il blocco di tutte le attività economiche di Gaza nel tentativo di far sollevare la popolazione contro il governo.

A tal fine, le importazioni furono limitate a ciò che le autorità israeliane ritenevano necessità umanitaria, mentre le esportazioni vennero quasi completamente proibite. Al tempo stesso, anche per le persone uscire dalla Striscia divenne sempre più difficile. Sotto un'economia in difficoltà e con standard di vita inevitabilmente bassi, da Gaza non si poteva scappare. In molti, incluso l'ex premier britannico David Cameron, l'hanno definita una prigione.

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E come prigione, si dà il caso che Gaza sia una delle aree più densamente popolate del pianeta, con circa 2 milioni di persone strette in quel lembo di terra sulla costa mediterranea. Più del 70 percento della popolazione è formata da rifugiati—ovvero persone che, dal 1948, sono state costrette a lasciare le proprie case nei territori occupati da Israele. Il 15 maggio 2018 segna il 70esimo anniversario di questo tormento senza fine. Inoltre, più di metà della popolazione della Striscia ha meno di 18 anni. E quando parliamo di queste persone non possiamo farlo in modo astratto: tutto ciò che Israele e i suoi alleati impongono a Gaza, lo impongono principalmente su bambini e ragazzi.

Nel 2015 il tasso di povertà a Gaza ha toccato il 39 percento a fronte di un 80 percento della popolazione destinatario di aiuti umanitari. La disoccupazione ha raggiunto anche picchi del 43 percento (e quella giovanile, al 60, è la più elevata nella regione). Nel 2008-2009 e nel 2014 le operazioni militari israeliane nella Striscia hanno provocato più di 2500 morti—principalmente civili, tra cui 900 bambini—e distrutto 24000 abitazioni. Il tutto in un territorio in cui l'acqua potabile scarseggia e che l'ONU nel 2015 ha definito potenzialmente fisicamente invivibile entro il 2020. Il capo dei servizi segreti israeliani si era trovato d'accordo con la previsione, mentre un aggiornamento ONU del 2017 ha definito la proiezione eccessivamente ottimista.

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Nelle ultime settimane, decine di migliaia di persone a Gaza si sono mobilitate in protesta. La marcia del ritorno, come è conosciuta, è stata non-violenta. A fronte delle provocazioni di Israele e dei suoi tentativi sempre più disperati di presentare queste manifestazioni come minacce militari, non ci sono stati lanci di razzi da parte di Hamas o altre fazioni palestinesi, né vittime israeliane.

Una manifestazione a est del campo profughi di al-Bureij, nella parte centrale della Striscia di Gaza. Foto di Khaled al-'Azayzeh, 13 aprile 2018

Lo stesso non si può dire del versante palestinese. In quello che Amnesty ha definito un "attacco omicida" contro "manifestanti che non rappresentavano una minaccia imminente," nelle ultime settimane i militari israeliani hanno ucciso decine di palestinesi (40 fino al 10 di maggio, inclusi cinque bambini. I feriti sarebbero 6000, 2000 dei quali per colpi di arma da fuoco). Nella maggior parte dei casi analizzati da Amnesty, le vittime sono state colpite nella parte superiore del corpo, petto e testa incluse. Altri, alle spalle. Lunedì, mentre scrivevamo questo pezzo, a Gaza ci sono state più di 40 vittime (e il conteggio è destinato a salire) in concomitanza con le proteste per lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme.

Questa serie di morti non è accidentale né frutto dell'iniziativa di singoli soldati israeliani. I militari—per citare l'organizzazione umanitaria israeliana B'Tselem—"cecchini inclusi, hanno sparato per ore sui manifestanti," e non facevano altro che applicare politiche ufficiali. A qualche ora dalla prima protesta a Gaza, i vertici militari israeliani hanno annunciato il posizionamento di 100 tiratori scelti lungo il confine con l'ordine di ricorrere alla forza. Il Ministro della Difesa—che in un'altra occasione ha fatto sapere che a Gaza non ci sono innocenti—ha dichiarato che "chiunque si fosse avvicinato al confine avrebbe consapevolmente messo in pericolo la propria vita."

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Con una classica mossa da manuale delle PR, Israele ha giustificato questa operazione sulla base del diritto all'autodifesa. Ma secondo le leggi internazionali Israele non ha alcun diritto di ricorrere alla violenza per mantenere un'occupazione illegale e un assedio criminale. Svariate organizzazioni per i diritti umani hanno condannato il blocco di Gaza in quanto "punizione collettiva" imposta "in palese violazione del diritto internazionale." In passato il Consiglio per i diritti umani dell'ONU ha chiesto che l'embargo su Gaza venisse rimosso "immediatamente e senza condizioni," richiesta poi reiterata ad aprile del 2018 dalla maggioranza del Parlamento europeo.

Le alternative in linea con le norme internazionali non sono mancate. Al livello più basso, è stato chiesto per esempio di "non sparare ai bambini." E persino Hamas ha più volte annunciato la volontà di un cessate il fuoco reciproco e a lungo termine con l'obiettivo di porre fine al blocco. "Queste richieste non sono mai state discusse," riferiscono fonti israeliane, "dal momento che Israele non dialoga con Hamas." Lo stesso vale per la soluzione dei due stati. Finché Israele rifiuta tutto ciò, non può definire le sue operazioni su Gaza o nella West Bank come difensive. Perché quello che sta facendo non è altro che la perpetuazione di un'illegalità.

Oggi 15 maggio, in occasione della marcia del ritorno, 100mila palestinesi dovrebbero radunarsi lungo un confine sorvegliatissimo. Ci saranno tentativi di forzare il confine, e qualcuno lo farà a spese della propria vita.

Anche in questo caso da parte palestinese c'è la volontà di applicare una protesta non-violenta, ma come ha scritto il Guardian di recente, "la non violenza palestinese richiede un non silenzio globale." La gente di Gaza ha bisogno di noi perché questa strategia non violenta possa funzionare. Se alle proteste di Gaza si risponderà con sempre più numerose manifestazioni di solidarietà da tutto il mondo, Israele potrebbe essere indotto a cambiare il suo approccio verso la Striscia. È difficile prevedere quanta pressione sarà necessaria. Ma una cosa è certa: mentre a Gaza la popolazione tenta di evadere dalla sua prigione, la loro unica armatura, la loro unica difesa contro il muro di cecchini israeliani siamo noi.

Muhammad Shehada è un autore e attivista della Striscia di Gaza. Studia presso la Lund University in Svezia e ha lavorato come field researcher per l'Euro-Med Monitor for Human Rights a Gaza.

Jamie Stern-Weiner, israelo-britannico, è il curatore di Moment of Truth: Tackling Israel-Palestine’s Toughest Questions (OR Books, 2018).